Camelot

Parte I

 

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-----Original Message -----

From: julia.ricci@fastweb.it

To: silvye.zabo@redaction.carnet.au

Sent: thu, December 1, 2005 4:00

Subject: articoli Pompose

 

Ciao Grande Capo,

Come vedi se non corro sul filo di lana non sono felice, comunque non preoccuparti ho preparato tutto, pure troppo!

Ti spiego: di seguito troverai il cappello al pezzo sul quartiere Pompose[1], si tratta di una sorta d’introduzione poiché, data l’eccezionalità della cosa... o dovrei dire delle persone... ho costruito un diario sulla settimana di ricerche. Questa è una possibilità: utilizzare il pezzo come richiamo ai lettori per i numeri successivi; altrimenti se sua maestà vorrà concedermi quattro, e dico ben quattro, pagine in più si potrà utilizzare l’altra versione con l’intro e la registrazione delle interviste e questa è la seconda possibilità.

Sempre nel treno degli allegati troverai anche le immagini, guarda che sono uno spettacolo! Sono talmente belle che ho deciso di farne delle altre, per riuscire a creare un piccolo book sulla cosa... ma guarda tu stessa.

Ovviamente al mio modestissimo ego piacerebbe tanto che si potessero usare tante foto e magari ci scappasse pure un richiamino in copertina... ma questo solo per il mio ego!

Il resto delle mie membra invece è stanchissimo, in camera oscura ho lavorato come una furia e mi sono respirata tutti gli acidi del mondo... non fraintendermi (la cappa aspirante  è ancora rotta) ho stampato come un off-set una serie di foto b/n da paura... anzi ce ne sono due che mi faccio 200 x 200 e me le attacco al soffitto sopra il letto, così quando mi sveglio inizio bene la giornata... non preoccuparti sono in allegato.

Bene cocca,

adesso ti saluto e se vuoi chiamami tra 6 ore, così dormo un pochino.

Julia

 

 

 

“Parigi, Anno Domini MMV, giorno primo dicembre.

 

Squillino le trombe, si abbassino le teste, si flettano le ginocchia... una nuova era sta per sorgere. Basta! E’ la fine dell’etno-chic, del cheap and chic, del feng-tech, degli spazi vuoti e rarefatti e di quelli pieni ed artefatti; l’architettura cambia e cambia il modo di vivere in città.

Incredibile, ma vero, è successo qualcosa sotto il sole, qualcosa si è mosso e si tratta di un che di genuino, vero e concreto, qualcosa che sfugge alle etichette prestampate della società di massa.

Puro e concentrato, coinvolgente e travolgente e un sogno che si è fatto realtà.

Il sogno di due amici, soci e compagni d’avventura; due uomini che indossate le fulgide armature del coraggio, sono riusciti a sublimare la loro speranza nella realizzazione di un miracolo architettonico, urbanistico e sociale... una nuova “Camelot”.

Per chi ancora non avesse capito, si tratta di questo:

·        siamo a Parigi e stiamo parlando del quartiere della Pompose.

Siamo all’interno di una ex caserma delle guardie francesi dell’Ancien Régime (sì, proprio quella che vide partire i soldati rivoltosi il 14 luglio 1789 alla volta della Bastiglia)[2][1] Altra operazione di “metaurbanistica”. che è ora una fucina d’idee e centro nevralgico della zona.

 

Sì, ebbene sì, ed ancora sì, stiamo parlando dello studio d’architettura A.A.A. al secolo André – Alain - Architecture.

I due giovani cavalieri sono l’architetto/urbanista/designer André Grandier ed il suo socio perito  e prossimamente ingegnere Alain de Soisson.

Per chi non sapesse del miracolo avvenuto alla Pompose, ecco i dati essenziali:

- Pompose: quartiere appartenente alla rive gauche della Senna, da sempre considerato un problema per l’ordine pubblico, si trattava di una cittadella nella città, una roccaforte inespugnabile, un ghetto del caos e della violenza. Luogo da evitare e se fosse possibile da cancellare.

Un buco nero vicino al patinato centro cittadino, dove ogni progetto di risanamento affogava nelle sabbie mobili dell’impraticabilità, ed al centro di questo vuoto stava l’ex caserma, simbolo del quartiere e luogo di non ritorno.

“Lasciate ogni speranza, o voi che entrate”

Decine di progetti, centinaia e milioni di euro per studiare, pensare e riuscire a trovare il modo per bonificare la zona, anni di lavoro persi nelle carte archiviate.

Poi, cinque anni fa, il caso divenne rovente; il famoso studio de Jarjayes Arc. propose alla municipalità una soluzione definitiva:

- sfollamento ed abbattimento di tutto il quartiere per creare ex novo un centro commerciale e finanziario.

Appena resa pubblica l’offerta si scatenò il vespaio e poi la “guerra civile” tra la fazione pro “ex novo” e quella contro. Alla seconda mancava un progetto, o meglio ne presentava troppi e tra loro discordanti e confusi, insomma mancava d’unità, che al contrario si presentava in tutta la sua granitica razionalità per la fazione dei pro.

Poi, il miracolo prese forma nella proposta del giovane architetto e del socio perito tecnico. Quale la proposta... semplice e chiara... l’uovo di colombo, non abbattere, non estraniare ma reintegrare, migliorare e ristrutturare agevolando la partecipazione degli abitanti per creare nuovi esercizi, servizi legati a doppio filo al quartiere.

Furono giorni di battaglie accese, comizi, picchetti, chi a suon di banche e multinazionali e chi suon di gente... insomma: Davide contro Golia.

Ovviamente, nessuno avrebbe scommesso un soldo sui due giovani... ma la realtà presenta sempre nuove sorprese, mentre la de Jarjayes Arc. cercava di togliersi dall’empasse comprando terreni ed immobili, la municipalità decise di accordare fiducia al progetto dello studio A.A.A.

Si trattava di una concessione quinquennale dell’ex caserma e della soddisfazione di quelle agevolazioni a tutti gli abitanti intenzionati a ristrutturare, comprare ed aprire nuove attività, privilegiando chi già risiedeva nella zona.

Un mare di carta stampata si scagliò contro i due giovani accusandoli dei peggiori raggiri, ma erano tutte calunnie e si spensero davanti alla realtà.

Dopo cinque anni (alla fine del mese scade la concessione e quindi si predisporrà o il rinnovo in toto o la modifica d’affitti e tassi) quel luogo rinato nello spirito e rinvigorito nella forma è ormai un caso da manuale.

I nostri eroi non sono soli nella loro crociata, ma concertando le diverse energie sono riusciti ad amalgamare le diverse anime in un’associazione: “La Pompose”, capace di coinvolgere pienamente tutti gli abitanti.

Dopo cinque anni il ghetto è diventato il quartiere modello dell’interculturalità.

Passeggiando per le strade si vedono gallerie di ogni tipo, caffè, librerie d’antiquariato e non, botteghe d’artigianato, scuole, asili ed ovviamente la chiesa, dotata di operose suorine, la moschea e la sinagoga. Tutto all’insegna del genuino, del nuovo, del piccolo, ovvero... niente multinazionali del divertimento, del fashion, del cibo.

Poi... eh... la cosa più bella... bambini, adolescenti e non, che giocano a palla nelle vie. Nei parchetti ci scappa pure qualche canestro. Tra i nonni che chiacchierano seduti sulle panchine, sfrecciano i ragazzini con le bici o coi roller.

Il bello è proprio qui, la vita non si ferma al suono della campanella o del cambio di turno, non è una zona che vive dalle 9,00 alle 17,00 e non è un dormitorio per pendolari. Qui si vive l’antico ritmo di casa e bottega; piccoli artigiani e commercianti abitano e vivono nello stesso spazio che offre servizi ai loro figli. E’ un paesino nella città, al caos freddo ed impersonale della metropoli si contrappone la colorata confusione della convivenza.

 

Data la grandezza  dell’impresa compiuta dagli A.A.A.  mi permetto di invitarvi, e qui mi metto in prima persona, alla lettura dei prossimi articoli redatti dopo una settimana di frequentazione del luogo e delle persone. Sarà il nostro diario di bordo durante questa crociera.

 

P.S. Perdonate il tono entusiasta, che di solito non mi appartiene, ma credo che ci sia veramente del buono e questo mi fa ben sperare in un futuro effettivamente sostenibile.

A presto.

J.R.”

 

“Bene, adesso spediamo il tutto e vediamo come va a finire, se piace o se mi silurano.

Fatto! Il dado è tratto, adesso vado a nanna che mi si chiudono gli occhi, ai posteri lascio l’ardua sentenza... ciò significa che domani quando controllerò la posta saprò di che morte devo morire.

Santa redattrice capo abbi pietà di una povera giornalista, dammi l’articolo settimanale da fare, rimetti i miei errori e non dimenticarti dell’assegno.

Basta! Adesso Julia, da brava bimba, si mette a nanna dopo essersi bevuta il suo litro di camomilla, chiude gli occhi e prova a dormire... santa pazienza!

Ma chi prendo in giro, stanotte mi rigirerò nel letto come un coccodrillo in amore, senza speranza, perché?  Non lo so perché! Ma sarà così! Croce e delizia.

Basta, mi sconnetto e chiudo col mondo.”

 

Julia s’incamminò lentamente verso il bollitore e bevve quel liquido chiaro e profumato versandolo nella tazza a fiorellini, cercando di non pensare e riposare...

Finito il tutto si avviò verso il letto, tuffandosi nelle coperte e chiudendo gli occhi. Croce e delizia, sono i sogni fatti con coscienza anche se ad occhi chiusi, ma sono solo sogni.

 

 

IL BOSS ED IL CONTE

 

 

N.Y. City

Monday

December, 5, 2005

 

 

Ecco che arriva, dopo essere sceso dalla sua limousine, ritorna il Conte!

Ma guardalo, che rabbia mi fa... bello come il sole, come se nulla fosse accaduto, ma in realtà sono successe molte cose e tante situazioni si sono modificate.

Ovvio che fuori sembri tutto fermo a quel dicembre di tre anni fa: lo stesso palazzo, lo stesso studio, lo stesso ufficio, quasi lo stesso personale... ma in realtà è solo apparenza.

La bella francesina ha tirato fuori le unghie, i denti e tutto l’armamentario necessario per tirare avanti la baracca.

Già la baracca, una multinazionale che ha rischiato la faccia per colpa del manager di punta, il bel giovane rampante “nuova promessa dell’economia”, che si è fatto beccare con alcune signorine full optional e tanta neve da farci Babbo Natale. Se fosse solo questo, niente di nuovo, giovani od ottuagenari in azienda si comportano tutti ugualmente, il menage è quello; l’unica cosa è che il tacchino per un pelo non ci ha rimesso le penne.

Cretino!

E lei? La gentil donzella arrivata cinque anni fa come fidanzatina del dio dell’economia, pronta a convolare a nozze... due bei cognomi, due bei giovani, tutta una finta per una manovra finanziaria per spartirsi la torta, non nuziale ma quella dell’economia.

Solo che la ragazza non si è sposata, ha lavorato come una furia ed ha ben messo in chiaro che non avrebbe fatto l’oca giuliva, infatti, mentre il Conte si faceva fotografare, intervistare, ammirare, lei lavorava nell’ombra... tanto che l’eminenza grigia, il vero Boss, vestiva i panni di una diafana creatura bionda, tanto fredda quanto triste.

Messer Pollo ci ha provato un sacco di volte a metterle l’anello al dito, ma non c’è stata storia.

A volte mi chiedo perché sia venuta qua. Perché?

Sì, all’inizio sembrava veramente rapita da Hansel, poi... è successo qualcosa. Certo l’uomo è bello, affascinante, conturbante ma anche infedele, un donnaiolo incallito.

Lo conosco bene io, le segretarie (il termine non rende onore al lavoro) sanno sempre tutto, anche perché sono loro che preparano tutto. Mi chiedo perché ci debbano trattare come arredamento quando si tratta delle loro bassezze, come se non capissimo. Bah! In ogni modo quei due potrebbero essere i miei nipoti, se li avessi.

Alla bella bionda è bastato poco per capire le manie del promesso sposo... feste, donne e non solo, coca.

Il classico affresco della ricchezza.

Poi... il fattaccio. Un colpo esagerato a chi vive di facciata, sputtanati in mondo visione, schiaffati su tutti i giornali.

E’ stato qui che la miss mi ha sorpreso, avevo capito che era tosta ma non pensavo così.

Ha fatto tutto con estrema decisione e grazia.

Una volta che il fidanzatino riprese coscienza lo spedì nel luogo più lontano degli States per curarsi, ripulirsi, senza far parola con la famiglia o con i dirigenti dell’azienda, che poi è stessa cosa.

Fatto ciò, da vicepresidente divenne un presidente, finalmente qualcuno degno dell’incarico, che rovesciò, e rivoluzionò ogni certezza, risanò tutto il risanabile e portò un nuovo lustro. Caddero molte teste, si eliminarono le mele marce cercando di creare un gruppo affiatato e capace di dirigenti in modo da consentire all’azienda una nuova vita.

Ed oggi, di nuovo lunedì, c’è il cambio di guardia; il Conte ha deciso... o forse hanno deciso per lui, che era ora di tornare e lei gli lascia il posto, anche se per me... lei non vede l’ora di andare via.

Mi sembra che si sia messa il cuore in pace, ha capito che così può bastare.

Strano, ripensandoci, direi che tutto è legato a quel quadro. Già quel quadro, è strano ma quando lo guardo mi commuovo, mi si forma un groppo in gola... credo che mi mancherà.

Sì, quell’opera così triste e tremendamente bella che si è fatta mettere nello studio... è vero, sempre dello stesso artista se n’è fatta portare una anche a casa.

Com’è successo... è stato... quando?

Già è vero, dopo quasi un anno dal suo arrivo, camminavamo per Soho e non mi ricordo perché, però lei ci andava spesso, come se aspettasse qualcosa. Quel giorno, iniziato come tanti altri tutti uguali, si bloccò di colpo davanti alla vetrina di una galleria e poi...

Non che abbia fatto nulla, è rimasta lì a guardare, ma a me è sembrato che si sciogliesse come neve al sole.

Dopo pochissimo è entrata ed ha chiesto di chi fossero i due quadri in vetrina.

Un certo Gradier, architetto di Parigi, che stava lavorando al progetto Pompose, sicuramente una promessa per il futuro, un buon investimento.

Ecco più o meno questa la risposta della gallerista, che proseguì pavoneggiandosi per la scoperta e per la difficoltà di riuscire a convincere quel “giovane talentuoso ed affascinante”a promuovere i suoi lavori: l’architetto aveva accettato  solo con la promessa che le opere fossero esposte a N.Y. e non nelle altre filiali della galleria.

Mentre parlava la gallerista consegnò il catalogo al Boss, che lo prese come fosse una reliquia  e lo sfogliò con delicatezza fino a sospirare davanti alla foto del giovane artista... sinceramente, pensai che sarebbe svenuta, in realtà chiuse il catalogo lo portò al petto, respirò con calma e poi tornò il capo di sempre.

Zittì la donna alzando la mano e con un tono che non ammetteva rifiuti, disse:

“Le prendo tutte e due, quella con l’albero la consegnerà all’indirizzo del mio studio, mentre la donna col bambino a casa. Ecco  gli indirizzi. Per il pagamento saldo subito. Mi raccomando la consegna deve essere fatta al più presto, anche oggi se è possibile”.

Rimasi di sasso, lei cauta e calcolatrice non si era nemmeno informata sul costo, non aveva chiesto nulla, le voleva subito tutte per sé.

Non ne compresi il motivo, forse un buon affare da non perdere ma non mi sembrava la tipa che specula sui quadri, ne era semplicemente rapita... anzi li considerava suoi e li voleva suoi.

Come segretaria personale ho comprato di tutto per i capi: profumi, gioielli, stampe rare, mobili ed anche quadri, ma tutto era legato alla moda di quel trand o di quel altro, mancava la passione.

Cosa che da quelle due planches trasudava copiosamente, una forza travolgente espressa nello stratificarsi delle diverse materie, un lavoro d’addizione come per le opere plastiche, poi quei rossi e quei neri amalgamati da un segno pastoso, forte, uno schiaffo in pieno viso. Le ho sempre pensate come espressione di una profonda solitudine, di un dolore immenso e muto capace di urlare.

Da quel giorno tutto cambiò, anche se in realtà sembrava tutto uguale a prima, o quasi...

In ufficio, sulla scrivania arrivò anche un’altra cosa, un portafoto piccolo piccolo, con dentro una spiegazzata fotografia bianco nero che ritraeva due bimbi su un’altalena attaccata ad un albero.

Il nuovo capo, questo solo per me che la vedevo di più rispetto agli altri, aveva occhi diversi; appena entrava in ufficio cercava il quadro e sembrava respirare solo dopo averlo ammirato e a notte inoltrata quando era ora di andare a casa  lo salutava e sembrava respirasse un po’ più di ossigeno per trattenere il fiato fino all’incontro con l’altra opera in camera sua.

Sembrava che guardasse negli occhi qualcuno.

Poi tutte quelle ricerche su Parigi, mai chieste a me direttamente, sempre fatte quasi di nascosto, tra un collegamento e l’altro, nuovi giornali da comprare, riviste d’arte e d’architettura... ma avevo capito cosa cercava, voleva notizie di Grandier, le bastava anche un trafiletto.

L’ho capito, sai, Oscar che quei bimbi sorridenti siete tu e Grandier e che quel quadro è il vostro albero, l’ho capito che lavori per metterti in pace la coscienza...per farti perdonare... per poter tornare da quel bimbo.

Eccola oggi, sempre bella ed impeccabile nel lungo cappotto scuro, che oggi non la copre come il solito ma, l’avvolge. I tuoi occhi hanno fretta, perché nella borsa c’è un biglietto aereo... vero?

Da oggi si cambia, ritorna il Conte e finisce la reggenza del Boss.

Caro Hansel, si vede che ti hanno ripulito per benino... ma quanto reggerai, l’hai capito che ti lascia, anzi ci lascia ... lei il “suo” dovere l’ha fatto ed ora sono tutti affari nostri.

Adesso tocca a me:

“Buongiorno Direttore, bentornato!

Le ho preparato l’O.d.G. per la riunione in sala grande. Poi ci sono le date da fermare per i meeting aziendali. Il vicepresidente Oscar ha redatto la scaletta da controllare...e ”

“Cara Iris, che bello rivederti... efficiente come sempre, la migliore delle segretarie, arrivo subito... ma prima portami il caffè.”.

Non sei cambiato Hansel, credo che durerai poco...

 

La voce, gli scacchi e la cioccolata

 

 

Guarda come mi hai ridotto, non posso credere di essere veramente io. Come hai fatto, che malia hai tramato alle mie spalle. Sono io questo riflesso tra la condensa del vetro, quest’ombra colorata tra le gocce d’umidità e le nuvole di vapore del mio fiato?

Sì, sono io che ti aspetto.

Maledico quella mattina, quell’ora così inconsueta in cui t’incontrammo.

Qui da Cassel, il pasticcere, erano le sette e con André tornavo da una lunga notte divenuta giorno, avevamo fame e volevamo sentirci ancora giovani adolescenti e ci siamo detti:

“Ci facciamo due paste con la crema… magari anche tre!”

Così entrammo, come potevamo resistere alla vetrina già illuminata, piena di peccaminosi manicaretti che occhieggiavano dai ripiani con fare tentatore. Appena varcata la soglia, siamo stati avvolti dal profumo rassicurante di mille sapori, di zucchero, di burro, di pane e forno; un aroma antico che ognuno di noi conserva sepolto nel ricordo, pronto a riassaporarlo nel momento in cui si vuole sentire il bambino felice del suo pasticcino.

Persi tra le chiacchiere e l’indecisione di cosa addentare sei entrata tu. Lo scampanellio della porta che tranquillamente girava sui suoi cardini lasciando entrare l’aria fredda, il pestare delle scarpe sullo zerbino e poi la “voce”.

“Buongiorno Cassel”.

“Buongiorno a te Julia, ho già preparato tutto”.

“Sei la mia fortuna, il mio personale “pusher” di bignè, ma dove lo trovo un altro pasticcere così? Grazie! Tu mi vizi”.

André ed io ci siamo guardati, non ti avevamo ancora visto ma la voce, quella, era assolutamente inconfondibile e poi il nome… la conferma di quello che temevamo o speravamo e che per un mese nessuno di noi ha avuto il coraggio di chiederti.

Ci sei apparsa così per caso, anzi a dire il vero noi eravamo gli intrusi del tuo quotidiano, con quelle vissute scarpe da ginnastica, la calzamaglia tipica di chi corre e i ciclisti di maglia per stare più calda, la felpa col cappuccio, i guanti, la sciarpa e il cappello da cui penzolava un’irrequieta corta coda di cavallo, eri lì. Mi ricordo sai come ti sei tolta i guanti, sfilando le dita una ad una poi hai srotolato la sciarpa come fosse stato un grosso boa di piume di struzzo ed hai tolto il cappello scuotendo la testa…

Avevi il viso accaldato dalla corsa e la punta del naso rossa ed umida, le labbra segnate dal freddo e dal vizio di morsicarle e umettarle. Come la prima volta che ci siamo incontrati, quando arrivasti trafelatissima per l’intervista, è stato il particolare che più mi è rimasto.

Labbra morbide, ma quello inferiore portava tutti i segni del tuo vizio, due solchi allineati affondati nel rosso della carne, come l’impronta di una palizzata, già da quella prima volta avrei voluto saltare quella bianca staccionata.

Sei stata tu a salutarci ed impietosamente ci hai fatto notare le occhiaie, l’età e i postumi di una notte di baldoria, non dovevamo avere un’aria troppo sveglia, poi hai chiuso con:

“Beh! Cari “Belluomo” e “Sciupafemmine” vi auguro un buon proseguimento di giornata”.

Hai preso il tuo sacchetto, hai bevuto il tuo caffè, ti sei girata e poi eri già fuori della porta.

E’ stato il pasticcere ad avere pietà di noi, o forse solo di me, ci ha raccontato… ed ho capito che lo sarei venuto a trovare molto spesso.

“ Julia corre. Tutte le mattine dalle 6 alle 7, a meno che non ci siano problemi al giornale o alla radio. Abita nello stesso palazzo che ospita la pasticceria oltre allo studio dentistico dei suoi, i Label. Sono quattro generazioni che i Cassel e i Label abitano e lavorano qui. C’è un antico patto tra il mio avo e il bisnonno materno di Julia, le due famiglie si scambiano favori: dolci e clienti per i dentisti, cure gratuite per i pasticceri ...”.

 

C’è un che di “diabolico” nel mettere vicini di casa il pasticcere ed il dentista, come c’è qualcosa di ”pericoloso” in te.

Julia, non è solo un mese che ti conosco, è vero a fine Novembre, gli ultimi dieci giorni hai telefonato per l’intervista ad André e me, per scrivere un articolo sulla Pompose e sul nostro “esperimento” urbano. Risposi io a quella chiamata e subito mi venne il dubbio: la voce?!… solo un po’ più nasale e frettolosa rispetto a quella de “la lettrice”.

Erano già diversi anni che seguivo, o meglio, seguivamo perché anche André appartiene ai fedelissimi delle notti dispari. All’una esatta, da un’emittente locale e puramente cittadina, partiva il programma “La Lettrice”, in tanti anni non è mai stato rivelato il nome della speaker. La voce leggeva semplicemente, a volte solo brani altre tutto un libro… mai un commento o una dissertazione… solo lettura. André ed io ti ascoltavamo al buio, solo il camino acceso durante l’inverno, ognuno sulla sua poltrona ad occhi chiusi… la stanza si riempiva solo della “voce”, saturandone l’atmosfera. Mi sono lasciato trascinare come un tronco dalla corrente, la tua voce bassa, profonda, “di petto”, era come un grande fiume di pianura, che in apparenza sembra lento e tranquillo, ma che in realtà vorticosamente si spinge verso la sua foce. Tra le pieghe della “voce” ho trovato le anse ampie e morbide dove terra ed acqua si mescolano con la nebbia.

Notte dopo notte, libro dopo libro, riga dopo riga, eravamo lì ad ascoltarti e a desiderare di amare quella voce; anche ad André, nella sua assoluta fedeltà, un giorno è scappato detto che, se non ci fosse stata “lei”, avrebbe messo a soqquadro la radio per trovare la donna della voce. Eri l’inconsapevole amante di entrambi, ad uno curavi le ferite ed infondevi il coraggio di credere nonostante tutto in un amore assurdo, all’altro sanavi l’amaro dell’anima e stemperavi la rabbia di chi ha visto ciò che non voleva. A me.

Dopo essere stata per anni la nostra eterea compagna un giorno sei arrivata in carne ed ossa, bussando alla porta del nostro studio e ti sei presentata:

“Julia Ricci, sono molto felice che mi concediate un po’ del vostro tempo per…”

 

Così abbiamo iniziato, tra le tue domande e le nostre risposte. Poi si sono susseguite le fotografie, altre domande, la proposta del reportage documentario sul quartiere e poi la richiesta di osservare “in presa diretta” la vita all’ex caserma. Così, giorno dopo giorno, ci siamo visti, abbiamo parlato, mangiato, riso, scherzato e giocato a scacchi insieme, ed alla fine tu sei riuscita a scavare dentro e a trovare quello che cercavi e poi… hai scritto. Un successo, grazie al passaparola generale il tuo articolo ed il reportage è stato letteralmente divorato dalla gente. L’opinione pubblica era dalla nostra e così è stato consequenziale il rinnovo del contratto.

Dopo sei andata via e nessuno dei due ha avuto il coraggio di chiederti se fossi veramente tu la nostra “voce”. Poco prima di Natale siamo stati noi a piombare nella tua giornata e lì abbiamo scoperto chi sei.

Benedico quel giorno in cui ho deciso di giocare la mia partita a scacchi con te… tu hai riso, perché rispetto ad André sono un principiante ed anche rispetto a te, ma cosi ogni mattina ci vediamo e giochiamo un paio di mosse davanti ad una tazza di cioccolata.

Ecco sei arrivata, entri in pasticceria e ti avvicini al nostro tavolo con la scacchiera.

“ Ciao Alain, stamattina si gela, non mi sento più: orecchie, naso e mani…”

Mi scappa un sorriso nel vederti così infreddolita:

“ Sei sicura di voler giocare così malconcia?”

“Stai scherzando? Certo che gioco e tu piuttosto cosa ti farai mangiare: l’alfiere, la torre o forse il re?”

Non bluffare e non cercare di tergiversare, lo sai che rischi ed io non intenzione di perdere l’occasione.

“Credo che oggi mangerò io… pedone su alfiere! Tesoro, mi devi una cioccolata e la voglio su da te, scegli dove: cucina, salotto oppure altrove… non mi formalizzo”.

Sono raggiante di gioia mentre tu mi guardi e ti divori il labbro.

“ La cucina andrà benissimo,  ma non farti idee strane…”

 

Dalla pasticceria escono un uomo moro ed  alto, con il cuore pieno di speranze, ed una donna minuta dai capelli accesi di un rosso Tiziano, consapevole di mostrare la “carota” prima di usare il “bastone”.

Sono da poco passate le sette di mattina ed il mondo è ancora in ordine[3], la mente di Julia corre già verso il caos che si scatenerà ai trentacinque, momento in cui tutta la “grande famiglia” si muoverà per prendere possesso del proprio posto nel mondo, ed un unico pensiero si forma nella mente: “Povero Alain, non sai cosa ti aspetta… non mi conosci…”

 

Continua

 

pubblicazione sul sito Little Corner del gennaio 2006

 

mail to: tania.t@inwind.it

 

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[1] Quartiere trapiantato da Modena a Parigi, si tratta di un’operazione di “metaurbanistica” che inserisce nella capitale francese una zona del centro della cittadina emiliana, che deve il suo nome alla chiesa della Pomposa.

[3] Chiaro riferimento al libro di Eric Malpass “Alle sette di mattina il mondo è ancora in ordine”.