Primavera

Warning!!! The author is aware and has agreed to this fanfic being posted on this site. So, before downloading this file, remember public use or posting it on other's sites is not allowed, least of all without permission! Just think of the hard work authors and webmasters do, and, please, for common courtesy and respect towards them, remember not to steal from them.

L'autore è consapevole ed ha acconsentito a che la propria fanfic fosse pubblicata su questo sito. Dunque, prima di scaricare questi file, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli su di un altro sito, tanto più senza permesso! Pensate al lavoro che gli autori ed i webmaster fanno e, quindi, per cortesia e rispetto verso di loro, non rubate.

Un cielo placido e luminoso che a mandarlo giù in un sorso avrebbe un dolcissimo retrogusto di miele. Come quello di certi vini mai inventati, mai spremuti, che restano nel ricordo – o nelle fantasticherie? – e sotto i piedi stanchi dei contadini affranti.

Il pomeriggio è all’apice e quella palla rotonda che gli umani chiamano sole è poco dopo oltre la metà del cielo. Scivola comoda verso la linea dell’orizzonte ad occidente... se non mi inganno.

La vigna, i tralci, i pampini, i racemi se ne stanno calmi con le radici protette dalla terra, ma i grappoli e gli acini, i noccioli e la buccia non ci sono più.

Ed io me ne sto qui straordinariamente maturo e sobrio, col fegato in rivolta, deluso dall’essermi svegliato in autunno sotto questo cielo dolciastro e sorpreso dalle mie confidenze.

Mediamente le confidenze le faccio a me stesso, non a Étienne.

Mediamente mi ritengo poco incline allo zucchero.

Il mio medico mi ritiene ipocondriaco. Sostiene di non poter sostenere la medesima cosa per lungo tempo in relazione al mio fegato, a quanto pare oberato da sostanze chimiche di provenienza piuttosto alcolica.

Mediamente mi sveglio fregandomene di che stagione è o non è.

Mediamente....

Sono in cucina a parlare spalancando i ricordi al vecchio Étienne, sperando nella risacca zuccherosa di una sbornia mancata e che il cielo giallognolo d’autunno oltre il vetro fiorisca all’improvviso come un cielo di primavera.

Il vecchio Étienne non è per niente vecchio, è più giovane di me. Smaltiamo insieme i postumi di un pranzo fin troppo sano: verdure, verdure e verdure.

Qui non arrivano i canti delle donne. Peccato. Saranno a danzare con le gonne sulle cosce, coi piedi nudi che sbriciolano, a ritmo di musica, gli acini.

È inequivocabilmente autunno e questa scena l’ho vista anno per anno, da qualche anno. E l’ho sognata tante volte negli anni bui della caserma.

Ogni volta l’ho trovata eccitante: la terra si sta per addormentare, l’uva muore sotto i piedi delle donne per scorrere come sangue nei bicchieri e nelle vene di noi uomini. Per morire meglio.

“In fondo...” riflette pesando la pausa Étienne “tutto ricomincia. Tutto è un ciclo. Le stagioni si susseguono... si inseguono. Estate autunno inverno primavera. Perché non crederci?”.

E quando fa così mi sembra piuttosto impossibile che non abbiamo bevuto proprio nulla che non sia acqua di pozzo.

“Étienne... io ho bisogno di qualcuno che mi riporti sulla terra. Non di un filosofo con la digestione in corso e il delirio sul cambio di stagione”.

“E allora no che non posso aiutarti” sentenzia posando il capo sulle braccia conserte sul tavolo. Soccombe alla pennichella, ma io non ho intenzione di consentirgli questa fuga da fermo.

“Vecchio Étienne... colto e imbranato mi ricordi qualcuno...”.

“Non dirmelo”. Sa la storia.

“Cosa parliamo a fare allora?”

“Ti ricordo lui... ma solo perché dopo anni hai deciso di sentirti in colpa”.

“Non è vero... Anche per questo. Perché no. Ma me lo ricordi veramente. Anche tu sempre con quel vecchio taccuino. Ma si può sapere che cazzo c’avete da scrivere?”.

“Bella domanda... complimenti!” commenta alzando finalmente le sue smisurate iridi celesti su di me.

“Vuoi vedere cosa cazzo scrivo?”.

“Ma lascia perdere...” recedo. Da quando sto male ho realizzato che le battute da caserma mi salgono alle labbra lo stesso, anche senza attingere alla vecchia fiaschetta. Il dolore sotto il costato a destra mi ha insegnato qualcosa.

Apre il taccuino e si china a scrivere con la mano scattante che spinge un mozzicone di matita.

Quello stupido di André scriveva al buio. Lui che non vedeva. Con la mano e il viso vicini al foglio. Come se tentasse di tuffarsi nel bianco per fuggire, per evadere in un mondo che conosceva solo lui.

Alain è un imbecille innamorato e bugiardo.

“E tu sei un ragazzino scassapalle” ribatto alle parole scritte da Étienne sul suo foglio bianco.

“Sì... infatti. Ma che vuole aiutarti a prendere atto di certe cose”.

“Anche tu non prendi atto di quel che riguarda i fatti tuoi...”.

“Può darsi. Ma ora parliamo di te e mi hai chiesto tu di ascoltarti”.

Sì ha ragione e mai lo avrei fatto prima d’ora. Non l’ho fatto neanche allora. Allora che i sentimenti erano freschi come boccioli.

Il tempo è passato. Le stagioni si sono susseguite anche se non sono di tanto più vecchio non sono giovane come allora.

Uguaglianza, fraternità e libertà.

È iniziato tutto così. Me ne ricordo guardando il cielo dolciastro che mi perseguita fuori dalla finestra. Non me ne ricordo, in realtà, perché non l’ho mai dimenticato.

Uguaglianza, fraternità e libertà.

Tutto è iniziato così, ma, ora, cos’è rimasto?

Me lo chiedo fissando Étienne negli occhi. Sembra sempre che riesca a intercettare il tuo prossimo pensiero ed annuisce. Ed io annuisco.

La troppa uguaglianza ha ucciso la libertà.

Tutti i capi, siano essi nobili o plebei, alla fine la temono, la libertà. Questa volta però sosterranno di averla uccisa per salvare l’uguaglianza.

Non ci è rimasta nemmeno la fraternità. I miei compagni di lotta sono rimasti freddi per terra mentre combattevamo in nome di tre ideali che si sono neutralizzati a vicenda.

Io la rivedo quella scena nella chiesa...

Ai piedi di una vetrata una donna strige un cadavere con la pretesa di chiedere tempo per amarlo ancora. Con la pretesa che il corpo ghiacciato e il sangue siano solo un incubo.

Una disumana illusione.

 

Ieri sera camminavo da solo, come sempre dopo il tramonto.

E ieri sera mi è parso di camminare lungo un sentiero di sogni infranti. Come se fossi a piedi nudi sui cocci della vetrata di quella chiesa. Quando una raffica di proiettili l’aveva sbriciolata avevo avuto la sensazione che una mano crudele avesse voluto cancellare tutto di quel dolore e di quell’amore.

Ma non in me.

Eravamo io e la mia ombra ieri notte. I testimoni di quel che nessun altro può ricordare. Me ne sono reso conto all’improvviso e mi sono fermato.

Qui le strade sono sempre troppo poche e troppo brevi per permettermi di elaborare un pensiero completo.

Mi fermo alla luce dell’unica osteria di questo paese e il filo dei miei pensieri correnti si interrompe perché so che sarebbe stupido entrare.

Perché non vale la pena giocarsi la pelle per un bicchiere che tira l’altro, l’altro e l’altro ancora finché non mi trascino sul pavimento col palmo della mano premuto sulla pancia.

Un tempo non accusavo il colpo in questo modo. E ora ci rifletto su, sotto la lampada che oscilla al vento sulla luce gialla dell’entrata. Interrotto il pensiero banale sono ripiombato nei ricordi.  Ho girato i tacchi e ho messo le mani in tasca.

E allora l’ho rivista e sono stato certo che non fosse un’allucinazione.

La pelle molto chiara e le mani nervose. Mi è rimasto in mente questo particolare.

“Ex soldato...” mi ha detto, e mi sono irrigidito. Mi ha puntato con quelle iridi che mi danno l’idea di un vuoto in cui vagare senza appiglio. Dovrebbero essere azzurre e invece sono castane. Le pupille buie le vedevo nella notte e brillavano come spilli e come spilli bloccavano.

“Una madamigella non dovrebbe andare in giro a quest’ora” ho risposto, fingendo indifferenza.

Non mi ha risposto subito e nella penombra, mentre ho finto di non guardarla, focalizzavo l’ovale chiaro del volto. I capelli ondulati e scomposti incorniciavano il viso e scendevano come serpenti sulle spalle. Spirali sinuose e scure che avrebbero dovuto essere bionde.

“Nemmeno gli uomini soli” ha risposto la piccola bocca di vipera.

Allora non ho risposto più nulla e mi sono allontanato camminando piano. Mentre me ne andavo lei, in quel suo assurdo abito femminile, è entrata nella taverna.

Che ci va a fare? Che ci va a fare? Me lo sono chiesto per tutta la notte.

Che ci va a fare in quel posto. Perché è qui quella donna? e perché mi ricorda così tanto lei?

 

Étienne dice che complico la mia vita sovrapponendo immagini.

Io dicevo ad André che si complicava la vita... e lo dicevo anche a lei. Mai chiaramente però, sempre con giri di parole e allusioni maliziose e insinuanti. “Come è tuo costume” afferma Étienne.

“E se gli avessi detto: ‘imbecilli! Vi chiudo in una stanza e se quando torno non avete parlato e non avete scopato...’?”.

“Cosa?” mi fa Étienne, che mi ricorda André, col sopracciglio alto e interrogativo.

“Mi arrabbio!”.

“Chi t’avrebbe ascoltato Alain? I dolori degli uomini sono più forti della capacità di ascoltare, perfino le minacce”.

 

Il passato non torna: è una delle poche certezze. Dice di ficcarmelo bene in testa, mentre chiude con un gesto rapido della mano il taccuino.

Ma le stagioni si succedono e sono sempre le stesse quattro.

E le ore tornano sempre sul quadrante.

“Anche se la primavera si chiamerà sempre primavera però, ricorda, non sarà mai uguale. Alle otto di sera di ogni giorno il tramonto non sarà mai lo stesso... un giorno sarà così discreto che non lo noterai, l’altro insanguinerà il cielo...”.

“Ah... Étienne! Piantala!” mi lamento, piantandomi pollice e indice sulla fronte. Come tutte le volte che fa così.

“E perché ora ti senti colpa?” insiste. “Verso chi? Vecchio beone arrugginito?”.

 

Assolutamente colpevole. Senza appello.

“Étienne... ma sei vergine?”. Mi sento autorizzato a divagare.

“Dici? Saranno cazzi miei” risponde senza batter ciglio. Mi fa quasi incavolare il suo non incavolarsi.

“Ci sono cose che non sai, caro il mio Étienne...”.

“E che non ti chiederò, caro il mio Alain”.

 

Se penso che le ore ritornano sul quadrante e che lei, sotto quella vetrata, voleva portare indietro il tempo....

 

Mi sento in colpa perché ieri ancora una volta dopo tanto tempo e con la stessa forza di un tempo ho desiderato la donna di un amico.

Ieri sera scendeva l’umido sulle mie spalle e le strade erano così brevi che mi sono ritrovato al punto di partenza. La luce dell’osteria mi distraeva di nuovo e quando ho guardato oltre la porta l’ho vista di nuovo, di profilo con le mani appoggiate al bancone.

La vedo da mesi ormai. All’inizio non l’avevo notata. Ma un giorno l’ho sentita parlare ed ho avuto i brividi. Avevo la certezza di sentire la sua voce.

E da allora mi chiedo se sia possibile che due persone abbiano timbro di voce e modo di parlare così simile.

Tiene il capo e lo sguardo alti e cammina senza guardare terra.

Ha parlato con l’oste ancora per qualche minuto.

Ho temuto che intrattenesse i clienti. Gli ha lasciato un involto e ha preso dei soldi. Mi sono allontanato dalla porta aspettando in disparte.

Non mi andava di farmi trovare ancora lì.

È uscita dall’osteria sistemandosi il mantello sulle spalle.

Ha fatto alcuni passi fuori dalla porta, calmi e misurati. Si è voltata verso la strada che porta verso la piazza. La sua figura affusolata e snella si è mossa nella notte e poi si è fermata all’improvviso, lasciando oscillare le falde del mantello.

 

“Chi c’è?” ha chiesto come se dall’aria fiutasse la mia presenza.

“Sono io” ho detto venendo allo scoperto perché non si allarmasse, ma non ha detto nulla. Mi ha osservato, appena definita dalla luce lunare. E aveva un’espressione vaga, severa e insicura allo stesso tempo.

E allora lì, sotto quella luce di luna e fiaccole, di fronte a quell’espressione, mi sono perso. Mi sono perso fra le ore del quadrante e le stagioni.

Ho capito quanta voglia avevo di stringerla, quanto mi fosse mancata.

“Oscar...” le ho detto e la mia voce aveva il suono del rimpianto.

 

Ha trasalito ed è indietreggiata di un passo.

“Alain piantala. Cosa stai dicendo?” mi ha detto con un tono troppo familiare.

Ero così rincoglionito che avrei continuato a chiederle “Sei tu?”.

C’è stato un lungo momento di silenzio. Io non sapevo quale fosse la realtà.

“Almeno accompagnami a casa” ha detto. E così ho fatto. Incredulo ho camminato senza saper chi avessi accanto.

Sul gradino di casa sua si è fermata e si è voltata a guardarmi.

“Non mi chiamo Oscar” ha detto come avrebbe detto lei. Ormai il buio era quasi totale e pericoloso. Sono stato contento di averla accompagnata fin là.

“Questo non lo so” ho risposto ostinato.

“Ti piacciono gli uomini?” si è assicurata. Come se non sapesse.

“Per niente”.

“Torna a casa a riposare Alain. Sei stanco”.

“Per una volta...” ho detto senza aver completato la frase. “Per una volta...” ho ripetuto senza finire.

Però ha capito. E come ha capito se non era lei?

Per un tempo indefinito le sue labbra sono rimaste sulle mie o le sue dita sono state aggrappate alle mie. Non saprei dire. Non saprei dire... però era pelle mia contro la sua. Potrebbe essere stato perfino uno schiaffo, pelle mia contro la sua, e ne sarei contento.

Stupido ex soldato che continua a sognare Oscar Françoise de Jarjayes come se l’acqua non fosse mai passata sotto i ponti.

 

Oggi spira un vento fastidioso. La stagione volge al peggio. Tiro via un’altra erbaccia ed alzo lo sguardo sul mare, leggermente increspato.

“Che tempaccio” mormoro.

“C’è di peggio. Almeno oggi c’è il sole” sentenzia Étienne, espirando un filo di fumo. Sempre noncurante.

Lo osservo per un attimo dopo aver riconosciuto le figure che si avvicinano lungo il sentiero. Le ha viste anche lui, una in particolare e lo fisso per questo.

“Allora?” mi chiede.

Sto facendo mentalmente una rassegna di tutte le sue elucubrazioni sui fatti miei. È il momento della prova.

La luce lo investe in pieno. Stai per dissolverti nella luce d’autunno ragazzo mio, penso. I grandi occhi sono così chiari e trasparenti che sembrano perdere sfumature di celeste per confondersi col pallore del viso in piena luce autunnale. È un segno di resa cedere così a questa luce stanca?

Fisso di nuovo il gruppo di donne che passa poco distante.

“Lei crede che tu la odi”. Sentenzio facendogli un cenno.

La ragazza castana in abito verde ci saluta con un cenno del capo e prosegue.

“No che non la odio...” mi risponde con aria di sufficienza distogliendo lo sguardo. Lo conosco: si è irrigidito.

La scena si consuma con me in piedi e l’erbaccia in mano, Étienne accovacciato con pipa e le donne e la ragazza in verde che si allontanano sul sentiero.

“E un uomo fatto come me dovrebbe ascoltare i consigli di un ragazzino come te?!”

“Non sono un ragazzino... ho trentatré anni”.

“Sei un ragazzino per come ti comporti...”.

“Per i cavoli tuoi però sono obiettivo. È per i miei che faccio disastri”.

“Allora lo sai!”.

Che pazienza! Ce ne rimaniamo fermi a fissare il mare che si increspa un altro po’. Il campo è ancora da sarchiare. Étienne, chiaro come il sole di questa giornata, si passa una mano sulla fronte.

“Siamo un po’ coglioni” commento lasciando cadere l’erba morta.

Quanta erbaccia maligna ha soffocato i nostri sogni.

“Uhm...” annuisce lui con la mano sulla fronte e le pupille ristrette dalla luce del sole.

Dove la troviamo l’acqua per tornare vivi, eh... Étienne?

Dove l’avremmo dovuta cercare André?

Dove Oscar?!

Dove...?

 

Chissà se dopo il mare c’è il giorno.

Chissà un sacco di cose.

Sono stufo di farmi le domande e di darmi da solo le risposte.

Il sole tarda a sorgere oggi o è Alain che soffre d’insonnia?

Noi soldati ci alzavamo prima dell’alba. Noi soldati contadini anche.

“Cincinnato!!!” mi aveva esclamato addosso in uno dei suoi rari sorrisi André. Eppure quel viso era un viso nato per sorridere. Rintracciavi nei lineamenti il piacere per la risata. In quello che potevi ancora intravedere dello sguardo c’era una ostinatezza alla vita che altri di noi, più giocosi ed estroversi, non avevano.

“Che vuoi dire?” gli avevo chiesto senza capire.

“Sei un guerriero che sogna la quiete dei campi Alain”.

La storia di Cincinnato me la sono fatta spiegare da Étienne. Ma io non riprenderei mia più un’arma in mano, come fece invece Cincinnato che tornò alla guerra.

Sono disgustato ormai André. E ti rivedo mentre mi ascolti e mi fissi. E taci, forse il tempo di mettermi a fuoco. Quanto mi manchi, eppure sogno la tua donna.

Qualche strano evento, il timbro di una voce femminile, ha aperto una porta che credevo chiusa. Il vento ha portato un seme tanto tempo fa ed era un seme di dolore. La pianta è germogliata ed è cresciuta nell’ombra e all’improvviso ha fiori che parlano. Che strana primavera li ha fatti sbocciare.

Dicono, Alain, l’amore e l’amicizia hanno un valore. Per amore non si tradisce un amico e per amicizia non ha senso perdere l’amore. È un circolo vizioso. Ma c’è una scala a pioli che porta da una A all’altra, dall’amicizia all’amore e ritorno. Forse ho amato te e la tua donna André con intensità diverse e calibrate in base al nostro egoismo e ai nostri dolori, consapevole che nelle storie d’amore si è sempre in due e che oltre questo numero qualcuno ama in disparte.

Mi hai messo a fuoco? Te lo strappo un sorriso? Uno di quelli che mi lasciavano capire quanto amassi la vita, quanto sfruttassi la fortuna concessa di essere rimasto al mondo dopo un re che ti vuole morto per una ragazzina caduta da cavallo, dopo una lama che taglia un occhio, dopo una folla che vuol farti a pezzi perché per sbaglio sei su una carrozza con uno stemma.

Ma sì ecco un sorriso...

Fuori è inverno ormai. In queste terre non nevica, ma il freddo si mischia  all’umido e sotto la carne è come se riuscisse a bussare alle ossa. Il mare è grigio oggi e almeno i miei campi dormono.

Ieri, sul far della notte, lei coi suoi passi rapidi percorreva ancora le vie con un cesto in mano. Mi ha salutato ed ho ascoltato la sua voce. Per questo io non dormo.

 

“Coglione. Le persone morte muoiono e stanno. Sei tu. Sei tu che attribuisci valore alla loro mancanza. E non fa differenza che siano in paradiso a correre su una spiaggia o sotto terra a far da banchetto alla vegetazione. Questo non lo sappiamo... almeno io non lo so. Potrebbe esserci lo zero o un’altra vita, ma sei tu che soffri Alain”.

“Non soffro più. È passato tanto tempo. Ci penso... ah... a proposito: grazie per il coglione... potrei non capire che parli con me se non tiri fuori sempre questo epiteto”.

“Scusa...”

“No, figurati”.

“L’abbiamo detto che siamo rincoglioniti tutti e due”.

“Infatti”.

“Quello che dico è: lascia perdere. Lascia perdere i ricordi anche se per te significano tanto. Ti piace una donna? Bene. Forse è quella per te. Somiglia a lei? Bene. Ti piacciono donne di un certo tipo. Ma non è lei, non la stai portando via ad André. Non lo hai mai fatto né lo farai. Se esiste l’opzione paradiso Oscar si starà di sicuro scopando André...”

“Ma che schifezza di poeta letterato sei per parlare così?!”.

André in effetti non usava mai queste terminologie da bettola.

“Fammi finire, scusa... ho assimilato il tuo, di modo di parlare. Se esiste l’opzione concime per vermi è in ogni caso tutto finito e amen. Su questa terra ci sei tu Alain”.

Étienne con le sue iridi grandi ti mette a fuoco subito e batte il pugno sul tavolo.

“Quand’è che tu farai lo stesso?” chiedo a bruciapelo. È incredibile come mi mette con le spalle al muro e come sia facile mettere con le spalle al muro lui.

A mio avviso gli avventori di questo posto ci guardano. Discussione animata attorno a due tè che si freddano.

“Quand’è che farai qualcosa per quella ragazza. Anche lei esiste ed è vera. Non è di nessun altro. Per ora: ricordatelo, Étienne, per ora... Se tu provi qualcosa e perdi tempo, amico mio, non so più che dirti.”

“È diverso”. Dice serio mettendo una mano sulla copertina dell’agenda.

“No che non lo è. A me m’ha rincoglionito la vita. Diciamolo. Alla tua età se una donna mi piaceva andavo ben dritto verso la meta”.

“Ah sì?” mi fa di sottecchi. E capisco che sta per fregarmi. “Di chi parli? Di quelle che intrattenevano gli uomini nelle bettole di Parigi? Con quelle sì che tutti si credono irresistibili spezzacuori: basta qualche moneta e fioccano i sì. E sono tutti stalloni. Perché allora sei qui a quarant’anni invischiato nei rimpianti e nei rimorsi?”.

E ora non rispondo.

“Se la vedo tremo. Io credo alla difficoltà di gestire i sentimenti. Io scrivo per lei” dice accarezzando la copertina. Gli credo.

“E cosa ne avrai Étienne?” dico serio, intrecciando le mani.

“Prima o poi il suo cuore” dice e le iridi non si muovono. Sono ferme. Le farai leggere quel che scrivi? Vorrei chiedere, ma non sono fatti miei. Oggi mi sembra stranamente risoluto.

“Ma ce l’hai già il suo cuore biondino. Devi solo andare a prenderlo”.

 

L’inverno sembra non voler finire. Si è insediato e sembra starci comodo qui in riva al mare.

Quando ero giovane ero il capo. Spero fosse non solo perché ero grande e grosso. La gente mi stava a sentire, tranne due persone. Le persone che amavo di più. Ma forse ogni tanto qualche cosa giusta la facevo e qualche cosa giusta la dicevo.

 

 

 

Siamo tutti rubacuori con due monete in tasca e una puttana. È vero. Siamo tutti sicuri con lo stecchino in bocca e le mani in tasca.

Giacché ci sono lo sputo. E lo stecchino finisce a terra fra la polvere e le pietre. È quasi sera. E provo a tirar fuori dalle tasche le mani, ma dura poco perché fa veramente freddo e non ho i guanti.

Era abbastanza scontato che il triste soldato della guardia per dimenticare una vita da recluso dovesse andare con una di quelle e limitarsi ad innamorarsi della donna dell’amico. L’ama così tanto lui che alla fine la ami tu.

Come ora è scontato che una donna avanza nella notte con un cesto in mano verso una locanda debba per forza essere una di quelle. Che una donna che mi offre uno sguardo sia una di quelle.

Mi soffio sulle dita pietrificate dal gelo e mi avvolgo il viso in una nuvoletta di fiato.

Lei avanza e si stacca dall’ombra.

Lo so che per vivere fa i dolci e li vende alla locanda. Non è né Oscar, quella che non potevo avere, né una delle ragazze che potevo avere in ogni momento con qualche moneta.

Stamattina ho visto Étienne con una lettera da inviare, che guardava dritto di fronte a sé. Gli ho guardato le mani e nemmeno gli tremavano.

Che ci sarà scritto?

Mia dama in verde che mi togli il senno mi comporto come se ti odiassi proprio perché ti amo. Ho deciso di prendermi il cuore che mi offri.

Chissà.

Allora sul far della notte sono uscito di casa. Nonostante il freddo, il calendario, sebbene stravolto dai nostri nuovi signori, continua a raccontare che l’inverno è agli sgoccioli.

E allora, dopo aver visto Étienne con la lettera, senza svanire nella luce come quando si arrende in riva al mare – e che mi sembrava André che nella luce, nonostante non vedesse quasi più, rimaneva saldo e al presentat-arm di fronte ad Oscar brandiva l’arma - dopo averlo visto, dovevo fare qualcosa per aiutare quest’inverno a finire.

Justine sa che sono qui nell’ombra e continua a camminare a testa alta, aspettandosi che la chiami con un altro nome.

“Posso accompagnarti. È buio ormai. Continuo a pensare che una ragazza non dovrebbe andare in giro da sola a quest’ora”.

Si ferma e mi squadra.

“Non cambi proprio mai...” accetta sconsolata.

“Non sottovalutarmi Justine”.

Mi sorride. Ti sorprendo? Vorrei chiedere.

Fa già meno freddo.

Le do il braccio e ci incamminiamo.

Strada facendo ci sono buone probabilità che finalmente torni primavera.

Forse Étienne avrà scritto questo:

“Strappiamoci dal cuore l’erba cattiva, proteggiamoci dal vento e dalla brina, curiamo i nostri boccioli. Che il paradiso esista o no, che le mani e la voce tremino o meno, le ore e stagioni tornano sul quadrante dell’orologio con nomi e volti diversi.

Aspettiamo primavera.

 

Ho scritto questo racconto pensando alla bellissima “Primavera” di Riccardo Cocciante suggeritami da Laura, che ringrazio J

 

Pubblicazione del sito Little Corner del luglio 2005

Fine

Mail to sydreana@supereva.it

Back to the Mainpage

Back to the Fanfic's Mainpage