Camelot

Parte V

 

Warning!!!

 

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RAPPORTI

 

Marzo 2006

 

I faldoni sulla scrivania coprivano ogni centimetro e nel posacenere riposavano esausti un numero imprecisato di mozziconi, di quelli del pacchetto blu con l’elmo. Il ronzare del computer riempiva l’aria insieme all’odore del fumo e a quello di un turno, lungo settantadue ore.

Il commissario irrequieto, oltre che esausto, dopo i postumi di quella che doveva essere una semplice  manifestazione contro il Cpe, e che si è trasformata in una guerriglia urbana. La città messa a fuoco e fiamme, affumicata dai lacrimogeni, invasa da studenti arrabbiati, picchiatori, giornalisti, fotografi numerosi come le mosche e poliziotti sull’orlo di una crisi di nervi.

Bella primavera…

Nell’ultimo rastrellamento tra la fauna più varia, aveva beccato pure lei. Era una vita che non la vedeva, sei anni.

L’aveva interrogata poche ore prima, ma riconosciuta subito, appena uscita dalla cella, ancor prima di leggerne il nome. Diversa dall’ultima volta, da quella sera. Gli si era presentata con gli occhi bassi, non per timore, vergogna o rassegnazione, ma perché era semplicemente stanca. La gabbia fiacca le ossa, e come se non bastasse l’ambiente, c’è sempre qualcuno/a che ha voglia di sfogarsi… e non c’è  niente di meglio dei nuovi arrivati, specialmente se sono già stati pestati.

Con la frangia davanti agli occhi, il labbro spaccato, un bel livido viola sullo zigomo, l’odore della cella mescolato a quello di fumo dei lacrimogeni, sgualcita con un ginocchio sbucciato ed una mano fasciata, ma sempre lei. È bastato che sollevasse gli occhi e glieli piantasse dentro per non avere più dubbi. Una faccia da schiaffi, tosta senza limiti. Poi quel gesto, roba da matti! I capelli rossi  sciolti, appesantiti anche loro da quelle ore, come un sipario le celavano parte del viso, il distratto passare delle mani che li raccoglievano, poi li spostavano e ne sistemavano due ciocche anarchiche dietro le orecchie. Quella sera, invece, aveva i capelli raccolti in uno chignon stretto, anzi strettissimo, ma ugualmente una ciocca sfuggiva beffarda.

 

“Grazie. Le devo un favore”.

Poche parole, accompagnate da quel gesto. Quella sera.

 

“Buongiorno commissario”.

Poche ore prima.

 

“Rapporto giudiziario sul rastrellamento avvenuto in rue … a seguito dei disordini di place… (a cura del commissario Vincent C. de Girodel).

 

Dalle indagini relative al fatto in oggetto è emerso quanto segue:

 

il giorno … del mese di marzo, 2006, in place … all’altezza del civico 459 si sono verificati i seguenti atti vandalici ad opera di un gruppo 15 ragazzi, 7 dei quali minorenni (vedi elenco).

- Incendio delle auto posteggiate

- lancio di bombe molotov contro le vetrine dei negozi

- pestaggio di tre studenti universitari (vedi elenco).

 

Il fondo della piazza si conclude con un piccolo angiporto, che come un budello chiude la zona, sul lato destro del suddetto luogo si apre un passaggio pedonale che porta in rue … dopo una curva a gomito. All’arrivo della polizia i ragazzi si sono infilati in questo passaggio, abbandonando la scena, mentre dall’altra parte gli agenti del ten. Rosel erano schierati in assetto antisommossa. Il lancio dei lacrimogeni ha condotto anche una parte dei manifestanti a scappare verso il viottolo, lo stato di confusione e l’agitazione generale ha costretto le forze dell’ordine ad agire in modo deciso di fronte alle loro rimostranze.  In totale sono state prese n. 35 persone, che sono rimaste in fermo cautelare fino alla conclusione di tutti gli interrogatori, conclusi in data… alle ore…”

 

“Buongiorno a lei… signorina… come mai in giro senza documenti?”

 

“Veramente i documenti, come la tessera della stampa, li avevo, ma durante i fatti che lei conosce ho smarrito la borsa”.

“Quali fatti? Potrebbe essere più precisa! Cosa ci faceva lei là?”

“Ero al lavoro commissario. Come tutti gli altri fotografi. Solo che mi sono trovata in mezzo a due fuochi, picchiatori da una parte, lacrimogeni e manganelli dall’altra”.

“Mi scusi, ma lei non lavora in radio? Inoltre come giornalista scrive d’arte e architettura. Cosa c’entra con le manifestazioni di piazza?”

“Cosa vuole commissario, mica di sola arte vive l’uomo. Collaboro con un’agenzia e già da qualche tempo tento il passo. Provo come free-lance nei fatti di cronaca… e questa era un’occasione a cui non mancare”.

“Come mai è finita in mezzo agli studenti? E che fine ha fatto la sua macchina fotografica?”

“Cercavo il loro punto di vista, e per quello che riguarda la macchina l’ho perduta”.

“Lei mi offende, le sembra che posso credere che un reporter smarrisce la macchina?”

“Diciamo che mi è stata prelevata…”

“Da chi?”

“Qualcuno”.

“Signorina, non mi faccia perdere tempo. Dato che sembra soffrire di una leggera amnesia, penso di trattenerla. Inoltre dobbiamo concludere gli accertamenti, forse lei non è quella che ci ha detto di essere”.

“Commissario le ho detto la verità. Mi chiamo Julia Ricci, sono iscritta all’ordine dei giornalisti, tessera 74227. Abito in rue… n. 13 a palazzo detto “delle corna”. Lavoro nella redazione di Carnet e presso Europe 2”.

“Signorina Julia Ricci – Label, lei ha una situazione patrimoniale tale da escludere una possibile precarietà economica; quindi non mi venga a raccontare ‘che le serviva da lavorare’. Lei voleva essere lì… lei ha visto qualcosa, ed adesso mi faccia la cortesia di rispondere!”

Ma quanto sei falsa…

Non mi hai riconosciuto! No, direi di proprio di no. Certo, al tempo ero rasta, sbarbato e pieno di piercing. Adesso porto la barba di tre giorni, mi sono rasato i capelli…e poi non faccio il barman.

 

“Avete già controllato il mio stato economico? Non le sembra un po’ eccessivo per un fermo durante una manifestazione? Mi state accusando di qualcosa in particolare?”

“Qui le domande le faccio io, lei è pregata di rispondere”.

“Anche io per lavoro faccio domande e vado a ficcanasare nelle vite altrui e…”

“Allora abbiamo qualcosa in comune… Anche lei deve mantenere la calma davanti a persone che la prendono per il naso?”

“Comprendo”.

“Vuole collaborare? Guardi, le racconto una storia, mi ascolti fino alla fine senza interrompere. Dopo le lascio la possibilità di trincerarsi dietro la sua omertà, oppure se vuole potrà raccontarmi cosa ha visto e come mai lei si trovava lì. Il vero motivo”.

 

Ma porca miseria, ci mancava il commissario “zio” che mi sciroppa la storiellina col doppio senso: “o mi dici o ti chiudo in gabbia fino alla fine dei tuoi giorni!” Possibile? Senti bello, perché sei pure un bello, stanco, ma affascinante, io non ho voglia di dirti nulla. Non posso, non adesso… mi serve tempo e mi serve stare qui! Ho bisogno di ascoltare “radio cella”, che non si riesce ad ascoltare se non direttamente al “gabbio”. Mi servono informazioni che posso trovare solo qui. Quindi non rompere… Cavolo, ma che gli ho fatto?! Perché mi guarda così? A parte che mi sento uno schifo, e ho una voglia matta di buttarmi sotto la doccia per togliere questa sensazione di sporco, unto, fumo… che poi non è una sensazione… sono come uno straccio sporco. Cos’hai da guardarmi così? Ah! Ho capito cerchi l’accordo… cavolo, la cella mi ha rincitrullito… ovvio vuole la conferma.

“D’accordo” ecco, sei contento? Più lo guardo più mi ricorda qualcuno… e se fosse! Avrai anche una bella faccia… però mi ricordi tanto una brutta cosa. Una Julia stupida, con due enormi fette di mortadella sugli occhi, una Julia tonta, ingenua che si è fatta prendere in giro ma che se l’è cavata, grazie alle poche parole dette da un barman… Che rabbia, se ci ripenso mi sale l’acido in bocca.

 

“Bene! Allora posso cominciare. Vuole da bere?” Senti bella, tu mi devi un favore, ed alla fine di questo racconto mi racconterai tutto per filo e per segno. Ci stai arrivando… vero? Mi hai riconosciuto?

 

“Sì grazie… un po’ d’acqua se è possibile” anche se me ne servirebbe una cisterna, per sciogliere il nodo alla gola.

 

Il commissario le passa il bicchiere di plastica, si ode un leggero scricchiolio, mentre lui ha le mani ferme, lei trema leggermente e cerca di nascondere la debolezza portando l’acqua alla bocca. Ormai si sono riconosciuti, ed il racconto inizia proprio con una ragazza che beve.

 

“Un mio caro amico, che faceva il barman, una sera venne chiamato per lavorare in una villa privata. C’era una festa, di quelle esclusive piene di vip e vari generi d’umanità. Lui tranquillo lavorava al bancone, quando la sua attenzione venne calamitata verso una coppia. Lui, era il padrone di casa, lei la sorella di un suo amico. Nulla di speciale fino a qui, se non fosse che nell’insieme, visti così da lontano - ma non troppo - gli ricordarono il leone e la gazzella. Lui, con qualche anno in più all’anagrafe, decenni d’esperienza sul campo, e lei neofita a tutto. In realtà, la fanciulla gli aveva ricordato un po’ Bambi, forse per gli occhi scuri, liquidi ed ingenui, come nella scena del fiore. Quando il cerbiatto annusa il fiore, e da quei grandi petali spuntano quegli occhi puliti. Ecco, la ragazza aveva occhi puliti. L’uomo continuava a portarle da bere, calice dopo calice, lei sorseggiava distratta e  abbandonava presto il vecchio per un nuovo cristallo. Nel frattempo,  accanto al bancone, un gruppo di uomini si erano lanciati in un chiacchiericcio alcolico.

“Quant’è la puntata stasera?”

“Trecento. Segna Cardinale”.

“Il gioco?”

“La doma del puledro”.

“Cavallo di razza?”

“Sì, buona razza e mai sellato. Tu cosa fai? Secondo te sgroppa?”

“Chi prepara?”

Barbablù. Ma non monta lui, anche perché lui oggi alleva. Poi non ci sarebbe gioco. Guardala, è tutto un sì!”

“Bella, severa ed asciutta… ma a me piace un po’ di carne. Chi ci prova?”

Tonno e Fagiano”.

“Scusa… ma quella non è la sorella di…”

“Sì…”

“Ma… cosa dirà…”

“Nulla, l’ha persa. Poi stasera si usa la pillola del “domani non ricordo più che ieri sera ero senza freni”.

“Bastardo!”

“Senti da che pulpito, se ti fossi trovato nei panni di M ti saresti venduto pure tua madre… Al prossimo giro inizia il doping. Che fai, punti?”

“Sì, vincenti Tonno e Fagiano di una incollatura”.

 

Il mio amico decise che era il caso di avvisare il “puledro”. La ragazza si avvicinò al bancone, con ancora il bicchiere, quasi pieno, in mano e il barman le si accostò, poi prelevando il calice iniziò:

“Stasera si gioca ai cavalli”, la ragazza lo guardò dubbiosa, meditando che fosse del tutto pazzo.

“Le consiglio di non bere e di non accettare di bere, di stare attenta…” il tutto condito da un sorriso complice e protettivo.

Lei rimase perplessa, sorrise di rimando e non fece in tempo a chiedere spiegazioni che il padrone di casa l’aveva già trascinata via. Dal bancone li vide sparire dietro un arco, dove prima si erano infilati altri due uomini.

Non poteva fare di più, non in quel caso e sperò che la gazzella sapesse correre più veloce del leone, ma le sue congetture furono tutte annullate poco tempo dopo.

La ritrovò lì, dove le aveva parlato, uguale o quasi a come l’aveva lasciata. Non c’erano più gli occhi di Bambi, ma uno sguardo d’inchiostro dove non si trovava il fondo. Una ciocca era scivolata ribelle e lei se l’era girata dietro un orecchio. Era calma, lucida, fredda e negli occhi c’era un segno… il battesimo.

 “Grazie. Le devo un favore”.

Poche parole, accompagnate da quel gesto. Quella sera.

Poi uscì, attraversando la sala a testa alta, senza salutare nessuno. Il mio amico non la rivide più, anche se, quelle poche parole lo convinsero che, in un modo o nell’altro, si sarebbero rincontrati. Il giorno dopo seppe che i due “fantini” erano stati portati al pronto soccorso. Ad uno avevano diagnosticato un trauma cranico, la risalita e torsione di un testicolo, all’altro lo schiacciamento della trachea insieme alla frattura del setto nasale. La ragazza due giorni dopo ebbe un incidente”.

 

“Cosa successe al barman?”

“Lo spostarono… lo mandarono a Marsiglia per qualche tempo” adesso ci provo.

“Secondo lei, perché la ragazza non disse nulla?”

 

“Forse si vergognava o forse sentiva l’onta di essere stata ingannata. Anche se… alla fine si era difesa. Magra consolazione, davanti al proprio orgoglio, alla propria dignità lesa, o semplicemente non ne ebbe il tempo…”

 

Perché non li ho denunciati? In fondo è stato un tentativo di violenza… mi avrebbero creduto? Piuttosto, io avrei dovuto ammettere che ero stata un’ingenua, che mi ero fatta menare per il naso, che avevo creduto e ceduto alla corte di Maurice, mentre era tutta una scommessa.

Ero quasi certa di aver allontanato da me questo ricordo. Chiuso in fondo al pozzo… invece ritorna.

Maurice che mi accompagna, tutto perfetto e desiderabile. Perché, anche se mi brucia… per lui l’avrei fatto. Mi è sempre piaciuto, proprio per quell’aria da bastardo figlio d’emerita madre. Mi ha colpito al centro, ha fatto leva sulla mia vanità e mi aveva in pugno. Pochi incontri ed ero già sui tizzoni. Ha sbagliato, lui credeva che fossi già completamente brilla, che quell’accidenti di roba avesse già fatto effetto – forse al pothus, in cui ho rovesciato il bicchiere – ma io ero all’erta. Il barista mi aveva svegliato dall’incanto. É strano come poche parole ti facciano cambiare prospettiva, dopo è stato come se vivessi in una bolla e da fuori potessi vedermi…

Mi ha lasciato in quella stanza, nello studio… poi si è allontanato con una scusa, un trillo di cellulare. Brutta carogna lui e io sono stata stupida. Ero stranamente all’erta e tesa, all’improvviso tutta quella situazione mi sembrava assurda. Io in uno studio ad aspettare chi? Sono uscita, ma qualcosa mi ha trattenuto. Ho sentito caldo sul viso, era una mano bollente e sudata che mi chiudeva bocca. Poi buio, non c’era più luce ed io mi sentivo schiacciata da un peso morto contro la carta da parati e poi contro un altro corpo. Non ho capito cosa è successo, ma è scattato qualcosa… non mi sono smarrita nel panico. Ho agito freddamente, come se non fossi io. Anche se, non so dove ho trovato la forza, forse nella rabbia. Non in quella urlata e disarticolata, ma in quella amara e fredda.

Erano due, uno davanti, uno dietro che mi teneva per le spalle e mi tappava la bocca. Non erano molto alti ed erano nervosi, poi s’intralciavano a vicenda. Ho calcolato e sono partita, l’unica cosa su cui mi potevo basare era la sorpresa e la velocità.

Tacco piantato nel collo del piede. Ginocchio al basso ventre. Testata all’indietro ed una all’avanti. Ho avuto fortuna, mentre la ginocchiata allontanava quello davanti, la testata rompeva il naso a quello dietro. Ero libera. Il primo si era accasciato a terra rantolando ed io gli ho lanciato la prima cosa che mi è capitata in mano – il classico vaso cinese di una qualche dinastia – lui si è lasciato cadere all’indietro, rovinando su un tavolino basso di cristallo, che si frantumò immediatamente sotto il suo peso.

L’altro sbigottito, stava scivolando sulla parete…

Senza pietà, ho calciato all’altezza della gola – con forza, come se avessi dovuto fare il cross più lungo della mia vita - lui è caduto ed io ho premuto con tutto il mio peso sulla sua trachea. Dopo sono uscita, il corridoio era illuminato, parte di quella luce mi aveva guidato nella lotta, filtrando da sotto la porta. Ad ogni passo sbolliva la mia rabbia e saliva la vergogna.

Basta! Ho giurato che non avrei mai più concesso uno spiraglio di fiducia, mai più. Incollata la mia dignità a questo proposito, ho ammesso che se fossero morti… non me ne sarebbe fregato niente. Anzi, chissà forse me li sarei trovata davanti con tanto di cartellino all’alluce… ed allora, avrei visto il loro viso come fosse di cera. Fu un battesimo. Forse, togliere la vita a qualcuno non era poi così terribile. Ricordo uno strano formicolio… non era la paura delle conseguenze, ma era il piacere di non aver paura. In un attimo si ruppe la bolla delle mie certezze, delle mie sicurezze, c’era qualcosa che non funzionava, c’erano indizi sparsi ovunque nella mia vita. C’era qualcosa di marcio che mi veleggiava a fianco, che seguiva la mia sorte in modo parallelo. Mi ero ammansita, toglievo lo sguardo da ciò che poteva essere troppo scomodo. Mi ero seduta, ma forse era giunto il momento di tornare a correre. Dovevo pensare, capire, ma soprattutto, osservare meglio.

Quarantotto ore dopo chiusi gli occhi per due mesi, e quando li riaprii il mondo intorno era cambiato e della Julia di prima era rimasto solo il “resto”, un residuo…ma l’istinto non mente, mai.

Le gazzelle sono nate per correre, e io volevo cacciare.

 

In realtà, quella sera, le cose erano andate tutte storte. Barbablù non sopportava che si potesse uscire dagli schemi, in particolare dal suo schema, dal suo progetto, dal suo gioco. Ma, quella sera era nata sotto una cattiva stella. Come prima cosa: nutriva un profondissimo dubbio sul puledro, peggio di un Mustang… c’era voluto un sacco di tempo per riuscire ad avvicinarlo e ammansirlo. La gioia, la soddisfazione di essere riuscito a vincerlo, si era presto infranta nella consapevolezza di avere per le mani un’incognita, ma questo rendeva anche più divertente il gioco. Senza contare la fitta trama che collegava il puledro a Mediano e a quell’imbrattacarte che seminava vox populi. Enrico era uomo di naso, ma sanguigno… per certe cose ci vuole creanza, calma, non si può ficcanasare ed offendere galantuomini, senza pagarne le conseguenze.

Un mese di appostamenti, di pedinamenti, di controlli, di corte per far capitolare il puledro, prima il miele e poi il fiele, o il bastone e la carota. Alla fine aveva accettato di partecipare al party, senza fratello… Considerando che l’ultima volta che si era presentata, aveva preso a ceffoni quell’ominicchio[1] di Cardinale… era destino  che quei due si prendessero a mazzate, ed era quasi una certezza che quel ragazzo, troppo agitato, combinasse guai. Un giorno, forse neanche troppo lontano, si sarebbe fermato. Poi i fantini, ma ti pare che Tonno e Fagiano possano essere sinonimo di garanzia – solo il nome dovrebbe essere un monito -, un altro errore di Cardinale…

Poi la confusione. Quella sera, la prima come regola vale lo “jus primae noctis”… poi, data l’indole del puledro, ci voleva garbo e molto più del solito.

Invece… invece una mattanza, per colpa di Cardinale, che lo chiamò al telefono proprio durante la preparazione, nel momento più delicato, dove si tesse la trama della fiducia…

Problemi grossi alle puntate, alcuni amici si sentivano offesi per la scelta dei fantini, ritenuti inadeguati. Guai! Così, Barbablù commise il suo primo errore, abbandonò la ragazza. Recise il contatto rompendo l’alchimia.

 

… E se le cose devono andare male, lo fanno sempre nel modo peggiore…

 

Infatti, i due fantini, imbucati nella stanza, commisero una serie di errori inqualificabili, per troppa foga e fretta. Calcolarono male le loro forze, mescolate a troppi bicchieri ed aiuti sintetici e quella della ragazza. Il puledro sgroppò alla grande, li disarcionò all’istante e senza tanti problemi li prese a calci.

Per Barbablù i guai non erano finiti, appena si rese conto del qui pro quo combinato da Cardinale alle puntate, comprese che il gioco era andato in fumo e con lui il puledro. Risalito nello studio, davanti a quei due quaquaraquà[2] piegati e malconci, si riempì d’orgoglio. Il guaio era grosso, ma il cavallo era un vero Mustang… un bellissimo esemplare, difficile da domare e per questo ancor più  avvincente. L’orgoglio di aver scelto, puntato e poi vinto su un vincente, si stemperò nella consapevolezza che la ragazza aveva in mano elementi pericolosi.

Come sempre Mediano aggiustò il tiro, avvisò Barbablù della repentina decisione di Julia di andare in vacanza con gli altri. Occasione per la quale era già stato deciso un piccolo avvertimento, ed il fatto che ci fosse, pure, lei non guastava. Per il momento lei non aveva ancora parlato, dato che l’onore leso e la vergogna in un carattere orgoglioso sono sempre il miglior sigillante. L’avviso gestito da Cardinale si trasformò in un guaio, che solo la fitta rete di favori riuscì, in parte, a lenire. Di buono c’era che l’imbrattacarte non avrebbe più scritto. Di male c’era che si era coinvolto troppo Mediano, la famiglia è sempre la famiglia ed in questo caso non si poteva rimediare. Mediano venne sollevato da tutte le questioni, ebbe conforto da Barbablù, che si dimostrò uomo d’onore, oltre che amico. Incredibilmente si salvò la ragazza, quella grande. Grazie al trauma  dell’incidente, ed all’impegno della riabilitazione, sembrava che si fosse dimenticata di quella sera. Sarebbe stato difficile riavvicinarsi, ma Barbablù aveva annusato nell’aria, quella sera, l’odore della concessione, per poco… ma c’era. Da quel momento la ragazza divenne “intoccabile”, custodita dal fratello e dal controllo silenzioso di Nero.

In un certo senso, Julia aveva sfidato Barbablù, lo aveva sorpreso non piegandosi ad un giudizio già scritto da due imbecilli e da quello di un palo di cemento sul ciglio della strada.

Complice o preda? Per Maurice non esisteva piacere più grande del dominare, del vincere, del sottomettere… Lo sapeva fare con arte e con violenza, con acume e passione. L’avrebbe piegata, sedotta nell’intimo del suo orgoglio, della sua vanità e curiosità… ed avrebbe goduto nel vedere, in quegli occhi scuri, la consapevolezza di cedere, di offrirgli il lato del collo, quello dove corre la giugulare e si sente il battito[3].

 

“Scusa… ma quella non è la sorella di…”

“Sì…”

“Ma… cosa dirà…”

“Nulla, l’ha persa…”

L’ha persa? L’ha persa!

Persa? Persa!

Nulla? Nulla!

Nonononononononononono!

Nella testa non ho altro che questa melma di parole e tra tutte primeggia...

Persa...

Persa come una cosa, come le chiavi? Come la chiavetta della bici, che per quanto sia attaccata ad un portachiavi più grande si smarrisce sempre nel fondo di una borsa, nei meandri di una tasca?

Mi viene da ridere, lo conosco questo ridere nervoso, un po’ isterico, senza freni e con le lacrime agli occhi, quasi asmatico nella ricerca di ossigeno. Sono di nuovo in cella, con la mia compagna che profuma di pelo di montone bagnato – ma forse, non dovrei fare tanto la schizzinosa, al contrario dovrei starmene zitta, anche io non so mica di violette -, e rido come una pazza.

Magari lo fossi… almeno potrei sprofondare nell’oblio chimico di qualche farmaco prescritto con tutti i sacri crismi da uno psichiatra… e amen, il mondo non mi toccherebbe più, non sentirei più nulla e mi perderei dentro un personalissimo labirinto. Invece non sono pazza – intendo, clinicamente malata di mente -, sono in carcere per capire cosa è successo a cinque persone su un’automobile sei anni fa e scopro che mio fratello mi ha “persa”.

C’è da ridere, se sciolgo il concetto devo ammettere che prima di essere stata persa, sono stata giocata, puntata, usata a mia insaputa.

“Oggi mi gioco mia sorella, la punto sul… sette nero!”

“Peccato è uscito il 13. Beh, ho perso mia sorella, che vuoi che sia!”

Oppure…

“Scusa sai, ma dato che sono a corto di contante, ti dispiace se a garanzia ci metto Julia?”

Com’è potuto accadere, quando è successo? Quando per Jul sono diventata una cosa, un fascio di banconote, un mazzo di chiavi, un guanto bucato… quando?

E perché?

Siamo sempre stati insieme, concepiti quella stessa volta. Gemelli eterozigoti. Sacche separate, ma compagni dello stesso viaggio, nello stesso luogo e nel medesimo tempo. Il primo vagito in effetto stereo e così molte altre cose.

Il primo ricordo, quello che ti rimane anche da adulto, di solito si riferisce ai tre o quattro anni è insieme.

Un inverno particolare, con il giardino tinto di bianco, tutto ammantato di soffice e copiosa neve scesa durante la notte. Nel roseto, spoglio di fiori e avvolto in quel niveo mantello, una rosa rossa voleva sbocciare. Era gennaio, eravamo piccoli, la sera prima c’era stato il rosario per nonno Paride e quel giorno si sarebbe celebrato il funerale. Noi eravamo i folletti della grande casa colonica, la casa rigata che confina con l’Osservanza, con i frati francescani sopra il colle omonimo. La corte illuminata dal giallo dei lampioncini del viale, tanta gente che arrivava a piedi, Padre Nazareno col suo saio, i suoi sandali e i piedi rossi. La litania della preghiera, il nonno che dormiva. Noi crudelmente curiosi.

 

Nonna Zelmira che ci prepara i biscotti, noi siamo i suoi aiutanti e nel frattempo l’ammiriamo muoversi tra tutti quei barattoli e contenitori, come fosse un maga intenta ad inventare chissà quale pozione. Noi, piccoli apprendisti stregoni, facciamo piccoli crateri bianchi mentre spiamo le mosse della nostra maestra.

Il giallo aranciato del tuorlo che si adagia sul legno, protetto da quelle polverose pareti bianche. L’abilità del polso e la delicatezza delle dita nel maneggiare il guscio e noi curiosi, avidi e golosi, ci specchiavamo uno negli occhi dell’altra. Il riflesso di uno strano specchio, che riportava la stessa effige, ma che si divertiva a mutare il colore delle iridi.

 

L’estate, il giardino e la pianta di marasche. Quei frutti perfetti nel loro rosso e giallo lucido, con la polpa soda e brusca tanto che, al primo morso, si dovevano strizzare gli occhi per gustare quel sapore. E le smorfie miste al piacere di riempirci le tasche con quelle perle scarlatte.

 

Le corse in bicicletta giù dal colle, la pendenza e la velocità. Noi che pedalavamo con l’energia disperata d’un Girardengo, appena più basso e rock[4] sfidando il tornante nelle dure risalite. Eravamo cavalieri su maestosi destrieri, piloti su rombanti bolidi, astronauti, ciclisti in corsa sullo Stelvio. Piccoli eroi diversi per ogni giorno. Le cicatrici erano le nostre medaglie mentre la soglia del dolore era la nostra prova.

C’è ancora sai, non andrà mai via… la cicatrice sul ginocchio destro. Quel giorno eravamo in gara per la maglia rosa, il traguardo era alla fine della discesa, all’incrocio col viale, dove c’è il pilastrino di maestà. Scagliati come proiettili, ognuno voleva sfruttare la scia dell’altro ed alla fine lanciare l’attacco finale… ma io caddi. Una crepa nell’asfalto mi bloccò la ruota davanti, la bici si trasformò in una catapulta ed io divenni il masso. Un botto da paura e data la velocità grattai la pelle sull’asfalto per un tempo che mi parve infinito. Il risultato – oltre ad ammaccature varie – fu una grandiosa crosta, spettacolare per colore e spessore ed in più… aveva la forma della Corsica, con tanto di dito indice puntato verso l’alto. Storica. Epocale.

 

Arrivato l’autunno andammo a scuola e mamma e papà ci accompagnavano in vespa. Bianca per lui, rossa per la mamma. Io con lei, tu con papà. Tutte le mattine dopo colazione ed il bacio a nonna Zelmira, montavamo su quelle due ruote, pronti ad affrontare la nostra quotidiana odissea.

 

Poi quell’estate, l’ultima di quel periodo d’oro. Meravigliosa e lunghissima. Avevamo dieci anni, non lo sapevamo ancora, ma avremmo cambiato città, vita e storia.

Tre mesi con Nonna su un’isola. Terra di mezzo tra l’Italia e la Francia, di cui si scorgeva l’orgogliosa isola dotata di dito.

Il traghetto sul mare blu, passare davanti a Gorgona e poi arrivare al piccolo porto, protetto da due alte protuberanze di roccia e dal faro.

Rossa di terra, bianca di pietra e verde di arbusti. Rocciosa e mitica.

Eravamo galeotti e stavamo scontando la nostra condanna in una colonia penale. Era l’isola delle meraviglie.

 

Adesso sento un sapore nuovo in bocca e come se avessi il palato, sia duro che molle, ed anche la lingua fatti di ruggine. Non solo, ma questa sensazione di ferro e polvere la sento che scende, come corresse, verso la gola e giù nello stomaco e poi si dirigesse verso l’esterno. Mi sento fatta di ruggine, dentro e fuori, in ogni parte. E la vedo con quel suo tono rosso e bruno, quella consistenza di metallo sfatto, di polvere, di qualcosa che si è esaurito. È come se potessi ridurmi in polvere, ci vorrebbe solo una folata di vento per disperdermi.

Io amo quel colore, quel tono che mi riporta alla sabbia di una lingua di spiaggia dove giocavamo. Sono come quella sabbia e vorrei che su di me ci fossero ancora le nostre impronte, il susseguirsi rapido della corsa verso l’acqua ed il loro rientro stanco.

L’avventura di muoversi agili e scattanti come le capre su quelle asperità, le corse a perdifiato verso il faro e poi calarsi, dalle rocce, verso il mare. Saper fare l’angelo e tuffarsi dallo scoglio più alto. Rabbrividire per il cambio di temperatura.

Correre di nuovo, andare verso la “cambusa”, il forno, per la schiaccia col rosmarino. Gianni, il fornaio, segnava su un quaderno rosso, tanto poi nonna o mamma sarebbero passate a saldare.

Fragrante, profumata e calda, custodita nel sacchetto di carta che pian piano diventava sempre più trasparente grazie all’unto dell’impasto… poi pulirsi dalle briciole col dorso della mano, per poi passarla sui pantaloni corti. Dopo c’era il sapore fresco, buonissimo dell’acqua della fontana, vicino alla chiesa.

L’avventura più bella è stata arrivare da soli a punta Zenobito, con lo zainetto pieno di viveri e misteri, con la bandiera da issare sul terreno conquistato. Camminare, camminare e camminare sul sentiero che era stato dei pastori e delle capre, sotto la canicola del sole. Poi, il miracolo.

Essere i padroni di un’isola, immersa in un mare rilucente come se fosse mercurio. Sospesi a metà. Vedere all’orizzonte terra da una parte e terra dall’altra, quasi equidistanti da quei profili, così diversi… uno di continente e l’altro d’isola. Noi capitani coraggiosi, galeotti, esploratori, pirati nel loro rifugio, nella loro isola. Insieme a guardare l’orizzonte, padroni di quell’attimo col sole, il mare, il cielo e il gridare dei gabbiani come colonna sonora. Sotto di noi, si apriva l’impronta del vulcano, il calco lasciato nella pietra bianca, come un enorme cratere abbandonato da un gigantesco apprendista stregone…

Guardarsi per specchiarsi.

L’arrivo del traghetto, la notizia detta con dolcezza e amore dalla mamma e dal papà… la tua gioia, il mio nodo alla gola. Era come inghiottire della polvere per il cemento e berci dietro l’acqua. Era lì, quel blocco è lì.

Il viaggio verso la città dai tetti blu. Addio tetti rossi. Una nuova scuola…

 

Ci siamo persi? Da quel momento, dopo quell’estate dove guardavamo orizzonti diversi… Cosa abbiamo fatto? Perché Jul?

 

Mi chiudo a riccio sulla branda e non voglio pensare. Adesso fa troppo male, adesso vorrei essere solo polvere, essere sabbia che mantiene le tracce di chi passa, solo nello spazio di tempo tra un’onda e l’altra. Che bello, l’acqua ti rotola sopra e cancella col suo incedere ogni segno, quelli leggeri spariscono, mentre quelli profondi vengono colmati e per essere cancellati aspettano solo un altro passaggio di mare…

 

Cosa succede? Dove sono? Chi è questa faccia vicino alla mia? Vedo la sua bocca muoversi e quasi ghignare, ma non sento l’audio, mi manca il suono. Piano, piano la mia testa si sfascia dall’ovatta che la proteggeva, le sinapsi sono ricollegate, il traffico può riprendere.

Sono rallentata, goffa, assonnata, ma riesco a riprendermi.

Bum! Ecco adesso sono sveglia e la situazione mi appare chiarissima. Mi sono appisolata – o meglio, ho perso i sensi nel classico colpo di sonno – ed adesso devo fare i conti con la realtà.

Punto primo:

sono in cella, con una premurosa compagna, di cui fare volentieri a meno.

Punto secondo:

ho parlato con lo sbirro. Lui è stato chiaro – anche troppo – io meno. Sono emersi fatti di cui non ero a conoscenza e di cui  avrei fatto a meno, molto volentieri.

Punto terzo:

è quasi ora di pranzo, ne consegue che mi devo preparare per il mio incontro. Non posso buttare tutto il lavoro fatto fino ad ora. Non ora. Già gli effetti collaterali sono troppi, così gli imprevisti. Forse doveri usare il singolare… o  un nome proprio di persona, che inizia con la A.

Dunque, Julia fatti forza e coraggio: the show must go on.

 

L’odore della mensa è peggio di quello della cella. Impossibile ma vero, è un misto mal miscelato di cipolla, troppa, aroma di umanità, calura di pietanze riscaldate e precotte. Forse respirare con la bocca mi aiuterebbe. Proviamo.

Tutte in fila, con questi orribili vassoi preformati a prendere le vaschette di plastica tiepide e dal contenuto dubbio. Non è perché sono italiana, ma è perché sono cresciuta a tortellini, tagliatelle, pasta al dente, arrosto, prosciutto crudo – quello buono e dolce -, parmigiano reggiano… frutta e dolci fatti in casa. Insomma, il mio stomaco si ritiene indignato e si rifiuta di collaborare. A forza lo convinco che è per poco, che posso fare finta… ma dobbiamo stare in questa stanza e non in bagno. Gli prometto libagioni da nonna Zelmira e sembra crederci.

Facce, tante facce e certe ti mettono già ansia. Ma io ne sto cercando una in particolare, peccato che non sappia bene come sia, ora. Se il mio naso non si sbaglia… forse l’ho trovata.

Bene adesso si va in scena, è ora di buttarsi… senza rete.

Vai!

 

La casa li ha accolti come sempre, col suo silenzio da appartamento abitato da una persona, con le sue tracce miste a quelle di un altro, che puntualmente si ritrova tra quelle quattro mura.

È stata dura, ma ci sono riusciti, o quasi. Tra mille scuse e sotterfugi lui è riuscito a tacere, per quanto possibile, il luogo dove si trovava lei. La famiglia si era messa a fare un pressing da coppa del mondo, ma lui da vera sfinge… aveva retto fino alla fine. Impossibile negare davanti alla stampa.

 

Ora Julia è sotto il getto della doccia, si ode chiaramente lo scrosciare dell’acqua, la radio tace ed Alain è crollato sul divano, o meglio, su quella che reputa essere la sua parte.

Gli occhi si chiudono da soli ed il fatto di saperla a casa, con lui, gli concede uno straordinario senso di calma, peccato che sia la quiete prima della tempesta. Già, tra poco ci sarà l’incontro al vertice che in casa Ricci – Label, interno 12 di palazzo delle corna, significa: la famiglia. Quello che più lo preoccupa è il fratello, con in quale è in guerra – fredda – da quando si è trasferito all’interno 11 del medesimo palazzo.

 

Un piccolo trasloco per una grande sorpresa… Julia a bocca aperta mentre lui prendeva possesso dell’appartamento di fianco a quello di lei.

Grazie ad Oscar. La bionda del bell’uomo non si era certo fatta scappare l’occasione di accasare il terzo incomodo. Unendo l’utile al dilettevole, una sera a casa Grandier era volata la proposta, tra il rimestio della lavastoviglie e lo scorrere del cassetto della tovaglia.

 

“Senti Al ti devo chiedere una cosa”, iniziò lei con tono calmo, quasi da tutti i giorni, anche se non si trattava di una cosa da tutti i giorni.

“Dimmi, ma sappi che se vuoi delle prestazioni particolari devi prima chiedere ad André, io nei guai non ci voglio finire. E poi devi considerare anche la mia maestrina, anche se non lo dà a vedere ti posso garantire che è gelosa”, rispose lui già all’erta e con tutti sensi ben spianati per cercare di capire dove volesse parare e se, soprattutto, fosse sincera. Fino in fondo.

“Ma taci! Non ci sono altre cose che riescono ad attirare la tua attenzione…”

“Due o tre ci sarebbero” allusivo.

“Faccio finta di non aver capito. Piuttosto quand’è che ti metti a cercare casa?” schietta, come un bicchiere di vino rosso.

“Ah ho capito… la cosa era: quand’è che sloggi! Non ti preoccupare, mi sono messo in cerca anche se non l’ho sbandierato ai quattro venti. Ma non è facile”, era inevitabile che si arrivasse lì.

“Forse ci potrebbe essere una soluzione", piccola pausa ad effetto, anche per trovare le parole per dire tutto. "Con André qualche giorno fa andammo a vedere un appartamento. Bello, finito con cura, in una zona meravigliosa, vicina al centro, ma leggermente defilata dal grosso del passeggio, con il parco vicino ed un… grande garage – elemento da non trascurare -. Con il proprietario, poi, ci eravamo già accordati su molti punti ed io avevo intenzione di trasferirmi lì al più presto. Adesso, per ovvi motivi, ho cambiato idea. Nel senso che se c’è una casa a cui sono legata è questa e non mi sognerei mai più rilasciare voi due qui, da soli...”

O meglio… non mi sognerei mai più di lasciare solo André...

“Quindi mi sbatti fuori. Guarda che il padrone di casa è un certo Grandier, lo conosci? Bel tipo, alto, atletico, con una faccia a metà tra il bravo ed il cattivo ragazzo, poi ha due occhi verdi che fanno andare in brodo di giuggiole tutte le signorine e signore, che hanno la fortuna di incrociare il suo sguardo” canzonatorio.

“Ecco appunto, il signorino lo conosco…”

“In senso biblico?”

“Basta! Mi fai finire o no?”

“Avanti!”

“Allora, io la casa la vorrei comprare in ogni modo, mi piace ed è un affare. Vorrei anche metterla in affitto… e visto che tu cerchi casa... potremmo unire le due cose. Io compro casa, che è già pronta, e tu trovi l’appartamento. Poi sotto il palazzo c’è una pasticceria da favola, Cassel. Sai dov’è?”

“Cassel? Sì ho presente dove si trova, ci siamo fermati con André un paio di volte – ed ho fatto la posta a Julia per tutto un mese - un bel locale, ed anche il palazzo”, con tono finto e vago di chi cerca di ricordare qualcosa, che in realtà conosce benissimo.

 

In fondo era stato anche semplice, con il notaio di famiglia disponibile, in tempi brevi Oscar era diventata proprietaria di un bellissimo appartamento e Julian aveva recuperato liquidità, André e la bionda erano finalmente soli nella loro “capanna” ed Alain si era ritrovato sotto lo stesso tetto di Julia. Il trasloco era stato fatto nell’orario in cui lei era in redazione. Ad aiutare Alain c’era André, praticamente l’avevano fatto da soli, affittando un furgone e interpretando i facchini di turno. C’erano poche cose: il letto, l’armadio, due comodini, la sua poltrona Frau, l’impianto stereo, il computer e tutti gli annessi, svariati scatoloni di libri, dischi, cd e merce varia. Tutto lì. Trentuno anni di vita, di cui tredici condivisi, sistemati in poche ore. Poi nel garage riposavano già la Jeep rossa, la moto BMW GS grigia e l’attrezzatura sportiva. Tutto lì.

L’appartamento era già stato dotato di una bella e funzionale cucina, tutta bianca, semplice ma curata, che si adattava perfettamente al suo piccolo spazio full-optional. La struttura ricordava un po’ la casa di Ju; c’era anche qui un soppalco e due camere da letto. Una di queste confinava con quella di Ju e le due portefinestre distavano fra loro meno di un metro, tanto che i balconcini erano vicini quanto un passo.

Nel salone c’era un bel camino e la poltrona di pelle ci stava proprio bene davanti. Per il resto niente; niente divano e per terra solo il vecchio tappeto tibetano con qualche cuscino appoggiato qua e là. A differenza della casa di Julia, non c’era il parquet chiaro, quello d’acero quasi rosa, ma un legno africano scuro, di un colore cacao e per contrasto le pareti bianche, immacolate, mentre le porte, di noce biondo, si differenziavano per quel tono color miele. La cucina tutta bianca, lo era anche nel rivestimento, mentre i due bagni erano uno piccolo color verde pistacchio e l’altro lavorato a stucco veneziano, di un bel rosso pompeiano. Per il resto, la casa era occupata solo da scatoloni ancora chiusi con il nastro adesivo, dal tavolino del computer già montato e posizionato nel soppalco.

 

“Hai intenzione di lasciare tutto sul pavimento o pensi di procurati qualche scaffale? …E magari, anche due sedie da aggiungere allo sgabello della cucina. Ma che cosa ti ha detto Jul?”

Ecco le parole di Julia davanti alla sua nuova casa. Non un accenno alla vicinanza. Una vera maestra della dissimulazione, del dialogo traverso.

“Jul può dire quel che vuole, lui ha venduto ed il nuovo proprietario ha affittato a me. Non sono mica affari suoi”, magari saranno affari tuoi, se vuoi nostri… solo nostri.

“Ci sarà rimasto di sale, e pensare che mi aveva detto che non gli sarebbe dispiaciuto avere come vicina quella bella ragazza bionda…” Sfuggente mentre si dirige rapida verso la cucina, lasciando la coda di cavallo a terminare la frase.

“Che è “accasatissima” con il buon vecchio André”

“Ah… tutto in famiglia?” Con un movimento fluido alla chioma rossa si sostituisce l’ovale del volto e gli occhi si fanno come due fessure, come per mettere a fuoco qualcosa di lontano. Ammiccando si formano dei piccoli solchi ai lati degli occhi, ma questi sorridono ed anche le labbra si stirano divertite, scoprendo un poco i denti bianchi.“ Certo, mi hai insegnato tu!”, e tutto si ripete da capo, stavolta declinato al maschile, dagli occhi stretti a fessura al sorriso.

Il sorriso è una grazia, quando nasce lì nella luce degli occhi e nel morbido delle labbra e lo è ancor di più quand’è condiviso, sincero e libero. Forse, trovare qualcuno con cui sorridere è straordinario, come trovare qualcuno con cui poter ridere… forse, ma di certo sono cose estremamente rare, preziose e fragili.

 

L’acqua continua a scorrere, ed è l’unico rumore ad accompagnare il fluire del tempo e del pensiero di Alain.

“Piuttosto della doccia dovrei buttarmi direttamente in lavatrice, a novanta gradi! Ecco forse dopo mi sentirei pulita. E se, poi, io fossi la lavatrice mi rifiuterei, guarda lo prenderei come un insulto personale. Mi faccio orrore da sola!” E via di corsa in bagno.

 

Se c’è una cosa che mi piace è la sua ironia, il suo spirito. È capacissima di ridere, o di prendere in giro anche una cosa come la prigione, non per superficialità ma per sollievo. Sembra sempre che ti stia canzonando, ma credo che sia il riflesso di un carattere in cui timido ed aggressivo si contendono la scena.

Certo che quando l’ho vista mi è preso il classico colpo, devono avergliele suonate per bene...

Per mascherare lo zigomo le serviranno un bel paio d’occhiali, ed una seduta di trucco degna di un soprano all’arena di Verona.

Ammaccata sì ma funzionante, tutta intera con nulla di rotto…

Insomma  quanto ci mette? D’accordo,  si sarà insaponata un sacco di volte, tra l’altro con quel sapone preso in farmacia...

 

“Al mi fai un favore? Ti fermi in farmacia e prendi un sapone disinfettante?”

“Un... che?”

“Sì, come quello dell’amuchina. Io non mi posso far vedere conciata così. Dai, vai! Che sia liquido o solido non importa basta che sia disinfettante, battericida, fungicida…”

 

Alla fine l’ho lasciata in macchina, ferma all’angolo e sono andato in farmacia a prendere questo benedetto sapone! Fissata! Ma non bastava quello normale? Nooo!

Maniaca, certe volte sembra che si accanisca sulla pelle per togliere macchie invisibili, ma tenaci. Ecco, questa è una cosa che le devo chiedere… magari sono solo fisse mie, in fondo lei è cresciuta con una mamma dentista e quasi tutta una famiglia in camice bianco.

Fermati Alain, che fai? Cerchi delle scuse? No, è solo che mi chiedevo se… No, è solo che ti metti a cercare di qua e di là per pararti il sedere per poter dire: “Ah! Ecco lo sapevo io che non doveva andare così!”

 

“Al… dimmi una cosa… perché non hai comprato casa? Guarda che Oscar non si sarebbe impuntata. Perché ti accontenti dell’affitto?” Prima di scendere in campo per fare due tiri d’allenamento.

In bocca ad André queste domande significavano altro, come sempre. Non era un discorso sui beni immobiliari ma sugli affetti… era un far notare che sì… ci credeva, ma forse non troppo. O meglio, era lasciarsi aperta una via di fuga.

“A volte capita…” ed il buon André non si riferiva all’adagio degli adesivi sui paraurti, come in quella scena di “Forrest Gump”, il soggetto era un altro. Gli era scappato detto in un momento di pausa dell’allenamento a basket.

“Non sei tu a decidere, succede e basta. E se capita da tutte due e parti, allora è una piccola cosa straordinaria, e se poi questa cosa continua a non abbandonarti nonostante tutte le miserie di cui è capace un uomo, allora è una grazia. E se poi ti accompagna nel tempo come qualcosa da cui non riesci a liberati… allora è. È e basta”, senza guardarlo mentre si frizionava i capelli.

Quello era stato l’ultimo allenamento della “strana coppia”, nel senso che il giorno dopo ci sarebbe stato il trasloco. I compagni di squadra gli avevano già fatto promettere che la piccola bisca del mercoledì si sarebbe spostata nella nuova casa di Al. In fondo era anche un modo per non turbare troppo l’altra “strana coppia”...

E non cambiare i rituali camerateschi del branco.

Dopo aver saltato, sudato, corso, scartato e schiacciato – chi poteva – si erano diretti tutti quanti al solito posto per vanificare il deficit calorico appena ottenuto. Bionde, rosse e brune… le birre stavano lì sul tavolo nei loro bicchieri alti e modellati, gonfie di schiuma. Carboidrati, proteine e grassi di varia natura si mescolavano in piatti caldi e profumati, adornati da bandierine. E sopra a tutto questo circolavano le frasi smozzicate dalle risate e dai doppi sensi, racconti di giornata, avvenimenti e commenti sportivi, parole che saturavano l’aria insieme agli altri vapori. Ogni branco ha un suo linguaggio, un suo codice legato al vissuto comune, questo comunicare permette una maggiore coesione tra i membri del gruppo e allo stesso modo ne isola i non appartenenti.

Quell’uscita era il saluto rituale, per la scelta di uno dei membri. Nel branco ogni fase importante della vita, o ritenuta tale, è soggetta a prove e a rituali scaramantici, taumaturgici. Festeggiare significa augurare un buon inizio.

Alla fine erano riamasti solo loro due, come altre volte…

“Come si fa?”, che nel linguaggio cifrato significava: “come si può essere certi che sia la persona giusta. Come si fa ad essere fedeli ad una sola donna, e se poi ci si tradisce e ci si perde per strada? Ma ne vale davvero la pena?”

“Un minuto alla volta, un’ora alla volta, un giorno dopo l’altro”.

“E se…?”

“E se… sarà, sarà!”

 

Era corsa nel bagno, il tempo di girare la chiave nella toppa, per essere nuovamente sola. La chiusura non voleva essere mancanza di fiducia verso il suo cavaliere, ma era la richiesta di non essere richiamata al mondo, fino a quando non fosse stata lei pronta per affrontarlo, di nuovo.

L’inesorabile riflesso dello specchio la convinse che, prima di tutto, era il momento di una bella doccia con tanto sapone e shampoo. Appoggiò la confezione di plastica sul ripiano del lavandino, e ne estrasse il sapone della farmacia.

Povero Alain, lo aveva costretto a comprarlo… e lui aveva retto al gioco.

C’è del buono…

Alla fine aveva ceduto al suo “imprevisto” e così gli aveva chiesto di passarla a prendere dopo la scarcerazione. Nessuna accusa, in fondo non aveva fatto niente… Non proprio. In un certo paese, e per un certo punto di vista le avrebbero dato dell’infame; lei aveva commesso “infamità”. No! Forse un pelo delatrice, collaborazionista. Insomma aveva riferito quello che aveva visto, ed un po’ di quello che sapeva… che i quindici ragazzi accusati, si erano accodati in un secondo momento, poco alla volta, e che si erano comportati come se si fossero allenati, non si erano mai parlati tra loro. Questo significava che l’azione era stata preparata a tavolino… e che le persone pestate non erano incappate per caso nella rabbia del branco. Gli studenti feriti erano tutti iscritti al sindacato che aveva promosso la manifestazione, non solo, ma erano anche i collaboratori di Julie, la studentessa della Sorbona  a capo del movimento. Suonava un po’ come un avvertimento. Poi, prima che gli intrusi si distribuissero, Julia era capitata in una via secondaria, per cercare di salire in un palazzo, ed accaparrarsi un punto di vista dall’alto. Nella sua ricerca, aveva adocchiato un gruppo di quei ragazzi, che si spartivano il contenuto di uno zaino. Dentro c’era quello che sarebbe servito dopo. Ragionando con Girodel, poi, la situazione si era chiarita, e si era risaliti a certi ambienti reazionari, e filonazisti legati ad una palestra, dove si reclutavano i ragazzi. Poi si era parlato d’altro… e quello faceva veramente male.

 

Osservando meglio i vestiti, ormai svuotati del suo corpo, si era accorta che non sarebbe stato necessario lavarli, avrebbero ricevuto un miglior trattamento nel sacco nero della spazzatura. Per quello che riguardava lei, una doccia molto, molto accurata, le avrebbe restituito un aspetto decente.

Sotto il getto iniziò un attento lavoro d’insaponatura, più e più volte. La rabbia sorda passava alle mani, e poi al sapone, che a sua volta copriva il corpo con scie bianche e dense. Quest’ultime scivolavano via dalla pelle con l’acqua, mentre la rabbia non accennava a scemare. Alla fine, del bel panetto di sapone, leggermente squadrato, era rimasta un’informe poltiglia che si perdeva tra gli spazi delle mani contratte. La cabina densa di vapore sembrava una pentola trasparente, e lei dentro a piangere, come l’aragosta prescelta.

Acqua calda e vapore, vapore e acqua. Gocce umide sulla parete, gocce salate sul viso.

Lacrime.

Lei non piangeva mai, non aveva mai pianto in questi sei anni. Quando aveva saputo dell’incidente, dopo il risveglio, era rimasta muta. Si ricordava di Julian, del suo sorriso, delle sue premure, di quel tono incerto nel darle la notizia… e di quella sua stretta fortissima, un abbraccio. Lui piangeva, e lei no!  

Ormai aveva la pelle rossa e l’acqua era davvero calda, in altri momenti si sarebbe scostata con un balzo. Bruciava, ma lei non la sentiva, o per lo meno concentrarsi su quella sensazione era un male minore rispetto al resto.

Gelava, adesso era gelata dentro… ed i pensieri non riuscivano a stare in piedi, caracollavano per terra come birilli. Tremava, ma non era per il freddo e nemmeno per il caldo… era diverso. Un po' come quando i muscoli dopo uno sforzo ti si rivoltano contro...

Come dopo l’ultimo chilometro di maratona, quando vedi il traguardo, lo sorpassi e le gambe ti abbandonano… e tu sei stanco, ma felice. O Come alla fine di un parto, alla fine dell’ultima spinta, quando il bambino si presenta al mondo… e dopo c’è una gioia immensa, anche se ... il corpo è stanco, sfiancato… ma è felice.

Qui la felicità non c’entrava, eppure il tremore era lo stesso, forte ed inarrestabile. Succede a volte... come dopo un incidente, da cui si esce illesi, e poi si trema talmente tanto, che i denti potrebbero scheggiarsi… ma non ci si può fermare.

Non puoi parlare, non puoi muoverti, quasi non senti… riesci solo a tremare.

 

“Julia? A che punto sei? Guarda che ha già chiamato zia Liv… Ehi, mi senti?”, un colpo alla porta, poi un altro, ma l’unica risposta è e rimane lo scroscio incessante dell’acqua.

“Ju? Dai rispondimi… Julia?”

 

Cosa faccio? La porta è chiusa, lei è dentro e non mi risponde… è passata un’ora, e per tutto questo tempo non una parola ma solo il rumore dell’acqua, ed io mi sono pure appisolato. Devo entrare, se poi non è nulla di grave mi prenderò un bello schiaffo e la cosa si chiuderà lì.

Le chiavi sono tutte uguali, quindi ne recupero una dalla stanza da letto. Ok, fino a qui ci sono, ma devo eliminare quella nella toppa. Facile, prendo uno di quegli stecchini da spiedo, che Ju tiene nel cassetto delle posate.

Ecco, la chiave è caduta, questa è entrata e gira, per scrupolo abbasso piano piano la maniglia, e chiamo...

Ju?”

Inizio a pensare il peggio, la porta scivola docile sui cardini e un’onda di vapore caldo e profumato m’investe. La stanza sembra un bagno turco, e la cabina della doccia è completamente appannata, non si vede nulla, come fosse vuota. Mi avvicino, sono senza scarpe e dalle calze avverto l’umidità che rende scivoloso il pavimento. Sono davanti alla cabina e mi do un’ultima possibilità prima di aprire.

Ju? Sono qui…dimmi che stai bene…”

Nessuna risposta, allora apro.

L’acqua scende caldissima ed incurante su di lei. Fermo il getto spostando il miscelatore. Trema, è li raggomitolata e trema, la chiamo ma non risponde… mi avvicino e le poso una mano sulla spalla, ma niente. Tra la pelle rossa, cotta dall’acqua, spuntano le nocche bianche delle mani, con cui si stringe forte le gambe.

Prendo un telo e la copro, inizio a parlarle piano ed intanto l’asciugo, provo ad alzarla.

Non collabora, ha lo sguardo fisso in un luogo dove io non posso arrivare. Le do uno schiaffo leggero e le giro il viso verso il mio.

Quello che vedo mi fa male, è uno sguardo triste, tristissimo, che mi richiama alla mente gli occhi di Diane. Lei però covava già la sua decisione; Julia è come persa, in bilico. Mi sembra un vetro rotto, o meglio una vetrata col vetro crepato ma ancora lì. Non si sa quali saranno i primi pezzi a cadere, per adesso sono tutti lì… in attesa, che il casuale mosaico si decomponga lasciando al suo posto l’orbita vuota della finestra. Lei è cosi, i suoi occhi sono così, vetri in attesa di cadere, crepati… perciò ancora più fragili.

Non li ho mai visti due occhi così…

La chiamo, la guardo e lentamente smette di tremare, i denti non fanno più rumore. Con una carezza le sposto i capelli dal viso e la tiro su in piedi. Prendo l’accappatoio, glielo faccio indossare e le alzo il cappuccio sul capo. Le passo un braccio sotto le ginocchia e la sollevo, la stringo forte.

Andiamo sul divano, mi siedo con lei in grembo… posso solo abbracciarla, e le premo le labbra sulla fronte.

Tranquilla Ju, ci sono io. Sono qui...

La cullo, mentre penso che se deve essere… è, se sarà… sarà...

Ma intanto io sono qui con lei… e solo questo importa…

 

Il tempo era passato, trascorso senza lasciare segni o la consapevolezza del suo scorrere, ai naufraghi sul divano sembrava di essere in uno spazio immobile ed immutabile, bloccati in quell’attimo, senza possibilità o voglia di cambiare. Purtroppo, l’ineluttabilità di quel sentimento – condiviso - non poteva sopravvivere nella realtà delle cose… quelle più banali come un telefono che trilla con fare invadente.

Questa volta fu Julia a rispondere, tranquilla con una voce sottile, una di quelle mormorate piano per non disturbare. Si trattava di zia Liviane, che voleva sapere come stava e se potevano salire… La famiglia voleva parlarle. Ciò significava che sarebbero saliti, lei con il signor notaio, suo coniuge, ed infine il buon fratello. Caino.

Era una rappresentanza ristretta, dato che nonno Label se n’era fuggito in montagna… e che del ramo Ricci rimaneva solo nonna Zelmira, che se ne stava tranquilla nella sua casa rigata.

Il cerchio delle braccia di Alain era stato la miglior medicina… com’è bello sentirsi protetti, custoditi con affetto e tenerezza, senza un motivo particolare.

 

A Julia era tornato in mente il primo pensiero che aveva nei suoi confronti, dopo averlo conosciuto, dopo la prima sera sul divano: è buono dentro.

A questo ne aveva aggiunto un altro: per quanto ammaccato.

Nonostante tutte le brutture che gli sono successe è rimasto buono, c’è qualcosa d’incredibile nel trovare un uomo con quel nocciolo genuino, ancora tutto intero.

 

Il resto si svolge senza parole, a volte superflue. Lei si stringe ancora di più a lui, è un abbraccio pieno di gratitudine per non averle chiesto nulla, per averla consolata. Lui ricambia questo piccolo intenso scambio di calore…

La pelle ha un suo codice, un suo istinto e un suo linguaggio. Un piccolo e meraviglioso miracolo, ed è qualcosa a cui non si può rinunciare, anche se è solo il morbido del collo.

Si dice che l’olfatto sia il senso che ha più memoria… o forse c’è una memoria dei sensi che funziona al contrario… che ci aiuta a riconoscere cose che non conosciamo, ma di cui portiamo traccia nei nostri sensi; così, istintivamente l’odore della donna che ami diviene il profumo più buono, più caro, più tuo.

Quando è lei ad allontanarsi, la prima cosa che lui sente è la mancanza di quel miracolo, sono gesti calmi e posati, fatti con uno sguardo grato. Tornare a vedere quegli occhi scuri, senza tutto quell’incognito dolore, lo rincuora. Sono già sulla porta, lei ancora in accappatoio e lui vestito, con già le scarpe; certo ci sarebbe, anche, la giacca di pelle poggiata sul letto singolo… ma perché sprecare una scusa per il ritorno?

C’è una cosa che lo sorprende, un gesto. Julia che poggia le punte dei piedi sopra i suoi, mentre con le mani gli stringe le guance, costringendolo ad abbassare la testa, e così arrampicata gli lascia un bacio sulla punta del naso, un bacio rumoroso, di quelli da bambini, con lo “schiocco”.

Con dolcezza, gli regala anche un morso brusco sul mento, e poi: “Grazie”.

 

Sì lo so che è una parola, una parola sola, ma per me è qualcosa di più. Con quella voce nuova, dolce, soffice, tutta mia. Sì, perché questo è il tono che usa con me, anche se questa è la prima volta che lo sento…

In realtà, è da sempre che lo cerco, che lo voglio solo per me. Mio. C’è un mondo dentro, in quel modo di staccare le sillabe, in quel tono che è colore e calore, che è una carezza capace di toglierti il fiato.

La stringo, le chiudo le braccia sotto le mie e le racconto tutto quello che spero… e che vorrei.

Non respiro nemmeno, tante sono le cose che devo dirle, lascio che sia la pelle delle labbra a raccontarle tutto. Guai a staccarsi, nulla ci deve separare e per sicurezza accompagno la sua nuca con la mia mano. E non mi fermo.

 

È.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PERFECT DAY

 

 

È una mattina come tante, un giorno come un altro nella routine di una coppia, forse un po’ irregolare, ma solo un po’. Lui è ufficialmente residente nel portone accanto, ma in realtà le due case sono una l’estensione dell’altra, peccato che non ci sia una comunicazione interna e l’unico collegamento, lontano dagli sguardi di un vicino scomodamente geloso - oltre che fratello della ragazza -, sia il balcone. Molto romantico il potersi affacciare alla finestra per rispondere ad un novello - per quanto attempato, rispetto al giovane Montecchi - Romeo, è davvero un peccato che questo balcone si trovi al quarto piano, dato che ciò costringe i due giovani innamorati a strane evoluzioni di passaggio da una ringhiera all’altra; è vero che i balconcini distano tra loro un passo, solo che mentre Alain riesce a farlo in una sola volta, la piccola Julia non può esimersi di transitare sul cornicione.

Questo aggiunge un po’ d’avventura agli incontri, o forse è solo una stranezza che ormai appartiene ad entrambi.

In realtà la maggior parte della vita si svolge nella colorata casa di lei, mentre quella di lui è una dependance per sfoghi di pressione. Dopo un litigio, meglio definirli scontri o divergenze… lui finisce di là, salvo poi essere raggiunto dalla versione femminile dell’uomo ragno. Oppure, se tira una brutta aria, ed in questo caso bisogna ammettere che la ragazza ha il gene dell’orso e quello del lupo solitario, è lui a ritirarsi volontariamente di là… per poi scavalcare il balcone e controllare la situazione dal vetro e se la porta è socchiusa, allora, significa che la bufera è passata.

Certo che per due trentenni questo atteggiamento può sembrare assurdamente infantile, ma bisogna comprendere il contesto e soprattutto il vicinato.

Oltre all’ombroso fratello che ha - da tempo - smesso di celare il suo disappunto per Alain, bisogna aggiungere una pletora di nipoti che bussano alla porta di lei – per carità, cari ragazzi e primi sostenitori della nuova coppia, ma in certo modo gelosi delle attenzioni di lei – seguono la bella zia ed il di lei marito, poi il pasticcere e, per concludere, un altro inquilino all’ultimo piano; una cara nonnina, dai capelli azzurrini, che vive col figlio medico, il quale è sempre fuori, mentre lei è sempre in casa, nello specifico allo spioncino o alla finestra. Avida lettrice di gialli e appassionata d’orchidee, è ormai la custode del palazzo ed è assai difficile scampare al suo sguardo. Fosse solo quello… il vero problema è l’incontinenza verbale, rivolta a chi passa davanti alla sua porta e a chi incontra per strada. L’oggetto delle sue omelie è ovviamente ciò che vede, a volte ciò che pensa di aver visto e quella “coppia di fatto”.

Alla fine, sono giunti ad una conclusione... Meglio il balcone al quarto piano, anche in pieno inverno… di tutto il resto.

 

Se dalla prima sera sul divano, non avevano più smesso di vedersi e seguire gli orari di lei era come iniziare a fare i turni in ospedale, dopo l’episodio del carcere – e se vogliamo essere sinceri, dopo tutto quella era accaduto in seguito – avevano iniziato a vivere insieme, a dividere le giornate e le notti… ad aspettarsi.

Non bisogna, certo, dimenticare il bacio in mezzo alla strada, quando lei gli corse dietro, dopo che lui si era fatto trascinare davanti a quel plotone d’esecuzione della famiglia e, tutto questo, per bere una cioccolata a quattrocchi.

In ogni modo, l’episodio fondamentale fu certamente il bacio sul naso, seguito da quel grazie con morso che, per lei, significava l’ammissione… la resa definitiva, si fidava fino in fondo ed era conquistata, non poteva più negarlo e per lui il pretesto per farsi avanti, con tutta sincerità. 

Per fortuna che zia Liviane, saggia donna, aveva riconosciuto nella voce della sua Ju il disagio e consapevole che sarebbero stati di troppo, aveva salomonicamente deciso di rinviare l’incontro. In ogni modo, anche se la rappresentanza fosse salita, la coppia non li avrebbe sentiti.

 

 

 

Sono quasi le sette, tra un po’ dovrebbe tornare.

Per adesso mi godo il sonno del giusto. Perché il suo cuscino profuma e la sua parte del letto è sempre più calda e morbida? Forse, lo è solo perché c’è lei? Mi allungo di traverso e con le mani tocco il parquet, mentre le gambe sono fuori dal ginocchio in giù. È inutile, per me ci vorrebbe un letto su misura, quelli standard sono sempre troppo corti e piccoli.

Cosa faccio?

Aspetto la mia maratoneta tra le lenzuola o mi alzo ed inizio la giornata?

Accendiamo la radio va’, magari trovo l’ispirazione.

Basta, mi alzo e mi dirigo verso la doccia, dalla radio sul comodino riconosco la voce di Lou Reed e, cullato dal suo canto, ripenso ai mesi trascorsi, alle settimane ai giorni, alla notte appena trascorsa e all’amore che l’ha accompagnata. Penso che posso usare il “noi” e, tutto questo, mi piace.

Questo tempo senza di lei… la mattina è un rito a cui adesso non rinuncerei mai. Ancora con gli occhi chiusi, è come se la vedessi quando si sfila dall’abbraccio in cui la chiudo e, leggera, vola in bagno. Dove la sento e la vedo, mentre apre il rubinetto e so che è acqua fredda, poi si lava, si pettina e chiude i capelli ribelli in tre giri d’elastico… dopo si veste; prima la maglia, i pantaloni e le calze, la felpa ed il cappello, poi si dirige verso l’ingresso e piegata sulla panca s’infila le scarpe, tirando bene i lacci. Dopo aver preso le chiavi, apre la porta e scende. Sarà strano, ma dal letto li sento tutti i gradini che fa di corsa, fino giù al portone e poi la vedo aprirlo, guardare il cielo, annusare l’aria e partire.

In casa rimane la sua presenza, in ogni cosa, in ogni stanza aleggia il suo sapore di mandorle e questa è una piccola attesa… tanto lei torna sempre alla stessa ora, quasi allo stesso minuto apre la porta e la sua metodicità mi rassicura.

Sono il re della casa... o forse la volpe addomesticata.

 

È una bella mattina per correre, potrebbe essere il giorno “tipo” del mese di settembre, con quel cielo che sa ancora d’estate ma che già si annuncia autunnale, come per tutte le stagioni di mezzo c’è quel qualcosa di strano, indefinito, di passaggio, d’attesa.

Si prepara una giornata di sole, ordinaria, da media del grafico… insomma una linea piatta, senza picchi alti o bassi. Chissà perché si pensa sempre che, quando deve accadere qualcosa nella vita, anche il tempo deve portarne traccia, o un preavviso.

Non succederà nulla.

Sarà una semplice, banale, giornata di sole tiepido a fine settembre, con un cielo ancora azzurro ma già velato. 

La ragazza corre, come sempre, tutte le mattine quando la maggior parte della città dorme. Un suo privilegio, poter essere sveglia quando gli altri sono ancora sepolti dalle coltri, non tutti ovviamente… e non è del tutto vero che la città dorme, per una parte che riposa, n’esiste un’altra che brulica di vita.

Sono tanti i pensieri che affollano la sua mente, più di uno per tutti i giorni che ha trascorso con lui, i giorni divisi insieme e le notti, lunghe o brevi ma, in ogni modo, passate, scivolate via, nonostante la forza dell’abbraccio. Sono giorni, settimane, mesi trascorsi, vissuti e senza i quali non avrebbe mai saputo dare un sapore, o un colore a certe parole; senza il suo “imprevisto” quelle parole sarebbero rimaste una serie di lettere piatte prive di vita, di senso.

Il suo “imprevisto”… le scappa quasi da ridere pensando a tutta questa storia assurda, che certi chiamano vita. Lui è di sicuro la parte buona, una delle parti buone… come quell’infanzia così dolce, stretta ad affetti certi a rapporti incrollabili… o quasi.

Lui è il buono, il vero, è quello che vorrebbe continuare a portare con sé, sempre. E pensare che all’inizio non lo credeva tale…

Già l’inizio, tanti anni fa ormai… quando tornata a casa col fratello, dopo l’incidente, si era ritrovata sola. Allora era scesa nel vecchio appartamento, con il passo incerto delle stampelle sui gradini di marmo. L’ascensore non riusciva ancora ad affrontarlo… come non riusciva ad affrontare tutto ciò che poteva ricordare l’abitacolo di un’auto. Passo dopo passo era arrivata alla porta, era settembre e la luce che filtrava dalle finestre del pianerottolo era strana, tanto rossa.

La casa riposava quieta, tutto era lì, com’era stato lasciato prima di scendere e salire in macchina. Il sudario grigio della polvere ricordava, impietoso, lo scorrere del tempo... Il tempo in cui quelle mura erano rimaste vuote e quello in cui ancora lo sarebbero state. Sulla parete dello studio di Enrico c’erano tutte le loro foto, non in cornice ed ordinate… ma una sopra l’altra piantate nel sughero con dei piccoli spilli, quelli con la pallina sul fondo. Stampe fotografiche, stampe dal computer, tutte lì, dalle più vecchie ingiallite alle più recenti, sottili e fragili.

È stato lì che la mente si è ricordata, no… forse è meglio dire che ha capito… intuito che c’era qualcosa che non andava. Forse fu lo sguardo del padre verso il figlio, catturato da una fotocamera digitale e stampato su un semplice foglio di carta da 80 grammi. La ruga, in quello sguardo rubato al padre mentre osservava il figlio davanti alla libreria.

Anni dopo, lei stessa regalò al fratello lo stesso sguardo.

Nella casa colonica sulla collina lo rincontrò negli occhi di nonna Zelmira; era andata là ancora con le stampelle, aveva bisogno di stare lontano da Julian. Lì, tra le vecchie cose del padre era arrivato un pacco, mai aperto e consegnato qualche giorno dopo l’incidente, probabilmente spedito poco prima. Dentro c’erano una serie di floppy ed alcuni fascicoli, una piantina, fotocopie e appunti… poi c’era l’agendina nera, quella con l’elastico rosso, per ogni giorno era segnato un piccolo appunto con cifre e lettere. Nonna Zelmira solo qualche anno dopo, le consegnò anche il resto… un piccolo cilindretto di plastica e lamierino, con dentro una pellicola ancora da sviluppare.

Da quell’agendina era iniziato tutto il suo viaggio a ritroso. A quel pacco si dovevano tutte le scelte fatte nel tempo successivo. A quelle righe, a quelle ipotesi si doveva anche la sua “incognita” o “imprevisto”. C’erano tante schede, oltre alle date dell’anagrafe… notizie di famiglia…. rapporti d’amicizia, relazioni avute con chi e dove. Era una piccola finestra, da cui poter osservare gli inconsapevoli attori delle proprie vite. Lì  era tracciata una fitta ragnatela di rapporti, tutti intrecciati intorno a quella zona della città, a quel quartiere tracciato in rosso: la Pompose.

 

Il passo è leggero, il cuore è pesante, il fiato non cede… non può. Sono belli i ricordi, è bello ricordare ed è strano pensare di chiudere tutta la giornata nella mente per non lasciarla più. È una lunga attesa ed invece di correre sulla ghiaia, che gioiosa saluta con il suo rumore ruvido, polveroso, ogni passo, sembra di percorrere il miglio verde. Si attende quello che si sa un giorno accadrà, ma è strano sapere che quello è il giorno perfetto; anche perché non c’è un giorno perfetto, non nell’immediato, magari dopo grazie all’imbellettatura del ricordo lo diventerà.

Oggi è un giorno, un giorno da vivere fino alla fine senza alcun rimorso, perché poi non ci sarà tempo per il rimpianto.

Nel cuore oltre al sassolino, quello che nessuna macina riuscirà mai a schiacciare[5], c’è anche un volo d’ali… è bello riuscire a dimostrare ad una persona che le vuoi bene, è bello riuscire a far coincidere le parole con i fatti.

 

Finalmente, la sera prima gli aveva risposto e non con il solito “... lo sai…”

Era riuscita mettere in fila: soggetto, verbo e complemento, in quelle tre parole… sì quelle… proprio quelle più dette nel mondo, anche se spesso a sproposito. Un passo da gigante per lei, nonostante fosse incapace di dirgli di no, un qualsiasi no, non era mai riuscita a confessargli la verità, quella verità.

Aveva dovuto cedere al suo cavaliere, perché tale era, l’aveva vista e sorpresa in bilico nel suo dolore, era riuscito a risollevarla, a placarla, a conquistarla del tutto. Era caduto anche l’ultimo mattone di quella cinta eretta per rimanere l'irraggiungibile damigella dell'inaccessibile torre.

 

Questa mattina l’aria è fresca e il sole prova a fare capolino dalla soffice coperta di nuvole, un raggio filtra ed illumina come uno spot qualche ramo, gli alberi sono ancora verdi e fronzuti.

Sì, sarà una bella giornata, un bel sabato da passare insieme, magari nel parco…

 

Just a perfect day

drink sangria in the park

And then later when it gets dark

we go home[6]

 

La casa è bloccata in uno spazio tempo lontano dalla realtà, sembra un fermo immagine di un’ordinaria scena quotidiana. L’appartamento vuoto prima del rientro dei suoi abitanti, in realtà, non ci sarà alcun rientro, è finito quel tempo. Girando la chiave nella toppa Alain stringe quelle poche pagine che ha in tasca, come fossero un amuleto, ha quasi paura ad entrare e nello stesso tempo ne ha un bisogno fisico, viscerale, totale.

Lo scatto ha mantenuto il suo solito suono, mentre la porta gira docilmente sui cardini, ad aspettarlo un corridoio muto, la luce calda e soffusa che filtra dalle finestre stride con il gelo che attanaglia la mente, rendendola quasi incapace di pensare.

Sono passati pochi giorni da quel giorno, in cui si sono chiusi la porta alle spalle incuranti del futuro, certi di rientrare… insieme, come sempre.

Adesso non ci sono più i sigilli, non sulla loro porta, sembra assurdo, ma per un qualche insondabile motivo sono migrati nella porta di fronte…

 

Sabato sera Julian aveva messo un punto alla famiglia, fine dei Ricci – Label. Da solo in casa, con una vecchia Maurer[7] - vecchio ricordo tedesco, un souvenir del bisnonno, datato ’15 - ‘18 - si era seduto alla sua scrivania. Sul piano, in una liscia cornice d’argento, c’erano tutti gli altri, allegri e sorridenti nel gazebo di nonna Zelmira, con i bicchieri alzati… stavano festeggiando con ottanta candeline gli anni della nonna… Una vita prima.

Di fianco c’era uno scritto che sarebbe apparso nel quotidiano di domenica, il titolo recitava:

Una storia semplice… o forse solo ignobile.

In fondo si trovavano due iniziali puntate, una J e una R. Era una mattanza di nomi e fatti, stilata con una penna fredda ed asettica, che dietro all’uso dell’impersonale, raccontava una storia dannatamente personale. Quella stessa notte, furono fermati tutti quei nomi, scattarono le manette e le teste si chinarono per entrare nelle automobili con i lampeggianti. Un’incredibile azione coordinata che permise l’arresto dei capi di una banda atipica e spietata, tutti esponenti di quella classe sociale patinata, che talvolta occhieggia dai giornali.

Dirigenti d’azienda, banchieri, stimati liberi professionisti, tutti impensabili ed incensurati. L’articolo era stato spedito a tutte le principali testate giornalistiche e televisive. Il Commissario Girodelle si era visto invece arrivare un messaggio di posta elettronica con tutti gli allegati e, poi, in una busta la chiavetta di una casella postale. Lì era conservato tutto il materiale originale di Enrico, tutte le stampe di Julia, tutti i suoi appunti e il suo report; anni di silenzioso ed approfondito scavare dedicati a capire cosa era successo.

Nessuno seppe perché Julian si mise la Maurer in bocca, quale il suo vero motivo, lo trovarono così gli agenti che erano corsi a prelevarlo; quando lo videro, non si posero nemmeno il dubbio che potesse essere un omicidio travestito da suicidio, troppo palese la seconda ipotesi.

Maurice/Barbablù venne catturato nella sua “casa dei giochi”, in corso di restauro da parte dello studio A.A.A.; Nicolas/Nero bloccato mentre cercava di uscire dal retro del suo negozio di armi d’epoca, ed il goffo Cardinale venne fermato per eccesso di velocità. Hansel, il Conte ricevette la visita della madama e con fare incurante si fece prelevare senza tante storie. Così quella stessa sera vennero chiamati a deporre anche il Generale, padre di Oscar, lei stessa e il suo consorte André, insieme al suo socio Alain.

 

La storia è semplice, quasi troppo per pensarla…

Un gruppo d’annoiati ragazzi del rinomato Kinder College si trova un giorno a casa del più grande, il quale propone un semplice gioco, un affare e lo fa in questi termini: "Perché dobbiamo far arricchire qualche pidocchioso essere con i nostri diletti? Proviamo a costruire una società che si occupi del soddisfacimento di alcune esigenze… particolari, mettiamo un capitale comune, ciascun per quello che può e poi reinvestiamo gli utili”.

La vecchia storia del terzo: un terzo per comprare e rivendere boliviana rosa, anfetamine e C.; un terzo per foraggiare il giro di strozzo[8] ed infine un terzo per il gioco d’azzardo. Ovviamente, tutto in famiglia, tutto nella scuola e nei giri limitrofi. Insomma, solo clientela esclusiva, gente di cui si sapeva molto e forse troppo. A chiudere il tutto stava il fatto dell’assoluta mancanza di tracce, tutto fatto nella più assoluta tranquillità tra un aperitivo al Golf Club ed una festa, dato che, come dice il famoso adagio "una mano lava l’altra e tutte due insieme lavano il viso".

Si prestava all’amico che voleva cambiare la moto, poi la macchina, poi la barca… ed il tasso cresceva, cresceva insieme al giro d’affari. Il barone universitario, il primario, il figlio del famoso penalista, si teneva il malcapitato in scacco con la fornitura di polvere e magari, ci si premuniva che certi suoi incontri venissero documentati, in caso di guai.

Ma la gallina dalle uova d’oro era il giro delle scommesse, a cui soprattutto gli arricchiti non sapevano dir di no...

E così, di scommessa in scommessa cresceva il fido, che sarebbe stato stretto dal nodo della cravatta. Un cancro interno inarrestabile, condotto nella più assoluta omertà.

Poi un giorno i vertici di questa nuova società per affari si erano trovati dinnanzi ad un’insolita richiesta... Abbandonate le professioniste o le aspiranti tali si apriva tutto il mondo delle “inconsapevoli”. Prede selezionate per gioco, che venivano circuite e sulle quali si puntava...

Proprio da questa nuova attività arrivarono i guai, per una scommessa mal giocata e per una puntata bruciata.

Il nuovo mercato “farmaceutico” avviato dai rispettabilissimi professionisti, causò un piccolo terremoto nelle file della vecchia malavita organizzata a cui non piaceva certo l’idea perdere quella fetta di guadagni, ciò comportò una vera piccola guerra all’interno del ghetto della Pompose, dove bande locali cominciarono ad accusarsi a vicenda di aver spostato il fulcro del mercato. Un guazzabuglio in parte orchestrato dai “bravi ragazzi” insospettabili, insinuando abilmente qualche voce di qua e di là, organizzando qualche partita rancida di roba.

Comparvero i morti ammazzati, in modo plateale, non preda di un qualche solitario raptus, ma frutto di un’azione decisa a tavolino. E mentre i poveracci si scannavano fra loro, i “bravi ragazzi” pensavano a come conquistare un pezzo della città, oltre al danno anche la beffa, dato che avevano scelto proprio quella zona: il ghetto… la Pompose.

L’occasione gliela diede proprio lo studio del “generale” Reynier de Jarjayes, con il suo progetto di abbattere il vecchio quartiere. Un’altra cosa molto utile fu un certo suo debito acquisito dal gioco spregiudicato di certe azioni, che Reynier aveva acquisito con Maurice, ormai divenuto banchiere. La scelta di certi compagni di crociata divenne obbligata e l’entità dell’ammanco era ormai tale da dover sistemare la figlia con uno di quei “bravi ragazzi”. Come dire offrirla, e offrire con lei tutta l’azienda paterna in dote.

Poi, erano entrati in scena quei due… ragazzi venuti dal nulla, giovani professionisti privi di blasone o di ricchi coprispalla, pieni solo delle loro idee. A nulla erano valse le spinte, le richieste più o meno velate… bisognava cedere davanti alla volontà dell’opinione pubblica. Così i due giovani si erano ritrovati vincitori, senza sapere bene cosa e chi avevano di fronte. I “bravi ragazzi” da par loro avevano chiuso un occhio, ma aprirono la mano sul vecchio generale, che messo alle strette, riuscì a salvarsi immolando definitivamente la figlia. 

La bionda fanciulla però non si sposò con il Conte...

Non subito... Così passarono degli anni ed alla fine lo lasciò… Dopo aver chiuso tutti gli affari, in pari.

Raccolti armi e bagagli riparò nella sua città, tornò dal suo amico d’infanzia e un giorno di metà luglio se lo sposò, davanti alla faccia azzimata e perplessa del padre.

Questo amico e poi marito, altri non era che "uno di quei due" giovani che avevano fatto fallire il progetto Pompose. Si chiamava André.

Il caso volle che anche uno dei “bravi ragazzi”, si trovasse doppiamente coinvolto, da una parte con il padre imbrattacarte sulle loro tracce e dall’altra con una scapestrata sorella, che però piaceva, troppo, al più vecchio di loro. La goccia che da sola fece traboccare il vaso, il disastro, la catastrofe...

Rimedi improvvisati in fretta e furia, da principianti... ed ecco l’avviso al genitore divenne una tragedia, la sorella si dimostrò cocciuta più di un mulo e dotata di una memoria da elefante.

La ragazza commise l’arditezza di cercare di capire e, quando si trovò con tutte le carte in mano, decise che l’unica soluzione sarebbe stata la mattanza.

Al momento opportuno li mise alla gogna, uno per uno.

 

Alain si chiude la porta alle spalle, non può farci niente se vede appannato e negli occhi sente le spine, può solo chiuderli. Immerso in questo buio la rivede e sembra di poter toccarla, baciarla fino a svenire. Piano scivola sul legno della porta e lentamente si trova per terra, poggiando le mani sul parquet, lo sente liscio, caldo e polveroso. Apre i palmi, stendendo le dita, una per una e poi fa forza come se dovesse spingere. Ricorda tutto, senza vedere, ad occhi chiusi, ricorda tutto di quel gesto, di quel luogo e di loro.

 

Era accaduto tutto così fretta che alla fine si era alzato, aveva fatto forza con la mano sul legno del parquet, liscio, caldo e l’aveva vista.

Un viso stupito come il suo. I capelli, ormai, asciutti, aperti sotto la sua testa. Il rosso della chioma stemperato sul rosa del parquet, un po’ di spugna blu dell’accappatoio che continuava sotto di lei, facendone risaltare il periplo chiaro come fosse un’isola in mezzo al mare. Una terra bella, morbida.

Sua.

Con il fiato corto, faccia a faccia per terra, accanto a loro riposava un groviglio indistinto d’abiti, divenuti improvvisamente troppo larghi. Tutto in fretta, come lupi affamati ed assetati dopo un lungo inverno, freddo e sterile, si erano accaniti nel cercarsi, senza pace o riposo, tra il tormento e l’estasi.

Mia.

Poi erano arrivate le parole, sussurrate, mormorate piano nel timore che tutto potesse rompersi e sparire; se n’erano dette poche, era il resto che parlava e non riuscivano a staccarsi da quel faccia a faccia, quasi che in ogni piega, ruga, ci fosse la risposta dell’oracolo.

 

Nel buio degli occhi affiora un altro ricordo, un cielo inverso con piccole stelle disseminate sulla volta. Un mondo che conosce a memoria e di cui può ancora disegnare la mappa[9].

Li ricordo tutti i tuoi nei. Ad ognuno ho dato un nome. Mi sono perso mille volte nel tuo cielo e il mio pensiero volava via leggero[10] in un piccolo viaggio, intima Odissea, che partiva da dietro l’orecchio e scendeva sul collo, sulla clavicola, sullo sterno e poi più giù, in un mio personale dominio morbido di pelle fine e sottile.

Piano si rialza, fa male essere lì, fa tanto male essere lì solo, dove loro erano insieme.

Si avvicina al divano e passando respira profondamente, perché gli sembra di poterla avvertire nell’aria, come se l’aver chiuso la casa avesse potuto, in un qualche modo, catturarne una parte. Gli manca la sua voce e non bastano i ricordi delle letture registrate. No! Gli manca la sua voce, quella che lei aveva solo con lui, quella della radio era una voce per tutti e nonostante si fosse invaghito di quell’eterea presenza, non poteva paragonarla a quel tono segreto, timido, che usava quando erano insieme.

Anche il divano è un muto testimone della loro storia, dalla prima sera dove si erano addormentati e lui aveva usato come cuscino quello spazio sotto le costole di lei. È inutile. Tutto, in quella casa, è legato alla loro vita, quella spesa insieme. Con calma si siede, si accomoda al suo solito posto e lascia libero lo spazio di lei, come se da un momento all’altro dovesse arrivare di corsa. Apre i fogli pieni di una grafia sottile, dritta, minuta, priva di svolazzi, ma concreta e fragile.

Era arrivata quel giorno ed era stato André a consegnargliela; una mano tesa e l’altra chiusa sulla spalla, a fargli forza. Si era trasferito a casa dell’amico, ormai ammogliato, dato che non avrebbe potuto resistere a palazzo delle corna. Dove violenti e sgraditi arrivavano i visi di quelle persone in divisa, bianca o blu che fosse, che ponevano sempre la solita domanda:

“Lei chi è...? In che rapporti era con…? È un parente stretto? Il marito? Se no, se ne deve andare”.

 

Cosa volete sapere voi in che rapporti ero con Julia? Cosa sono e cosa è lei per me, noi siamo e basta! Cosa importa se non c’è scritto da nessuna parte, ci sarebbe stato scritto se avessimo avuto più tempo.

 

La parata grottesca e crudele si svolgeva con il solito ritornello: “Lei qui, non può restare”, “Se ne deve andare”. A questa se ne aggiungeva un’altra che lo stordiva di domande. Solo l’appoggio di André era riuscito a tenerlo in piedi, a non farlo affondare del tutto.

 

I fogli sono sempre lì, ancora muti, in attesa d’udienza.

Con dolcezza, come una carezza li stende ed inizia a leggere…

 

“Ho perso le parole, eppure le avevo qui un attimo fa, dovevo dire cose, cose che sai… Che ti dovevo, che ti dovrei…

Ho perso le parole[11]… ed è strano per una come me, che ci lavora e che ha appena finito di scrivere il suo ultimo pezzo, le ultime colonne. Non chiedermi perché so che sono le ultime, lo so e basta. Ho esaurito il mio bonus, il mio gettone.

Sei l’ultimo e se devo essere sincera a te proprio non riesco a scrivere. Cercherò di essere chiara, il più possibile, nonostante non debba enunciare contorti concetti… Una storia semplice, qui rubo il titolo ad un libro di Sciascia. Posso spiegarti quello che è successo con quel libro. Io sono come il brigadiere, quello che ha tutti i fatti davanti agli occhi e non capisce… poi arriva il dato essenziale, la banalissima posizione dell’interruttore della luce dietro al busto di Sant’Ignazio e, allora, capisce che sapeva anche prima. Quel libricino è speciale, lo divori in poche ore e quando arrivi alla fine e provi a rileggerlo è tutto dannatamente chiaro, palese da non credere. Così è stato per me, sono arrivata alla fine, poi ho rifatto il cammino ed era tutto chiaro.

Oltre che semplice la mia storia è anche ignobile, così come leggerai domenica sui giornali, almeno spero. Una cosa buona del lavorare in redazione è che sai quand’è l’ultimo momento utile per gettare l’articolo in pasto alle rotative. Nulla di strano, riguarda la solita storia di gioventù annoiata, bastarda, peccato che ci siamo andati di mezzo tutti.

C’è un pezzo nella Coefore di Eschilo, che mi è rimasto dentro per tanto tempo e non capivo perché… Quando mi sono risvegliata la prima volta e, poi, tutte le mattine a seguire mi ha accompagnato, recita così:

“Perché i figli salvano e tengono vivo il nome dei morti, come i sugheri, reggendo la rete, preservano il filo di lino dal fondo del mare”.

A forza di leggere libri per radio, non riesco più a pensare ed immaginare senza rubare da quelle pagine.

Perdona Alain, questa piccola donna incapace di dimenticare, di lasciare correre, di farsi guarire dal tempo. Non mi piace la giustizia che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti, no! E non mi piace la giustizia degli uomini e se c’è, ed è diversa, quella delle donne. Forse la mia non è nemmeno giustizia, assomiglia più alla vendetta o semplicemente è delazione. In ogni modo ho voluto sbugiardare chi per anni mi ha cullato nel silenzio.

Perdona se ti ho coinvolto, anzi in realtà è stato il contrario. È vero che ho frugato nella tua vita, che quando vi ho telefonato sapevo molte cose, ma non una… Tu sei stato un’incognita,  da sciupafemmine ed avventuriero sei ora il mio… solo mio.

Cosa ci posso fare, io non volevo… ma tu hai iniziato e continuato con l’indefessa precisione della goccia, quella che scava la roccia. Ho ceduto, mi sono fidata, ti ho creduto ed ora sono felice.

Quante cose non sai[12]… Alain, quante cose non sai di me… cose che non ti ho detto, che non ti dirò mai. Eppure, mi hai sorpreso, non credevo che tu potessi scoprire ciò che nemmeno io pensavo di avere…

Mi hai vinto, non credevo di averlo più un cuore capace di lasciarsi andare, capace d’amare. Fa male anche quello, ma adesso sono felice.

Tieni a mente una cosa, tu sei l’unico, sei stato e sarai sempre e solo l’unico… non voglio questuare con lacrimevoli racconti, semplicemente i miei incontri con l’altra metà dell’altra metà del cielo sono sempre stati degli scontri.

Brutti ricordi.

Ti devo chiarire anche cosa c’è stato con Maurice, tu stesso hai notato che c’era qualcosa di strano. Buffo no? Tu che mi presenti ad un tuo cliente, credendo che sia la prima volta che ci vediamo ed invece… ci stanno un fottio d’anni in cui Julia e Maurice si sono annusati a vicenda. Una storia strana, ma in sincerità… è così. Lui è stato per tanto tempo un pensiero, un’inspiegabile ma tangibile corrente. Dopo il mio soggiorno in prigione mi sono trovata davanti ad una realtà ancora più brutta di quella che ricordavo e quando me lo hai presentato mi sono paralizzata… ma tu eri lì, questo mi ha dato sicurezza  e sono riuscita a fingere.

Poi quando me lo sono trovata davanti e tu non c’eri, allora ho avuto paura e rabbia; come nelle ultime scene del “collezionista”, quando lei in cucina si trova sola con lui, di cui si fida e poi capisce, perché è lui a dirglielo, che è il suo aguzzino. C’è un momento in cui, brandendo il coltello, riamane ferma, poi trema ed alla fine reagisce. Mi sono sempre chiesta se è così, se è plausibile… insomma cosa si fa davanti a ciò.

Senza rocambolesche evoluzioni, io sono rimasta lì, muta sotto il suo sguardo… poi ho avuto la forza di guardarlo… senza cedere.

Ero consapevole che la questione della ristrutturazione di quella villa era un cappio, e purtroppo dovrete renderne conto a Girodelle, certo è… che voi non potevate sapere a cosa sarebbe servita la loro “casa dei giochi”.

Il peggio è Julian, non so neanche cosa mi abbia trattenuto dal piombargli in casa e fracassargli quella testa. Sono subdola, non l’ho fatto, perché spero che lo faccia da solo, in fondo è un pavido…

Sono un disastro, mi perdo in queste righe e non riesco a seguire un filo logico, come se potessi avere davanti ancora tanto tempo.

Credi Alain, credi a noi, lascia stare le parole, soprattutto le mie, credi solo a noi, a quello che siamo insieme.

Oggi è venerdì, è già sera ed ho finito il lavoro in redazione, tra poco passerai a prendermi, ad un orario civile… dato che ho già registrato il capitolo della radio. Questa sarà la nostra ultima sera, spero di riuscire a trovare un attimo solo in cui dirti quelle famose parole.

Ti ricordi la famosa unità aristotelica? Unità di spazio, tempo e azione, beh vorrei fosse tale. Le ho lì, spero di trovare la giusta coincidenza, di riuscire a far coincidere fatti, tempo e parole in un senso assoluto, che può essere letto solo in quel modo e non in altri.

Ci spero.

Credi Alain, credimi, sei la parte migliore della vita ed anche se breve non posso neanche pensare di rinunciarci. Credi Alain, credi ai nostri silenzi, agli abbracci, alla nostra carne. Con te non sono brava con le parole, spero di esserlo nei fatti, con i gesti.

 

Tua

Julia

 

p.s. Ti lascio un indirizzo, oltre che ad un nome. Lo conosci, adesso si trova in Venezuela… mi sono sempre chiesta perché l’hai lasciato andare. Fanne quello che vuoi… A me viene male al solo pensiero che lui non sappia, che nemmeno s’immagini che fine abbia fatto Diane. Sono una gran bastarda, lo so, ma io glielo direi… lo farei nella speranza di lasciarlo ai morsi spietati della coscienza. Tutti hanno una coscienza, magari l’addormentano un po’, però all’improvviso salta fuori e non ci si può nascondere. Non sarà giustizia…

 

p.p.s. perdona se chiudo queste parole con un pensiero così poco romantico e tanto doloroso. Ti stimo.

Alla fine di tutta questa storia ti lascio con un verso:

chi vuol essere lieto sia

Ricordati e credimi quando ti dico che sono felice di averti incontrato, conosciuto ed amato. Pensa che triste se ci fossimo solo sfiorati, come due sconosciuti in mezzo alla strada, per poi continuare ognuno a testa bassa, verso la propria meta. Sii lieto Alain.

Sempre tua

J.”

 

I fogli rimangono stretti nelle mani, immobili ed il fiato è rotto.

Il ricordo è crudele quando ti mette davanti a quei fatti che non vorresti mai più vedere e, invece, gli occhi della mente continuano a registrare quella scena.

Un bacio veloce sulla guancia…

“Prendi pure il caffè, faccio in un attimo. Dai ti risparmio le noie del corriere…” e via.

I minuti passano ma lei non c’è, non torna ed il caffè è finito.

Allora l’uomo esce e si dirige verso l’altro lato della strada, poi svolta verso sinistra e lì vicino alla cabina del telefono si scorge un gruppo di persone. C’è del movimento, chi piange, chi urla… L’uomo si avvicina, quello che vede non riuscirà mai più a dimenticarlo; sul vetro della cabina telefonica un enorme affresco informale, un Pollock di un rosso sgargiante si apre in un’esplosione di colore gocciolante.

 

Just a perfect day…

 

Oh, it’s such a perfect day

I’m glad I spent it with you

Oh, such a perfect day

You just keep me hanging on

You just keep me hanging on[13]

 

 

 

 

E SE FOSSE…

 

 

Sono fermo sulla mia scrivania, ma non sono furente, né arrabbiato e nemmeno sconvolto. Per prima cosa, se un uomo dev’essere sconvolto, furente o arrabbiato, dovrebbe rispondere agli stimoli che, provenendo dall’esterno, tocchino i suoi nervi. Il cervello risponderebbe a questi stimoli inviando rapidi messaggi a tutto il corpo, cose tipo: aggrotta le sopracciglia, tendi muscoli, dilata le pupille, eccetera.

Ma io non posso infuriarmi perché il mio cuore riposa e le mie dita sono immobili. Eppure avrei tutte le ragioni per essere seccato. I poliziotti girano pavoneggiandosi in casa mia e per loro sono un caso semplice. Mia sorella è di nuovo sulla sottile linea tra l’essere e l’era, e devo ammettere che mai luogo le fu più congeniale. Ma per quanto mi sforzi di essere esasperato, spazientito o furente non ci riesco. Sono morto[14].

E questo branco d’idioti, miopi come le talpe a novembre, non arriverà mai ad una conclusione. O forse peggio, crederanno come credono già di averla sotto il naso. La cosa più semplice, la più ovvia. Un colpo e via.

L’impeccabile uomo che ero, sempre attento e funambolico nel librarmi al di sopra delle umane miserie non ha resisto all’umiliazione inflittagli da quella sorella di cui sopra.

Ma tutto ciò che penso non conta nulla, è solo affare mio e nessuno mai lo capirà. Beh non è vero, qualcuno c’è, ovviamente la sorella – di cui sempre sopra – sa. La gente è stolta, oltre che sentimentale e crede sempre che nel sangue circoli un qualche richiamo atavico.

Balle.

Sono le situazioni correlate, è il contesto in cui si cresce e poi quello che si desidera che ci forma e segna. Mia sorella non è semplicemente “sorella”, è anche gemella. Ciò significa che abbiamo condiviso gli stessi spazi fin dal concepimento, siamo dunque compagni di viaggio. In realtà significa che nessuno dei due è riuscito a prevalere sull’altro. Pensate che sia facile dividere un luogo che è già di per se stretto, pensate sia facile crescere sapendo che c’è qualcuno che ti ruba la scena, le attenzioni? Più che compagni… siamo rivali. Ciò non toglie che per lunghi anni io mi sia lasciato sedurre dalle intenzioni “buoniste” del bravo fratello doppiamente legato alla cara sorella, ma ad un certo punto le cose cambiano. Non posso dire esattamente quando, a differenza di tutto quel vissuto emotivo di Julia io non ho ricordi di quel tipo, io ho sempre aspettato. La notizia di una vita in una nuova città mi ha spalancato gli occhi. Stolta, mia sorella in fondo è così prevedibile con quel suo attaccamento uterino al passato. Lei vive le cose in modo viscerale, con attaccamento. Io mi lascio scivolare tutto sopra, come la più impermeabile delle tele cerate, dato che ciò che non mi serve non mi tocca. Una cosa però mi rende veramente furente, ed è che alla fine io sono morto e lei no!

Certo, potrebbe in qualsiasi momento rompersi il sottile filo di bava che la regge, ma io ormai la conosco. L’erba cattiva non muore mai, e Julia ha un potenziale immenso, certo mal speso... Ma c’è. Anche lei ha aspettato, ci ha imbrogliato e poi al momento giusto ci ha buttato.

Cosa credete, che non conosca la cara sorella?!

Me la immagino persa nel suo mondo di sensazioni, nelle sue connessioni mentali, tranquilla come un felino che si liscia il pelo, lì che aspetta sorniona il momento giusto. Una grande attrice, maga del doppio gioco, dal suo risveglio non ha fatto altro che tessere la sua trama ed io, povero allocco, ci sono cascato.

Incredibile. Volete sapere? Volete sapere veramente perché Julian si è sparato? Non avrete mica creduto che mi spaventasse un po’ di galera, e poi secondo voi ci sarei andato… veramente? No! Non crederete mica che Julia sia stata l’anima candida, questo lo può forse pensare quell’altro furbo di Alain, anche lui incappato nella sua trama. Sì è vero che tra loro le cose non sono andate come le aveva previste la perfida strega.

Beh… in poche parole, io mi sono sparato un bel colpo in testa per gioco. Per scommessa.

La conoscete la roulette russa? Un colpo, un giro di tamburo e poi si preme il grilletto.

 

Sabato mattina Julia entra in casa mia, è ritornata prima del suo solito e quindi si ferma. Ha le chiavi e senza problemi si presenta nel mio studio, io sono appena rientrato e siedo alla scrivania. Lei poggia sul piano di mogano una busta bianca, col mio nome, ed ovviamente non parla. Sapete, a noi non servivano molto le parole, il mezzo più rapido per comunicare era lo sguardo.

Leggo nei suoi occhi le righe scritte sulla carta. Oltre ad una possibilità. In lei c’è un mare di rabbia sorda. Io la disgusto. Nel cassetto di destra c’è il “ferro”, basta poco come un lieve abbassarsi delle ciglia. Prendo la Maurer, la carico, faccio girare il tamburo e gliela passo. Tranquillamente la prende e l’avvicina alla tempia, mi guarda mentre preme il grilletto.

Clack!

Colpo a vuoto.

Mi ripassa l’arma e lì lancia la sfida, anche se in realtà era già stato tutto calcolato nel suo gioco.

Ho un vizio, una passione che si chiama gioco o scommessa, davanti ad un tavolo verde, ad una roulette, ad una corsa di cavalli, come davanti al mercato azionario, il mio cuore esulta. Non riesco a spiegare l’intensità dell’emozione che provo mentre scommetto e vinco, nell’ansia che sottende l’attesa con l’adrenalina che si annida alla base della nuca.

Un piegare di ciglia e la nostra sfida era già aperta.

Peccato che: Julia sia stramaledettamente fortunata.

Se ripenso a tutto mi viene male. Lei che arriva presto, sapendo perfettamente che a breve sarebbe passata la donna delle pulizie. Lei che indossa i guanti, io che lascio abbondanti impronte, a differenza delle sue che si perdono. Lei che lancia l’ultimo sguardo e poi esce.

Io che ripongo la pistola, e poi faccio una telefonata.

Errore. Il telefono non si deve mai usare, è troppo facile da rintracciare.

Beh, faccio questa dannata chiamata credendo di mettere del pieno in quel “clack” a vuoto. Poi esco. Tutto regolare, almeno così credo fino a quando non mi raggiunge un’altra telefonata.

Nel frattempo l’adrenalina si accumula e il pensiero di quella pistola è insopportabile, lei c’è riuscita e io non ho provato. Lei ha vinto e io ho perso; certo che in quel momento, ero anche convito di averle per sempre chiuso la bocca.

Strisciante ed opprimente quel pensiero è il mio unico pensiero. Di nuovo nello studio di fronte alle righe al vetriolo di Julia e all’arma, ho preso la mia decisione.

Non potevo non accettare. Dovevo continuare, per dimostrare… per vincere… per…

La pistola sparò.

Adesso sento e non chiedetemi come, perché non lo so, che è viva e che era questo che si aspettava da me. Mi brucia ammettere che è un ottimo giocatore, che ha un gran talento ed una fortuna sfacciata. È viva ed io tra qualche giorno sarò cenere. Mi piacerebbe riuscire a volare e capitare in un “qualche” occhio, giusto per causare un po’ di fastidio.

Solo un po’[15].

 

 

Ci sono diversi tipi di buio, diversi gradi  o meglio profondità: c’è quello leggermente rosato dotato di udito ed olfatto, che appartiene al momento prima del risveglio, quando inconsciamente ci si avvia allo stato vigile; c’è quello sordo ed assente del contatto mancato, proprio del collasso o dello svenimento, che può presentarsi come un lento scivolare o come un brusco arrestarsi.

C’è il buio freddo, c’è quello caldo.

Tutti questi tipi sono accomunati dalla presenza della coscienza, in modo consapevole o inconsapevole affrontiamo e viviamo queste profondità con una relativa tranquillità, certi che poi tornerà la luce e dopo ancora il buio.

Poi c’è quel buio che nessuno è mai riuscito a spiegare, quello senza coscienza, quello senza ritorno.

In questo momento mi devo trovare nell’anticamera di quest’ultima tipologia.

Ciò mi preoccupa, e non perché abbia paura dell’assoluto ma proprio per il contrario… faccio anticamera e quindi sono ancora sulla soglia, sono ancora imbrigliata nelle pesanti tende di velluto del cinema, in uno spazio di mezzo tra quello della proiezione e quello degli uomini. Questo non era previsto e purtroppo non sono nella condizione di poter decidere in quale direzione andare.

Non era previsto ed è imbarazzante, perché per quanto sia ancora estranea al mondo al di fuori di me percepisco la situazione particolare.

Non era previsto, è imbarazzante come quando saluti qualcuno, certo che sia l’ultima volta e, poi, appena girato l’angolo lo ritrovi. Io ho salutato tutti gli invitati alla festa ed invece di prendere l’uscio mi trovo ancora sulla soglia con la gente che mi guarda. Imbarazzante e non ci posso fare nulla.

È questa mia consapevolezza a spaventarmi, io so, io ricordo, io penso, io ci sono.

Ora se mi trovo al centro di un cubo, le cui facce sono distanti da me, ed io sono sospesa ed equidistante da ognuna di loro, comprendo che fino a quando le avvertirò distanti rimarrò attaccata ad un sottile e trasparente filo di bava. Questo cubo non è fermo, non è stabile… ma si muove, in un certo modo pulsa. La mia unica speranza è che questo pulsare lo porti a dilatare le sue facce, fino a farle tendere all’infinito, fino a quando perderò la loro percezione. In questo caso le cose andranno nell’ordine che mi ero prefissata, nel caso contrario… ovvero, se il cubo si riducesse fino a stringermi, ed io so che le sue facce si plasmerebbero come una seconda pelle sulla mia e poi la trapasserebbero, divenendo sempre più piccole fino a quando non si concentrerebbero in un unico granello nel mio petto…allora…

Queste pareti sono come una membrana sensibile, per cui una volta toccata ed avvolta da questa io tornerò a sentire quello che accade al di fuori del cubo.

Per adesso le facce sono lì, vicine ma non abbastanza da toccarmi ed io mi faccio sempre più piccola al loro centro, non voglio che mi tocchino. Non devono toccarmi.

Aspetto. Questo buio è attesa. Io aspetto, io, Julia, posso aspettare perché riesco ancora ad avere questa consapevolezza. Io, Julia, non vorrei avere consapevolezza. Io non voglio niente, o meglio voglio il niente, vorrei.

Ecco il cubo si muove, pulsa e sembra allontanarsi, si dilata e sono soddisfatta.

Si dilata ancora a fatica, con tensione… troppa tensione… all’improvviso si contrae in un colpo secco, ed è come quando si tende un elastico e poi lo si lascia. Fa male, è una morsa che stringe, un cappio intorno al collo, soffoco, sento il male e sento il resto… e non voglio, non voglio, non vorrei.

 

 

Il tempo passa incurante ed è successo,  dovrei dire che è successo ancora, sono di nuovo, o meglio ci sono nuovamente dopo una breve pausa. Per adesso non ho aperto gli occhi, non ne ho bisogno dato che supplisco col resto, posso udire le voci delle persone che si avvicendano in questa stanza, posso sentirne l’odore e per questo riconoscerle ancora meglio. A volte non c’è nemmeno bisogno che parlino, le sento e comprendo cosa hanno fatto poco prima di passare qui. Sento il profumo cucito addosso a Cassel, crema pasticcera, cioccolato, pasta sfoglia e tutto il resto. Sento zia Liv col suo Poison e capisco che ha appena preso un caffè dall’aroma impigliato nelle pieghe del cappotto di pelliccia. Sento i ragazzi con i loro odori mescolati, con le liquirizie usate per placare il retro gusto del tabacco, aroma proibito, e il dopobarba usato copiosamente per sottolineare un’abitudine maschile, segno di maturità raggiunta o presunta. Sento Margot e la sua rabbia, il suo tumultuoso fiume adolescenziale fatto di rancori mai espressi e ancora non capiti. Sento Jona con tutta la sua forza di bambino sveglio e intelligente, lui è sincero e questo si capisce dalla flessione della voce, dalle pause e dalle sue domande. Lui è l’unico che mi fa ancora delle domande, gli altri raccontano sprazzi di vita occultando i risvolti più dolorosi o sconvenienti. Dicono cose per dirne altre e per tacere l’assurdo riempiono lo spazio vuoto con inutili frasi…

 

Oggi è passato lui, non ha detto nulla ed è stato qui pochi minuti, forse solo secondi. L’ho riconosciuto appena ha aperto la porta, con lui è entrato il profumo del vento freddo e dei vestiti pesanti, odore d’aria e di pelle. Non ha detto nulla, si è fermato e dal suono delle sue scarpe ho capito che era interdetto, impaurito, dubbioso. Mi ha sfiorato il dorso della mano con un dito, un timido contatto, e per quanto breve e furtivo si sono detti più cose il polpastrello del dito indice e la pelle del mio dorso, che tutte le chiacchiere inutili delle visite precedenti di tutti gli altri.

Era un saluto, poi è partito e non so per dove, forse posso immaginarlo ma è meglio che la smetta di pianificare la vita altrui. Ciao e buona fortuna.

Ciao Alain.

Vorrei che mi dimenticassi… non è vero, sono una donna, quindi bugiarda nel pensare ciò. Non vorrei mai che tu lo facessi… vorrei che mi perdonassi, se mai… un giorno. Vorrei ricominciare tutto da capo, ma non si può. Ti lascio alla tua vita e spero di non averla avvelenata troppo.

Ti saluto, mio bel cavaliere errante.

 

Il tempo passa ed ostinatamente rimango attaccata al mio silenzio, al mio buio. Tutto è assurdo. Sono esattamente al punto di partenza. Non è vero, non è la stessa cosa, sono nello stesso luogo ma la mia posizione è cambiata. Ho mosso le pedine, ho pianificato una vendetta ed ora mi ritrovo qui a pagarne il danno e la beffa. Sono colpevole, e per quanto volessi chiudere la faccenda con una plateale uscita di scena, la sorte ha voluto che pagassi il fio delle mie azioni.

Danno e beffa.

Nessuno me lo ha detto, ma le infermiere chiacchierano ed io offro succulenti spunti…

Julian si è sparato, e tutti dissertano sul perché. Non sanno. Io sì, sono colpevole senza attenuanti, ed alla fine per far tacere quella bestia urlante e rabbiosa mi sono macchiata anch’io di sangue.

Credevo di non dover venire a patti con la coscienza, pensavo di cavarmela con la tomba… invece sono qui e dinnanzi sfilano tutte le mie colpe. Sono colpevole senza appello.

Ho giocato, ho giocato con tutti, li ho mossi come fossero su una scacchiera, e quando non ero in grado di prenderli direttamente ho fatto in modo di indurli a comportarsi come volevo. Tra i bianchi e i neri ho tramato, tessuto mentre aspettavo, conoscevo già il gioco del mio avversario, sapevo cose e bluffavo… Ho aspettato il tempo propizio. C’è un tempo per ogni cosa, così dice il Qoelet, c’è un tempo per ogni cosa…

La mia maschera di cera si è definitivamente sciolta, ora porgo il fianco e la carne viva, devo ricominciare senza scacchiera, senza pedoni, alfieri, cavalli, torri re e regine, senza il bianco ed il nero. Forse, sarebbe più indicato dire che devo iniziare a vivere… come fanno tutti… senza rete, senza strategia… con umiltà un giorno dopo l’altro.

Iniziare con il peso delle mie colpe, con il vuoto del mio dolore, con imbarazzo… e da sola.

Per prima cosa devo aprire gli occhi.

Adesso, devo vivere un giorno alla volta, devo tornare a parlare… e poi ricominciare a camminare.

Già camminare, sembra facile… e mi sembra ancora più dura dell’altra volta.

 

Oggi ho infilato le mie scarpe da ginnastica sono uscita e sono andata al parco, ho corso dieci minuti d’orologio e poi sono crollata a terra, completamente spompata. Ho corso male, con fatica, strisciando i piedi. Ma ho macinato un po’, pochissima, strada. Mentre a terra cercavo di riprendere fiato ho deciso... Basta!

Basta, questa città, non è questo il luogo in cui posso vivere. Entrata in casa ho preso uno spillo, ho chiuso gli occhi, e davanti all’atlante aperto l’ho piantato in un punto alla cieca.

Prima di salutare tutti per il mio viaggio al “centro della terra”, sono andata a trovare i miei. La mia famiglia al completo, tutti lì… anche il fratello. Un bacio, un fiore ed una spolverata alle fotografie.

 

A palazzo delle corna saluto il resto della famiglia, abbraccio Jona – è il figlio che vorrei aver fatto con lui – e prendo il mio biglietto.

Ho venduto tutto, non ho più casa né lavoro.

 

All’aeroporto mi attende una sorpresa, una vecchia conoscenza.

“Allora parti… e quando tornerai?”, le parole sono dette sempre con quell’aria paterna e protettiva che usò quando, vestito da barman, mi avvisò di stare attenta.

“Non lo so” ed è vero.

“Hai venduto tutto…”, mi sembra triste, forse un po’ si era affezionato alla giornalista rompipalle.

“Sempre a fare controlli, forse avresti fatto più carriera tra i finanzieri”.

“Forse tu non dovresti scappare”, ma sentilo!

“Forse tu non dovresti preoccupartene”, non ci provare… non è il caso.

“Io credo che tu sappia molto di più di quello che mostri agli altri”.

“?”.

“Io credo che un giorno mi dirai la verità”.

“Scusa, quale?”

“Quella da cui scappi”.

“ E sarebbe? Commissario non pigliarmi per il naso… cosa vuoi dirmi?”

“Sarai tu a dirmelo, un giorno… o una notte”, troppo poco allusivo e troppo esplicito.

“Eh? Non capisco se è un tentativo di adescamento, un proposta in forma di rebus o che…Cosa vuoi?”

“Sai perché non esiste il crimine perfetto?”

“Una traccia rimane sempre”.

“Nel luogo o nella mente”.

 

Forse lui ha capito.

 

Il tempo è scaduto, devo andare. Mentre saluto il bel commissario alzo gli occhi e tra le teste assiepate dell’ingresso ne scorgo due note.

Adesso stanno insieme, si sono sposati ed al loro matrimonio ci sono pure stata…

 

“Juuuu!! Dammi una mano è la terza volta che faccio il nodo, oggi proprio non ci salto fuori!”

“Calmati non sei mica la sposa e nemmeno lo sposo. Non ti facevo così emotivo…”

“Io non sono per niente emotivo. Sono giustamente agitato, solo quel che serve. Insomma oggi si sposa André ed io sono ancora qui con ’sta cravatta!”

“Buono, stai buono. Ecco vedi il nodo è fatto, siamo in perfetto orario ed è ora di andare. Gli anelli li hai presi?”

“Certo che li ho presi per chi mi hai preso, non sono mica uno che si dimentica gli anelli…”

“Ho capito! Tranquillo hai tutto, sei bellissimo e farai un figurone. Ti eleggeranno testimone dell’anno. Dai!”

“Ju…”

“Cosa c’è ancora?”

“Mi sono dimenticato le chiavi della macchina...”

“Santa Pace. Stai buono qui che vado su a prenderle. Dove le hai lasciate?”

“Nella borsa di pelle… no, le ho appoggiate nel piatto delle chiavi, no… poi le ho riprese per l’autolavaggio e poi…”

“E poi le hai lasciate in macchina. Guarda! Senti solo che finisca oggi, perché di farti da balia ne ho voglia zero”.

“Ma quanto sei brontolona!”

“Che? Se l’avessi fatta io una cosa del genere… dimenticarsi le chiavi in macchina, con l’auto aperta… Come minimo me le avresti fatte ingoiare!”

“Esagerata!”

“Sali va’ che guido io”.

“Con quei tacchi?”

“Si possono anche togliere, sai? Non è obbligatorio tenerli!”

“Ma scusa non potevi usare un paio di scarpe basse?”

“Ma oggi ci sei o ci fai? Per una volta che provo ad innalzarmi al tuo livello…”

“Dimenticavo che sei bassa”.

“Basso ti ci faccio diventare io se non la pianti!”

 

Tutto il tempo fu un continuo battibecco, che in certi punti raggiunse anche toni molto accessi, il che contribuì a distrarre Alain dal pensiero dell’amico e Julia dalla situazione. All’altare il testimone era talmente emozionato ed orgoglioso del suo amico da sembrare quasi un padre, che con gli occhi lucidi si gode il fatidico momento. Julia ne osservava le spalle ed il profilo, e già da lì notava lo strano luccichio degli occhi. Sapeva bene cosa significasse per Alain essere accanto ad André, unico testimone, il solo, vero grande amico. Conosceva l’attaccamento verso il buon André, la gelosia ed il dubbio verso Oscar, che nonostante tutto si manteneva sotto il moggio dell’accettazione.

Era stato un sabato pomeriggio alla metà di luglio, nella piccola chiesa dei domenicani. Dopo la cerimonia gli sposi, veramente raggianti, salutarono e festeggiarono nel chiostro, all’ombra delle volte a crociera di laterizio. Poche persone. Gli sposi erano arrivati insieme ed insieme si erano accompagnati all’altare. Lei non vestiva di bianco, ma splendeva di luce propria. Lui vestiva di lino chiaro ed aveva la cravatta intonata agli occhi verdi. Erano belli e felici.

 

Anche adesso, anche all’aeroporto tra mille teste le loro possedevano un’aurea speciale. Dovuta, forse, alla complicità, all’affiatamento… non si capisce bene come mai quando due persone sono in armonia tra loro, questo appaia chiaro anche agli altri. Senza bisogno di parlare, di guardarsi troppo a lungo, senza un motivo particolare l’affiatamento, la sincronia, l’affinità elettiva viene comunque percepita dagli altri.

Lo sguardo di Julia li colse di sorpresa, gli occhi s’incrociarono ma non ci furono saluti, cenni, neanche un lieve ammiccare. Solo un breve, che a tutti e tre parve lungo, sguardo.

Quello che colpì Oscar ed anche André, non fu vederla lì, sapevano che era di nuovo in piedi, e nemmeno vederla parlare col commissario. Ciò che li colpì era scoprirla diversa da quella che si ricordavano, sparito ogni riserbo, annullata ogni certezza e fermezza, rimaneva un’anima randagia.

Com’era successo ad Alain, ormai partito per un lungo viaggio alla ricerca del suo passato, e del presente.

Sperarono entrambi che si ritrovassero, un giorno, un tempo… ma forse non era ancora giunto quello  giusto.

Lei partì, con poco bagaglio… Simile a prima, ma diversa, con quegli occhi scuri e liquidi, resi ancora più grandi dai capelli cortissimi, tagliati aderenti alla nuca.

Lui era partito poco prima, con poco bagaglio… Simile a prima, ma diverso, con le guance spruzzate da un velo di barba e le tempie un poco ingrigite.

Avevano preso direzioni opposte, ma entrambi erano in viaggio.

 

Cos’è il viaggio? È l’errare dell’anima, è il cercare anche sbagliando la strada, il sentiero, la via?

È una prova?

 

Vi fu un tempo in cui giovani cavalieri erranti percorrevano l’ecumene in sella ai loro nobili destrieri alla ricerca di…

 

In un tempo né passato, né remoto, ma probabile vissero un uomo e una donna, le cui vite s’incontrarono per un breve periodo. Le modalità d’incontro furono particolari, così le motivazioni che spinsero lei verso di lui, prive di controllo furono invece le reazioni ed ancor più incontenibile il seguito. Ad un certo punto questa relazione di anime affini, perché in fondo questo erano, s’interruppe lasciando entrambi come cime sciolte di una nave, abbandonate sul pontile.

La ragazza viaggiò, visitò terre lontane e fredde, sperando di trovare qualcosa tra la neve ed i ghiacci. Vagò senza una meta precisa. Senza casa, randagia come il più selvatico dei gatti, seguì la sua solitudine, in realtà un posto ci sarebbe stato, un posto in cui sentirsi a casa, ma la fanciulla non riusciva a sopportare nemmeno l’idea di affrontare quel luogo, e chi vi viveva. Troppo pesante ed opprimente era la consapevolezza di essere rea.

La colpa le schiacciava il petto…

Poi si accorse che non era solo quella, era la certezza di aver fallito. E l’idea di andare dinnanzi a quella donna, che abitava in quel luogo - eldorado di ricordi - con quel peso la rendeva codarda. Scappò fino a quando non si decise e ripercorse all’indietro la strada. Con la cenere sul capo si presentò davanti a quella donna, che l’accolse di nuovo nella sua casa e la perdonò, ma riuscì a farlo solo quando la donzella fu pronta a chiederlo ed accettarlo. La vendetta non porta a nulla, forse all’inizio sazia ma dopo poco ci lascia ai morsi della coscienza, e quella è una fame che non si placa facilmente.

La ragazza ricominciò a vivere nella sua città natale, e riprese ad usare la sua voce per ammaliare i viaggiatori. Eterea sirena dal canto sottile e triste, dalla voce piena e densa capace di donare profondità, calore e vita alle parole posate sulla carta.

Nella grande casa rigata sopra la collina tornò la vita.

 

Al di là dell’Oceano, oltre a lunghe ed alte montagne, su altopiani e terre di uno sperduto verde capaci di ubriacare il più incallito dei bevitori, sotto un cielo di un blu compatto da sembrare un tetto, l’uomo viaggiò. Il cavaliere rincorse il suo passato e quando se lo trovò davanti… passò oltre.

In fondo tutto quel cercare alla fine era servito a sé stesso, non c’era più bisogno di rinfacciare la sorte della sorella…

Scomparsa la meta, cancellata la motivazione, l’uomo prese il suo tempo.

 

Il cavaliere errante si muove veloce, senza una destinazione precisa ma per il piacere di farlo, appartiene al paesaggio a ciò che lo circonda, vi è dentro e non è un distaccato spettatore, sente l’aria, la terra, il caldo ed il freddo. Solitario visita ed osserva e solo alla sera, quando la stanchezza s’infittisce, si consola con qualche pagina di libro… poi se la giornata vira in malinconia si concede un po’ di lei. Una cosa è leggere per sé, altra cosa e farsi leggere un libro, è un piacere infantile quello di scoprire una storia nelle sfumature di una voce, forse è un richiamo atavico quello di ascoltare un racconto.

Il viaggio del cavaliere errante diviene anch’esso racconto; infatti,dall’altra parte del mare, oltre l’Oceano, dei piccoli rettangoli di carta portano notizie del suo procedere. L’amico di sempre sorride soddisfatto davanti alla buca delle lettere, nota già uno di questi rettangoli, ed assapora il piacere di leggere cosa vorrà narrargli. Come in un codice segreto la scelta delle parole, la loro posizione e per lui il tipo di grafia, se premuta, scivolata, dritta o inclinata, aggiungono senso alla sequenza di lettere.

Un giorno la bella ragazza bionda trova una sorpresa, è lei a ritirare la posta e si accorge subito della novità, il rettangolo è illustrato da una sequenza di tetti rossi… l’amico di sempre capisce e sorride.

 

Il cavaliere aspetta ed osserva, i giorni passano mentre la nebbia s'infittisce e le giornate si accorciano pigramente. C'è una fanciulla che in sella al suo cavallo a pedali corre e sfreccia giù dai tornanti di una collina, viaggia veloce come Girardengo, ma più bassa e rock[16]... e se si può... anche un poco punk. Una sera la donzella aggredisce l'asfalto traditore e la ruota scivola, spazzando a terra, mentre lei vola via disarcionata. Il cavaliere, scende dal suo teutonico destriero, silenzioso e beffardo si avvicina. Alza la visiera dell'elmo modulare e le sorride allungando una mano per aiutarla ad alzarsi.

Gli occhi di lei sono neri e densi come il caffè.

"Ciao... ".

 

 

Fine

 

 

Ringraziamenti:

Colgo l’occasione per ringraziare in primis gli sparuti e coraggiosi lettori che sono riusciti ad arrivare fino in fondo, spero che questa parentesi vi sia piaciuta o semplicemente vi abbia incuriosito.

A Laura, Assunta e Luana devo invece un GRAZIE inciso con lettere capitali su una pietra miliare, (l’ordine è puramente cronologico).

A Laura per tutto quello che riesce a fare, a come lo fa, dal sito a ciò che scrive e a ciò che illustra, insomma… non si può non ammettere che abbia una mano molto felice.

Ad Assunta primo contatto webbico, incoraggiante e lettrice precisa.

A Luana perché se non ci fosse bisognerebbe inventarla, fonte di energia positiva, umorismo, oltre che tenutaria di Camelot Fidaty Card. A lei devo l’attracco in porto di questo racconto: grazie per il sostegno, la pazienza, l’incoraggiamento ed i suggerimenti.

All’ufficione con Chiara e Sandra, impagabili.

 

Grazie a tutte.

 

FINE

 

pubblicazione sul sito Little Corner del febbraio 2007

 

mail to: tania.t@inwind.it

 

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[1] Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, Adelphi, Milano, 2006, pag. 109. Il riferimento è alle categorie di uomini secondo Don Mariano, nel magistrale interrogatorio condotto dal capitano Bellodi.

[2] Idem.

[3] Grazie ancora a Luana, e ai suoi suggerimenti.

[4] Enrico Brizzi, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, Baldini & Castoldi, Milano, 2002, p. 22.

[5] Rivisitazione del verso “né pietra di mulino a vento/che quel sasso al cuore possa frantumare” di Connor Slave, canzone della donna che voleva essere marinaio, da: Giorgio Faletti, Niente di vero tranne gli occhi, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2005.

[6] Lou Reed, Perfect day, Transformer, 1972.

Proprio una giornata perfetta/ bere sangria nel parco/ e poi, più tardi, quando fa buio/ tornare a casa…

[7] Leonardo Sciascia, Una storia semplice, Adelphi, Milano 2005

 

[8] Giancarlo De Cataldo, Romanzo Criminale, Einaudi, Torino 2002.  Prestito ad usura.

 

[9] Jovanotti, Io ti cercherò, Lorenzo, 1994. Come sempre un consiglio di Luana.

[10] Negramaro, Sui tuoi nei, Mentre tutto scorre, 2005.

[11] Luciano Ligabue, Ho perso le parole, Radiofreccia, 1998.

[12] Elisa e Luciano Ligabue, Gli ostacoli del cuore, Sound track, 2006.

[13] Lou Reed, Perfect day, Transformer, 1972.

Oh, è una giornata così perfetta/ sono contento di averla trascorsa con te/ Oh, una giornata così perfetta/ mi fai venir voglia di restare con te/ mi fai venir voglia di restare con te…

[14] Liberamente tratto da: Ray Bradbury, It  Burns Me Up, 1944.

[15] Idem.

[16] Enrico Brizzi, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, Baldini & Castoldi, Milano, 2002, p. 22.