Martinique
cap. 15
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Come la
donna affonda e dice vieni
dentro
più dentro dov'è largo il mare
Come la
donna è calda e dice vieni
dentro
più dentro dov'è caldo il pane
E dirla
noi vorremo mare pane
la
donna sfatta che ci prese all'alba
dentro
il suo petto e ci nutrì di sonno.
Cap. 15
Sette Giorni (reprise)
“Sembra
ci sia solo tu su questa nave, Alain; sei sempre in mezzo.” lo prese in giro
l’ammiraglio de Périgord. “Come te ne sei accorto? Non eri di guardia.”
“Con
una notte così scura, stare sul chi va là non è uno sbaglio.”
Si
portò la mano al labbro tumefatto, valutando i danni. Non gli era andata affatto
male, considerando i numeri. “Diamine però; più sfuggenti delle anguille, si
sono lanciati in mare prima che avessi il tempo di capirci qualcosa.”
“Accendete più torce, controllate da cima a fondo la nave: che non ci siano
brutte sorprese!” ordinò Etienne all’equipaggio e agli uomini che l’avevano
seguito dalla Mistral. Sempre più reclute spaurite cominciavano ad apparire alla
spicciolata sul ponte. Giovani ancora mezzo addormentati si passavano la voce
dell’accaduto, disorientati.
“Ne hai
stesi quattro, Alain!” puntualizzò uno degli uomini intervenuti al suo allarme.
“Ne
avevo visti altri arrampicarsi, devono aver lasciato perdere una volta
scoperti.”
“Non
hai idea dell’impressione, erano neri come la pece, sembrava stessi lottando con
delle maledettissime ombre!”
“Sono
scappati a nuoto, le barche che hanno usato sono ancora lì.”
Le tre
piroghe, simili a delle canoe, ma schiacciate e leggere, urtavano la chiglia ad
ogni onda, abbandonate alla corrente, a stento visibili nella fitta oscurità.
Sul
ponte dov’era avvenuta la colluttazione giaceva una faretra in pelle ricolma di
frecce in legno scuro, corte e piumate. Alain si piegò ad osservarla, ricordando
a stento di averla strappata ad uno degli assalitori nel tentativo di
trattenerlo. Dalle decorazioni dell’involucro alla coda dei singoli dardi non vi
era assolutamente nulla di familiare, nulla di conosciuto. Per la prima volta,
sentì Parigi davvero lontana.
L’ammiraglio gli fermò il braccio prima che potesse raccogliere una delle
frecce. “Fossi in te starei bene attento a non sfiorare la punta neppure per
sbaglio.”
“Urari”
spiegò uno dei marinai. “Una brutta morte. Veloce, ma brutta.”
“È il
genere di informazione che dovrei avere
prima di vedermela con questi tizi disarmato, vero?”
Il
vecchio marinaio rise, battendogli una mano sulla spalla.
“La tua
incoscienza ci ha salvati da un brutto risveglio, Alain. Saranno stati in pochi,
ma questa roba bastava per parecchi di noi.”
***
“Prima
leviamo le tende meglio è.” commentò Étienne. “Gli uomini che si sono imbarcati
sono per lo più giovani sprovveduti, l’episodio sta assumendo caratteri
angosciosi, sono spaventati.”
Oscar
stessa non era del tutto tranquilla, ma lo sembrava. Convinta sostenitrice della
teoria che per avere tutto sotto controllo si dovesse partire dall’apparenza,
conservava il sangue freddo.
“Il più
è fatto, non restano che riparazioni di minima per riprendere la navigazione”
rassicurò lei. “Domattina, come previsto, salperemo. E le reclute farebbero
meglio a conservare i timori per quando insegnerò loro a…”
Accidenti.
Forse,
non sarebbe stata lei ad insegnar loro alcunché.
“Non
state ad angustiarvi.” intervenne comprensivo l’ammiraglio.
“Potrei
restare comunque abbastanza per dar loro un’impostazione. Aspettare un
sostituto.”
“Sappiamo sia io che voi che adesso la priorità è un’altra.”
L’aria
si scaldava e i gabbiani annunciavano l’avvicinarsi del giorno, l’ultimo di
attesa, prima di dover prendere decisioni definitive.
“Spero
con tutto il cuore di avere l’occasione di dimostrarvi quanto vi sia grata della
comprensione che mi avete concesso fin dal primo minuto. Grazie. Davvero,
Étienne.”
L’ammiraglio non sembrò un granché colpito dalla dichiarazione che sapeva
d’addio. Si schiarì la voce, e il guizzo di un sorriso passò veloce sui suoi
tratti olivastri, donandole la migliore delle sue arie di chi ha la mano
vincente: “Capitano di vascello Oscar François de Jarjayes, so che non credete
al mio sesto senso e ai miei tarocchi, ma io sono sicuro che le nostre storie si
siano intrecciate definitivamente. Non vi libererete di me e Camille tanto
presto.”
Alain
li ammirò avvicinarsi circondato dai ragazzi con cui aveva recuperato le
piroghe, distratto smise di rispondere all’ennesimo giro di domande.
Non ne
poteva più di uomini grandi e grossi pieni di timori basati sul nulla, in cerca
di rassicurazione che neanche dei bambini.
“Stanotte non c’era la luna, il cielo era coperto e noi non eravamo pronti.
Questi selvaggi non sarebbero mai così folli da riprovarci oggi. Dobbiamo stare
tranquilli, se avessero potuto ci avrebbero già attaccato, non è vero
comandante?”
Non si
aspettava di essere interpellata direttamente dal ragazzo.
Guardò
Étienne, poi lui, col solito fazzoletto rosso e la fossetta ben piantata in quel
mento che pareva inciso con lo scalpello, aspettare trepidante una sua risposta.
“Ottima
intuizione” gli concesse. “Non sei solo uno spadaccino eccezionale, ragioni
bene.”
Per una
volta, Alain si trovò senza parole. Rivolse un ghigno imbarazzato alle sue
spalle, sorpreso lui stesso dalla propria reazione, ricevendo qualche gomitata
cameratesca che lo fece reagire.
“Ormai
siamo in partenza, mettere i piedi a terra sarà un toccasana per tutti.” tagliò
corto.
“Hai
ancora voglia di sbarcare o il comitato di accoglienza di stanotte ti ha fatto
cambiare idea?” interrogò lei.
Lui si
concesse un momento e uno sbuffo, calibrando uno sfogo sincero senza voler
sembrare troppo negativo.
“A
dirla tutta, io ho solo fatto da portavoce per la maggioranza qui, ma
personalmente non sono affatto entusiasta di questa storia della Martinica,
comandante. Potendo me ne tornerei a Parigi.”
Sia
Oscar che l’ammiraglio rimasero spiazzati e lui continuò a spiegarsi.
“Non è
che senta questo slancio verso il nuovo mondo. Faccio parte di quelli che in
prima battuta ci si sono trovati, arruolati, per una misura disciplinare. Non ho
titoli per un avanzamento di carriera, né prospettive di miglioramento di altro
tipo, che accidente mi può importare allora di quest’isola? Scusate, eh. Meno ci
resto meglio è. L’unico posto verso cui nutro qualche desiderio è casa mia: lì
sì che vorrei andare!”
Era una
visione agli antipodi da quella di Oscar, che suo malgrado sentiva scalpitare la
voglia d’avventura nei recessi della sua razionalità, nel nucleo selvatico e
libero che le sembrava di aver tenuto a bada tutta la vita.
“E non
sei neppure curioso di vedere questa terra? Un posto completamente diverso da
ciò che conosci, dopo aver viaggiato così lungo?”
Lui
scosse la testa piano e le restituì uno sguardo amaro.
“La
curiosità è un lusso. L’adattamento è l’unica virtù contemplata dai poveracci
come me, comandante.”
Lei non
provò a ribattere banalità rassicuranti o salottiere. Lo osservava a braccia
conserte e rifletteva su quella risposta, forse intrigata da un’opinione così
inaspettata, da un’esistenza completamente diversa dalla sua.
Alain
intravide dietro quegli occhi agitati una mente vasta e aperta, un essere umano
così particolare, unico, che non riusciva ad inquadrare o a prevedere. Non si
poneva nei discorsi con la protervia del proprio titolo nobiliare, né come
esponente del gentil sesso. Contraddicendosi nel pensiero, nasceva in lui il
desiderio di esplorare quel
territorio sconosciuto, che pure confinava nel proibito, nello sbaglio, in così
tanti modi.
“L’adattamento, vi dico. Con quello me la cavo.” concluse lui sorridendo. “E ho
la pellaccia dura, credetemi.”
***
Camille
contemplava il suo paziente mentre finiva il pasto, provvedendo a ingurgitare
gli ultimi bocconi della zuppa di marlin per poi passare alla frutta avidamente,
come ormai succedeva da due giorni. I tratti del viso distesi dalla serenità, la
parlantina, la fame da lupi.
Doveva
essere successo qualcosa mentre li aveva lasciati soli, perché l’umore di André
era cambiato, se ne sarebbe accorto anche un bambino.
E il
dottore friggeva di curiosità, quasi offeso perché Oscar non fiatava, nonostante
lui avesse retto il gioco a quel teatrino messo su da Alain, lasciando loro il
tempo per parlarsi. Era un complice, diamine, come potevano non dirgli nulla?
Quasi
sperò che fosse l’allegro convalescente avanti ai suoi occhi a concedergli
qualche confidenza in proposito, visto quanto era diventato amichevole. E
sorridente.
Smagrito, strapazzato, ancora impacchettato nei bendaggi, André era comunque di
una bellezza che non voleva sentir ragioni, considerò Camille. Conturbante. Si
perse a osservare quei denti regolari e bianchissimi strappare bocconi di
frutta, e ammirò il disegno deciso del suo mento sottolineato dalla barba
leggera. C’era qualcosa di trascendentale che andava al di là di tutto il resto
e che consentiva di trascurare la mancanza di un occhio o due. L’eleganza delle
sue proporzioni? Il modo in cui quell’insieme equilibrato interagiva gentilmente
con il mondo? Era aggraziato, in un senso quasi pittorico, leggendario, del
termine.
Se e si
disse SE aveva resistito al suo charme per così tanti anni senza cascargli tra
le braccia, Oscar doveva essere dotata di una rara forza di volontà. O forse
questo aspetto non le interessava?
Come
doveva essere particolare la questione del desiderio per una ragazza simile, con
una tale rettitudine da risultare quasi ottusa e senza nessun tipo di figura a
cui rapportarsi per un confronto. In fin dei conti questi due erano finiti con
l’essere le pietre di paragone l’una della vita dell’altro, con il loro rapporto
unico e interdipendente. Una roba molto complicata, davvero.
Lui
invece era una persona semplice, rifletté, considerando l’effetto che gli faceva
osservare le gocce di succo d’ananas sfuggire dagli angoli della bocca di André
e perdersi sul collo, dove il pomo d’Adamo pronunciato sottolineava una
deglutizione appassionata.
Quello
rise del macello che stava combinando e cercò a tentoni il tovagliolo, che gli
porse Camille, a dir poco attento.
“Avrei
proprio bisogno di una lavata, dottore. E comincia a darmi fastidio di nuovo la
barba, potrei chiederle un aiuto anche per questo?”
***
Quando
lei li raggiunse, Camille aveva già preparato la schiuma e si apprestava a
iniziare la rasatura.
“Oscar,
come ve la cavate con quest’arma bianca?” Le fece, sollevando il rasoio nella
sua direzione. “Avete mai provato? André ti va di fare da cavia?”
Oscar
aveva sedici anni quando si era autoinvitata nella stanza di André una mattina
di estate con il preciso scopo di provare a fargli la barba e ancora adesso
restava per lui una delle esperienze più erotiche mai vissute. Chissà cosa le
era scattato, se si era trattato di uno dei suoi tentativi di sfidare il genere
che non le apparteneva, superandolo in ogni attività, persino quelle di routine
quotidiana.
André
non le avrebbe mai detto di no. A ben vedere, da parte di Oscar era stata
un’invasione dei suoi spazi. Se lui fosse stato davvero solo il suo attendente e
non la sua finestra sul mondo, si sarebbe potuto sentire offeso, non era mica un
giocattolo. Qualcuno avrebbe potuto definirla prepotente. A tratti lo era.
E
invece, oltre ad un banale, viscerale desiderio di intimità con lei che in
quegli anni ricordava essere stato quasi doloroso nella sua intensità, si era
sentito lusingato. L’unica persona con cui lei potesse interagire a quel
livello.
L’aveva
lasciata fare, rabbrividendo di piacere al contatto delle sue dita delicatamente
autoritarie a manovrarlo. Riusciva a sentire il suo respiro attraverso la pelle
inumidita dalla schiuma, mentre - concentratissima - Oscar seguiva i suoi tratti
e affondava la lama sulla carne, avvolgendolo col suo odore estivo, mentre le
cicale consumavano il mondo conosciuto col loro frinire incessante.
Quel
giorno tra tutti aveva capito quanto il suo desiderio viaggiasse con il
paraocchi. Mai, nei pochi episodi in cui una ragazza si era affacciata per
offrirsi nella sua adolescenza repressa per una pomiciata, si era sentito così.
Inebriato. Estatico. Non poteva guardare; lei avrebbe capito cosa lo divorava.
Solo il
dolore gli aveva aperto gli occhi e aveva trovato quelli di lei preoccupati a
osservarlo.
“Non te
la prendere, il mento è un punto difficile, capita anche ai migliori!” l’aveva
rassicurata.
Quando
a fine rasatura il taglio aveva continuato a sanguinare le aveva passato una
ditata di schiuma sul broncio mortificato, provando a sdrammatizzare. Non c’era
voluto molto per cominciare a lottare con quella: lei lo aveva inseguito col
pennello carico e l’aveva spinto sul letto, costringendolo a reagire per
vincere, pur di non darle modo di capire, tenendola alla giusta distanza con le
braccia bloccate, spaventato dalla forza con cui la voleva, il corpo sottile ed
elastico di lei che provava a divincolarsi, con la faccia divertita e imbrattata
di schiuma.
L’aveva
liberata, crollandole accanto sul materasso eccitato e sconvolto.
Allora,
lei gli era salita addosso.
Lei.
L’incosciente. Passando la schiuma dalla propria guancia al suo naso,
dolorosamente adesa ad ogni sua curva, selvatica. Ne era consapevole? Rimase
immobile e stordito alla sua mercé, paralizzato, pregando non finisse quel
contatto.
Era lei
a tenerlo bloccato.
Lei a
prolungare quei momenti a cui sarebbe tornato infinite volte col pensiero,
chiedendosi se anche per lei fosse stata la stessa cosa.
Quella
del desiderio di Oscar rimaneva una questione misteriosa. Per ovvi motivi doveva
essere molto consapevole del proprio corpo. Si allenava, lo conosceva a menadito
e riusciva ad affrontare con obiettività le difficoltà a cui il suo essere donna
la portava ogni mese. Benedetta da un flusso poco abbondante continuava, pur con
qualche precauzione, una vita normale. E non era certo una sprovveduta, perché
gli stessi libri di medicina che aveva letto lui, nella biblioteca de Jarjaeyes,
li aveva letti anche lei, più volte oltretutto. Quindi non poteva ignorare cosa
avesse provato a comunicarle il suo fisico in quei rarissimi momenti in cui
avevano superato certi confini dopo l’infanzia.
Si era
trattato sempre di sue iniziative, tra l’altro.
In
Normandia, ad esempio. Quella volta in cui l’aveva abbracciato, sorprendendolo
nell’oceano gelato mentre nuotavano vestiti, in preda ad una delle loro bravate
nate da una scommessa. Tutte le passeggiate a cavallo in cui per qualche motivo
aveva pensato di condividere la sella con lui. Ad Arras, i pisolini sul prato in
cui aveva richiesto la sua spalla come cuscino, il suo petto come guanciale e
quell’unica notte alcolica e indimenticabile in cui si era risvegliato con lei
accanto a stringergli la mano, l’illusione che quella felicità, quella distanza
potesse bastargli per sempre e la consapevolezza della fame che ne seguiva. Il
volerne ancora. Di più.
E a lei
cosa passava per la testa? Era mai stata almeno curiosa? Conservava quei ricordi
o li aveva rimossi?
La
risposta di Oscar arrivò con un po’ di ritardo.
“No
Camille, sarà meglio facciate voi. Ma attenzione al mento: è un punto
difficile.”
***
“Allora
è domattina, eh?”
“Già.”
Era
passato a trovarlo a sera, dopo la cena, trovandolo teso come una corda pronta a
spezzarsi. Aveva immaginato un cedimento, ma non si aspettava di ritrovarlo di
nuovo in un simile stato di angoscia.
“Non è
che cambi qualcosa se sei preoccupato, sai. Aspetta domani e capirai cosa fare.”
Eh. La
fai facile.
Alain
intuì di essere stato poco efficace.
“A
questo punto una bella dormita è quello che ti ci vuole per affrontare tutto,
no?”
Ma
ancora, André non rispondeva, e dubitava di poter chiudere occhio. Che poi,
quanto era irritante il fatto di ritrovarsi continuamente ad utilizzare figure
retoriche “riguardanti” la vista? Che razza di congiura anche della lingua.
“Senti…
ma sarebbe poi la fine del mondo se non dovessi più vederci?”
André
si riscosse, di nuovo completamente attento.
“Non
dovresti neppur preoccuparti di sbarcare il lunario perché certo ti fornirebbero
una pensione, ma se volessi lavorare sei un uomo colto, ci sarebbero tante cose
che potresti ancora fare. Qui in Martinica o altrove. E l’altra cosa
fondamentale è che non sei solo. Il comandante ci tiene a te. E per quello che
vale anche io farò il possibile, lo sai, no?”
Doveva
essere arrivato a livelli di paranoia preoccupanti per trovare sospetto il modo
in cui Alain pronunciava la parola
comandante.
“Alain…
grazie.”
“Prova
a dormire un po’.”
***
La
disperazione ha un suono sordo, una nota che non si spegne, un trampolino di
lancio verso la follia a lasciarla andare. I pensieri possono rimbalzare contro
le quattro pareti del cranio come una pallina impazzita, ripetendosi
nell’ossessione, sfuggendo alle reprimende della ragione, arrivando a squarciare
dall’interno il contenitore incauto.
L’insonnia, sorella e compagna di questo stato, affliggeva André nell’ultima
notte di attesa prima del resto della sua vita.
Era
stato un ottimista. Solo adesso realizzava la sua situazione
in toto. Solo adesso ne abbracciava
davvero il peso e con questo precipitava in un baratro cupo, senza traccia di
sonno ristoratore.
Forse
Alain non aveva tutti i torti, non era la fine del mondo non vedere. Si era
adattato velocemente, e se ci era riuscito in un’umida infermeria, sul fondo di
una nave, il resto non poteva che trattarsi di una passeggiata. Ormai era cieco
da quanto? Due settimane? E prima ancora, da molto tempo, aveva iniziato a
capire come fare, contare i passi, imparare a memorizzare gli spazi. Raffinare
tutti gli altri sensi che stanotte potevano solo renderlo consapevole della
morsa d’ansia che lo stritolava, rotolandosi esausto nel lettino che da troppi
giorni era buona parte del suo mondo.
Eppure,
ad un certo punto doveva essersi addormentato.
Il
sogno iniziò con una carezza sfiorata, impalpabile e indecisa. Qualcosa di così
delicato poteva appartenere solo alla sua immaginazione, eppure indugiava,
resisteva sulla sua guancia con la consistenza di un alito di vento.
Il
contatto si ripeteva, trattenendosi come uno spirito curioso su ogni tratto del
suo volto, rispondendo al cambio dei suoi respiri. Forse stava finalmente
impazzendo, ma che importava? Se la follia era fatta di carezze non avrebbe
esitato ad abbandonarcisi.
Da un
punto vicinissimo ai suoi stessi pensieri, sentì la voce rassicurante di lei.
Come poteva non essere lei, se era il suo sogno? Un soffio sovrastò l’intero
universo, mormorando con dolcezza al suo orecchio.
Andrà
tutto bene
sussurrava.
Le sue
braccia sostituirono la morsa. Il tepore la paura. Col viso nel suo petto, si
lasciò cullare dall’apparizione consolatrice e la cullò a sua volta.
Nella
sua stretta ritrovò e perse il tempo, il proprio nome, il sopra, il sotto e
l’intorno, un bozzolo incantato e sospeso a sostenerlo senza incertezze, disteso
in quella che avrebbe potuto essere la sua branda come il letto di casa, il
prato in Bretagna, le nuvole. I luoghi in cui non era mai stato e che mai
avrebbe visto.
Andrà
tutto bene
ripeteva la creatura onirica che sapeva di Oscar, scacciando quei rigurgiti di
paura con la sua accoglienza. Modellandosi al suo contorno senza esitare.
Offrendogli la pelle tenera del collo come ultimo rifugio.
Lui con
le labbra saggiò una clavicola, beandosi della seta tesa su quell’osso, respirò
il suo stesso fiato raccolto nella piccola conca che stava sfiorando e sentì il
sogno rabbrividire e stringerlo. Sospirare.
Lo
avvolse morbida, e lui fuso con quel corpo sempre immaginato con dovizia di
particolari, si lasciò naufragare nella vertigine dell’illusione e poi nel sonno
più profondo.
Andrà
tutto bene
disse ancora lei, tracciando una scia bruciante di baci leggeri sul suo capo,
sulla fronte nascosta dai capelli, sulla benda che conteneva la risposta ai suoi
dubbi.
***
Fili di
grigio. O era un nero molto chiaro a prenderlo in giro? No, era proprio grigio.
Il grigio esisteva. Ancora.
Guizzi
di luce infuocata, puntini, forme indefinite in movimento precipitarono ruotando
vorticose, lasciandolo quasi nauseato, e richiuse gli occhi.
Ma era
un buon segno, era qualcosa, si disse. Non era la sua immaginazione. Ancora in
subbuglio riprovò.
Resisté
al giramento di testa e i punti divennero fori, vasti squarci si allargarono sul
tessuto scuro che lo avvolgeva e rivelarono le sue mani, il letto, il catino con
l’acqua con cui si sciacquò il viso. Conosceva quell’angolo al tatto, ma adesso
il tutto era disegnato senza insicurezze dal suo occhio, nella penombra.
Possibile? Da quanto tempo non vedeva la penombra?
Rimasero immobili, nessuno dei due osò fare un passo in quell’istante
cristallizzato.
Gli
bastò annuire alla domanda muta e inutile che lesse nei suoi occhi e vide il
viso di lei trasfigurato dalla gioia, il suo sorriso emozionato riflettersi nel
proprio come il più bello degli specchi.
Questo
prima di ritrovarsi sommerso dai primi compagni di viaggio urlanti, che lo
travolsero con malagrazia, scoprendolo lì. Scesero gli uomini di guardia
dall’albero maestro, venne suonata la campana d’adunata, Gérard commosso e Alain
strepitante non smisero di strattonarlo tra i tanti felici per lui, eroe di
nuovo, Orfeo riemerso dagli inferi senza pendenze.
Il
dottor d’Orsay si fece largo per visitarlo, si ripresentò e conobbe il suo
aspetto delicato, la figura gentile come la sua voce emozionata nel dirgli “È un
miracolo, André!”, entusiasta come se l’occhio fosse il proprio, riuscì a
riempirlo di raccomandazioni sovrastando il pandemonio della nave in festa.
Solo
quando finalmente apparve la silhouette regale dell’ammiraglio sul cassero, col
tricorno nero e l’uniforme tirata a lucido, gli uomini parvero acquietarsi.
Il
colpo di scena fu sentirlo annunciare non ancora la partenza delle navi, ma la
promozione di André Grandier e Alain de Soissons ad allievi ufficiali, con
effetto immediato. Per meriti dimostrati nel viaggio turbolento della Destin,
arrivato infine al suo ultimo giorno.
Fu una
nuova esplosione.
Nessuno
escluso, gioivano tutti, assetati di buone notizie e di voglia di far baldoria.
“Sapevi
qualcosa di questa storia?” chiese una Oscar così esterrefatta da scivolare nel
tu, per la prima volta, con Camille.
Il
dottore, compiaciuto, aveva l’aria di saperla lunghissima, ma si limitò ad
ammettere un “Forse.”
“Ma… si
può? Voglio dire, non occorrerebbe un’autorizzazione dalla Francia,
dall’esercito?”
Il suo
interlocutore sollevò le spalle, minimizzando: “Qui le cose procedono a una
velocità diversa, snellite dalla pressione della burocrazia del continente. Come
saprete, la promozione di persone non di rango ad allievi ufficiali è possibile
anche in Francia, solo è molto complicata quando ci sono troppe persone
ammanicate a litigarsi privilegi. E questo in Francia accade praticamente
sempre. Qui, se pure dovessimo ricevere critiche, tarderebbero ad arrivare.
Un’eventuale destituzione dall’incarico impiegherebbe mesi, senza contare che
non credo sia ancora nata una persona così ostinata da contraddire una decisione
dell’ammiraglio. Che resta la carica militare più importante delle Piccole
Antille al momento, ricordatelo.”
Lei
galleggiava, travolta dai cambiamenti repentini di percorso e ancora incredula
per concedersi la felicità che però, con prudenza, si insinuava. Bruscolini di
sollievo si aggregavano nei recessi del suo animo, formavano piccoli nuclei di
rinascita, le possibilità, concimate, rifiorivano.
“Forse
è tempo che prendiate una decisione, Oscar.” Gli occhi dorati di Camille
capivano. “Se volete tornare a casa, ci sarebbe una soluzione semplice e
immediata: Étienne è disposto ad organizzare nei prossimi giorni un brigantino
per voi, un piccolo veliero che ormai sareste in grado di condurre voi stessa,
ma vi assicureremmo comunque qualcuno di fidato come secondo e una
rappresentanza della Mistral nell’equipaggio.”
Il deus
ex machina colpiva ancora. E il complice biondo qui presente le sorrideva con
dolcezza, senza nascondere l’affettuoso coinvolgimento nelle sue vicende.
I bivi
oggi non facevano più paura.
“Allora, cosa volete davvero?”
***
Questa
versione di Oscar dalla pelle caramellata e dai capelli così chiari da sembrar
bianchi nella lunghezza, non era necessariamente più bella della creatura di
porcellana a cui si era abituato crescendole accanto, ma di certo era nuova e
non riusciva smettere di osservarla.
Mai,
neppure nelle loro lunghe estati da ragazzi l’aveva vista con quei colori
selvaggi.
Il mare
l’aveva stropicciata, smussandone gli angoli e riemergendo con forza nel colore
dei suoi occhi accesi, saturi di luce riflessa. E poi portava la coda. Gli
piaceva un sacco con la coda bassa e le ciocche sfuggenti a carezzarle le
guance; con le sue onde sembrava quasi un’acconciatura elaborata, mentre
probabilmente non ci aveva messo più di un minuto a legarli.
La
camicia bianca frustava il vento all’unisono con le vele spiegate, mentre la
nave procedeva veloce verso la meta e la felicità lo assaliva a ondate; quasi
sembrava volesse prenderlo in giro per il contrasto con il suo umore del giorno
prima, e si sentì sciocco e fragile di fronte agli alti e bassi dell’esistenza,
le luci e le ombre in perpetuo divenire, che nel suo caso disegnavano curve
vertiginose.
“Hai le
lentiggini, non te le vedevo da quando eri alta così”
Lei si
portò una mano al viso, intimidita dal suo primo commento dopo esser stata
studiata così a lungo da aver finito ogni argomento di conversazione spicciola
per dissimulare l’imbarazzo.
“Sono
incantevoli, tu sei incantevole.”
E si
trattenne dal dirle altro o dal lasciarsi trasportare dallo spirito euforico che
lo possedeva, dalla voglia di stringerla lì e adesso tra le sue braccia, avanti
a tutti che certo stavano osservandoli, splendidi così come erano, insieme, al
cospetto del mare e del cielo, in bilico tra la vita di prima e quell’attimo.
“André,
tu cosa vuoi fare… non dobbiamo restare per forza in Martinica.”
Il
plurale, ma che bella idea il plurale, chi mai l’avrà inventato?
“Potremmo anche tornare in Francia, sai, c’è anche questa opzione.” continuò.
E lui
lesse nei suoi occhi la voglia di avventura, la risposta che era anche la sua, a
patto di averla accanto.
“Ti va
di provare a restare?”
FINE
(PRIMA PARTE)
Lettera
aperta ai lettori di Martinique
Anni in
cui in parallelo con la Oscar della storia, ho preso decisioni drastiche e ho
imparato che tutto può cambiare, pur con un grande impegno e sempre a costo di
sacrifici.
Sentivo
una sorta di mortificazione nei confronti dei personaggi irrisolti, pensavo
soprattutto ad André, nel buio della nave e al buio dovuto al contorto stato di
salute inventato per lui. (A tal proposito, a chi di voi interessasse giocare
con le diagnosi traballanti dirò che si è trattato di un caso particolare di
emeralopia, in cui si sono sovrapposte una sofferenza epatica da abuso di
alcolici, una grave ipovitaminosi e - ciliegina sulla torta - il trauma cranico
durante il naufragio. Scusa André. Pietra sopra, dai.)
Adesso
posso lasciarvi i nostri in una sorta di finale aperto, di qui in poi le loro
avventure si spostano nella calda Martinica (in cui non sono mai stata se non
con l’immaginazione, ma quasi quasi, prima o poi, magari.)
Vorrei
parlarvi a grandi linee di quello che ho in mente accadrà, di come certe
dinamiche potrebbero ripetersi, di quanto i personaggi di rottura servano a
farci uscire dai binari delle nostre abitudini, di come sia facile dare per
scontato che le cose che fanno tutti attorno a noi siano quelle giuste. Ma non
lo farò perché da qualche parte spero di continuare, con i miei tempi.
Grazie
a chiunque sia qui a leggermi, ma soprattutto chi c’è sempre stato e mi ha
accompagnata con pazienza e affetto: Laura questa storia non esisterebbe senza
te e il Little Corner, lo sai, ma mi piace ripetertelo. Ti voglio bene.
P.S. La
poesia iniziale in questo capitolo è “All’alba”, di Alfonso Gatto.
P.P.S.
Per la rubrica citazioni da Little Corner, quelle che riesco a ritrovare perché
ho una memoria analogica e fallace (e ahimè, peggiora nel tempo) c’è una scena
di rasatura – tenera e gelosa – nel primo capitolo in assoluto di BK’s Night di
Laura. E il modo in cui Alain pronuncia la parola
comandante… andrebbe ricercato
nell’opificio letterario di Alessandra, che nel suo seguito ipotetico di Autunno
di Laura lo spiega assai bene!
Pubblicazione del sito Little corner luglio 2019
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Fine (I parte)
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