Kitchen Corner

parte 3

Warning!!!

 

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“Oscar… amore…”

“Non voglio morire… non voglio…”

“Ho paura…”

 

“No, ma cosa dici, André, non morirai. Starai bene. Bene. Ora arriva il medico… ora…”

Ma la mano è ricaduta inerte.[1]

 

Non voglio morire… mamma…

 

È una lenta agonia. Non ce la fa più. Il dolore bruciante ha lasciato il passo ad un oblio che progressivamente avvolge. Non vorrebbe lasciarla andare, ma non ce la fa davvero più. Non pensava sarebbe stato tanto difficile, non pensava di soffrire tanto.

 

Sente la sua voce di ora, lontana, sfumata con quella di un tempo, solo ricordo, che pare farsi più vicina.

 

Affonda le caviglie nella neve che brucia, umida, fino nelle ossa.

Le strade sono ridotte ad un pantano. Il freddo punge, lo sente fino dentro al cuore. Le carrozze sollevano ruote d’acqua e poltiglia. Il mantello, troppo leggero, è zuppo.

Trema, André, illudendosi che il passo veloce serva a scaldarlo. Ma i piedi stentano, nelle scarpe troppo grandi che sua madre lo ha ammonito, severa, di farsi durare, con la solita aria di lutto, in casa, quando il fatto naturale che lui cresca viene accolto come l’ennesimo problema da archiviare.

Eppure vuol bene a sua madre, André, perché ha quasi solo lei.

Il resto del quasi, alza lo sguardo verso il paesaggio di azzurro e grigio, è là dentro, nella costruzione in fondo alla strada, che affonda riflessa nelle pozzanghere.

Sente la carrozza arrivare da dietro, un rumore metallico, sordo, e istintivamente si stringe più addosso il mantello, come a difendersi. È quasi arrivato.

L’azzurro della neve gli vortica attorno, il respiro una piccola nuvola.

 

Il cancello aperto accoglie la vettura. La segue con lo sguardo mentre i rumori si allontanano. L’atrio si staglia illuminato. Sembra caldo. Affretta il passo. Non potrà certo entrare da lì, ma qualcosa lo spinge avanti.

Degli adulti ora aiutano un nugolo di ragazzine, le riconosce dalle sagome, a scendere. Sorride tra sé quando le vede posizionarsi, indottrinate, in ordine d’altezza – che, si domanda, se sia lo stesso d’età. Poi viene la più piccola. L’ultima. Vestita da maschio, ma si capisce che è femmina, e lei, che quasi non riesce a scendere, i gradini troppo alti, non ha nessun aiuto. La lasciano lì, titubante, infreddolita. Perché dovrà abituarsi. A non essere debole. Viziata.

Qualcosa deve aver già recepito, sgambetta giù, tentenna, scivola.

La madre è già avanti, oltre le vetrate dell’ingresso, con le sorelle. Le guarda attraverso i capelli e le odia. Se sua madre, se le altre l’hanno sentita cadere, hanno fatto come se niente fosse. Come se lei fosse, per l’ennesima volta, niente. Non si sono voltate.

Affretta il passo, André. Il respiro si condensa, caldo, sul gelo tagliente della pelle. Non sa la ragione, ma è corso da lei.

“Vieni”, le ha teso le mani, poi, sollevandola in una presa forte, calda, troppo, per i suoi anni.

 

Ma è una mano più adulta, quella che ora quasi non sente più. Una presa che si fa debole. Senza più forze, né speranze.

Le forze, quelle per vivere, sperare, lottare per restare accanto a lei, ora non le ha più. E si pente, perché non ce la fa, troppo dolore, senza confini, e quasi vorrebbe fosse già finito. Lui. tutto.

Perché neanche la commozione di ritrovarla nel ricordo può sanarlo, neanche i ricordi più belli. E vorrebbe sua madre, che sua madre lo abbracciasse e lo facesse sentire al sicuro, finalmente, potersi affidare a lei.

Ma è l’abbraccio di Oscar, i suoi capelli, la sua pelle, le sue parole, che sente su di sé.

Poi, più niente.[2]

 

Lo avvolge. Braccia, capelli, respiro.

Vorrebbe dargli tutto. tranquillizzarlo. Prendere su di sé tutto il dolore. farlo vivere. Lui vorrebbe vivere, lo sa. Vorrebbe vivere quello che ha solo sognato, ogni giorno, ora, insieme. Ma non c’è più tempo e può solo stringerlo piano, per non fargli altro male, e accompagnarlo.

Accompagnarlo. Quando invece vorrebbe poterlo portare indietro, non lasciarlo mai andare. Mai.

“Ti amo…” gli sussurra all’orecchio, scostandogli delicatamente i capelli bagnati.

“Ti amo… sempre… infinitamente” e quell’eco si spegne in un sussurro che lui non sente.

 

Lui non sente.

Abbandonato su di lei, peso infinito di infinito dolore e amore.

Non come l’altra notte, su di lei.

Non come mai più, mai più, mai più potrà essere.

 

È tutto finito.

 

Ora lo culla tra le braccia, in una stretta delicata, impaurita e tenera. Ma è andato. Non resta niente, niente.[3]

 

Non ha neanche la forza di piangere. Resta lì, sospesa in un limbo di emozione, e si domanda se anche lui, che sa, l’abbia visto. E spera di no.

E si chiede, davvero, come possano immagini, suoni, dialoghi, rendersi così vivi e presenti in una vita reale, riuscire a ritagliarsi uno spazio di passione e tempo, e, ancora, dopo tanto, riuscire così vividi, attuali, i sentimenti di sempre, universali. Questo rende un qualcosa un capolavoro.

Che bello, pensa, senza parole, senza quasi respiro.

Non osa rivederlo. Vuole lasciare le emozioni espandersi lentamente, intatte della sensazione di una prima visione, prima, eppure è come se la conoscesse da sempre…

 

E poi il pensiero a lui, che glielo ha fatto avere. A lui, che in silenzio conosce le sue passioni.

 

Lui…

 

“E queste, a cosa ti servono?” Le aveva frugato nella valigia, le scorte di pillola.

Le aveva detto, una volta, quando era un ragazzo pieno di illusioni, “Quando ci sposiamo, smetti di prenderla”. Lei non aveva ribattuto. Allora mancavano anni. All’occasione giusta, non aveva mai smesso. Tutto qui. Sorrise, nelle lacrime, al ricordo, sempre presente. “Non pensi di venire a trovarmi?”

L’aveva abbracciato.

Avevano pianto.

 

“Quando torni?”

 

Dall’altra parte dell’oceano è l’alba. Lei col suo lavoro. Lei che ama Lady Oscar, avrebbe detto, a questo punto della sua vita, che siamo all’ep. 28, e che era “disposta anche ad andare in marina, se necessario”. Ma, santo dio, perché le ragazze si innamorano di André, tutte, e ognuna, attorno ai trenta, anno più anno meno, pensa di massacrare il proprio rapporto perché deve dare la cazzo di svolta? Ma che cacchio aveva in testa la Ikeda? E loro, laureate, manager, ai top e le meschine, possibile che il cervello si annebbi e pretendano di ripetere, tutte, il copione? e fin dove, poi? Visto che, poi, tutte siamo attaccate alla vita… ironia della sorte… bisognava essere fan di Candy, non di Oscar…

 

“Possibile, amore, che mi hai piantato per questo?” Si domandava, gli pareva folle e ci credeva, però. Ha continuato a domandarselo, un tarlo gli frulla in testa che l’imprinting è quello, quello solo.

 

“Secondo me tu vaneggi per disperazione…” Aveva scosso la testa.

“Ma no, davvero, le punte sono l’unica cosa che invidio alle ballerine.” Se c’è un disperato, qui, sei tu.

“A parte la grazia”, aveva commentato il fanciullo, caustico. Aveva visto parodie di balletti famosi interpretate da una compagnia en travesti e, risate a parte, le punte e l’uomo messi assieme continuavano a sembrargli qualcosa di raccapricciante. Loro, leggiadri, leggeri. Ma, appunto, grotteschi.

Camille sosteneva che lo era anche calzarle, le punte, raccapricciante. A Yuki piacevano, invece. Ma doveva dipendere dai gusti delle due. L’una era trendy, l’altra quasi rétro.

 

Dall’altra parte dell’oceano, ogni tanto, lei ripensa a lui. Andrea o André… cazzo di sfiga, perché di me doveva innamorarsi proprio uno bellino che mi piaceva e si chiamava Andrea, ragion per cui l’ho fatto, come da copione, stare di merda per anni e conseguentemente massacrarmi la vita per i sensi di colpa e per la mia demenza intrinseca?

Se lo domanda. Eppure, lì il lavoro comincia ad ingranare. Lì nei giorni comincia a ritrovare un barlume di consuetudine. È strano come lentamente ci si abitui, ci si crei una nuova vita e quella di prima si faccia, via via, impercettibilmente, distante. E sì, e meno male che non pretendi le coincidenze coi titoli originali, se no chissà… piantala con Lady Oscar, ragazza, e vivi.

 

Tanto tempo prima, l’idea che lui ci fosse, che l’avesse eletta, era stato il motore che le aveva dato forza. Un cuore che pompava felicità, insieme al sangue. Avrebbe fatto quasi qualunque cosa. Poi, qualcosa si era spento. Stanchezza, consuetudine o, forse, le cose che non ingranavano, i tanti problemi, al di fuori di loro. Loro due, lì, in mezzo, a resistere, due foglie nella tempesta, su un ramo in attesa, aveva saputo scrivere Guccini.

Quando lui aveva più temuto di perderla, quando più lontana l’aveva percepita, le aveva chiesto di sposarlo. Lei, che già una volta aveva rifiutato, non aveva detto di no. Ma non era servito a scacciare il fantasma di una fuga. Perché era stato un errore non capire che desiderava qualcosa di più. Che avevano entrambi chiesto troppo a quell’amore. Forse non l’avevano vissuto appieno perché si sentivano in colpa. Tutto attorno a loro franava, e loro due no. Forse non si erano resi conto che avevano affrontato sacrifici e rinunce, per restare assieme, e che erano entrambi stanchi. Erano troppo presi.

 

Non è neppure nostalgia. È dolore.

Tanto, si dice, c’era già abituata. Se non altro, qui ha un ruolo. Una vita sua.

 

Non è una pedina tra beghe familiari e recriminazioni infinite.

Lui non l’ha mai resa tale, ma è finito incastrato nelle loro dinamiche. Lei anche, in più non ha saputo proteggerlo. E ora sono distanti.

 

Non erano due giorni e le sembrava di aver vissuto quella vita da sempre. Eppure, pensare a lui le feriva il cuore come una lama.

 

“Non vieni a trovarmi?” Ma non era mai andato. Pigrizia, abitudine, non avrebbe saputo dirlo. Era rimasto lì. A casa loro. A presidiare il forte, a tenere vivo il focolare.

“Non vieni a trovarmi…” Ormai non era più neppure una domanda. Andrea ha un suo modo particolare di mettere radici, di ancorarsi a piccole certezze di tutti i giorni. Ma a volte il resto cambia. A volte si cambia.

 

Stronzate quella volta che aveva vent’anni e gli aveva detto che avrebbe voluto tre figli. E lui, che non se l’aspettava, aveva obiettato, pratico, magari due… le viene da ridere. Sempre stato più realistico. Ora, che l’età incalza, di questa cosa non vuole saperne e negli anni non ne ha più parlato. Ora, alla distanza, sorride per averla sfangata. Certo, che imbarazzo a pensare di averlo detto – spera che lui abbia rimosso, lei l’ha fatto anche se ogni tanto quella solenne minchiata si agita tra la massa dei dimenticati a ricordarle che ha fatto anche questo. Ma era una ragazzina, allora, stavano insieme da poco e le sembrava di poter volare. È così che si fanno i peggiori tonfi, aveva archiviato.

Uno che non mollava tutto per seguirla, fosse stata la Compagnia B o quello sperduto campus del cazzo in una cittadina che pareva europea, che cacchio, mica ti ci puoi riprodurre. Sempre che uno ne abbia voglia…

Se non viene a trovarmi…

E comunque non ne ho voglia, e neanche tu, per fortuna… che uomo, per questo sei perfetto per me!!!

Il viaggio costa, l’aereo è un rischio… che importa, basta che stia bene. Stai bene lì, mio amore eterno, non importa. Stiamo lontani, un giorno mi dirai che hai un’altra, che sei innamorato, e io troverò il coraggio di non pensare più a te. Ma ora, ora bisogna andare avanti…

 

“Non ci sarebbe qualcos’altro da mangiare…” ha fatto capolino sulla porta.

Al, che tu sia benedetto, ragazzo, che mi costringi a vivere, a farti da mogliettina e da cuoca per quelle strane dinamiche e sodalizi che affratellano nello stare peggio. Sono esperienze che si dovrebbero ricordare quando, poi, si è in salvo.

 

Sembrava un giorno perfetto, quello in cui era arrivato da loro, lasciando la casa di riviera.

C’era stata quella telefonata improvvisa. Le poche parole, cenni, scambiati con lei, che, impulsiva, aveva subito detto di sì. Infine, era arrivato.

Era andato a prenderlo al parcheggio in mezzo al verde. L’ascensore risaliva dal ponticello in legno, sul fiume pigro. Sembrava un paesaggio da architetti. Invece era reale.

 

Reale era il freddo. L’umidità.

Esisteva, lontano anni luce, quel sole. Elettrico il cielo.

E il corso del torrente, che li sovrastava e copriva le domande, le spiegazioni.

 

 

Una mano sulla spalla. Gli ha fatto trovare il camino acceso. Sa che gli piace.

 

L’ha scovato addormentato sul divano. Nanny e nipote pigramente l’hanno scalato. Non gli dà fastidio che stia lì, anche se a volte, visto che ora si ritrova solo in casa, la casa – da solo – vorrebbe godersela. Non è che si sta male. È che non l’hai programmato. Infliggi la solitudine per secoli a chi ti sta attorno, poi, quando ti piomba addosso, non sei preparato.

 

Sa che quelle stanze, là sotto, gli vanno strette. Sa che gli ricordano troppo la lei che entrambi condividono e che le ha messe su, e la lei di lui, quella con cui aveva messo su casa e che gli ha strapazzato un bel po’ la vita, forzandolo a scelte che lui non sentiva, poi congedandolo, dopo avergli prelevato l’ormone e la casa coniugale. A lui in fondo è andata meglio. Lui, almeno, può dirsi carnefice, non coglione.

 

Fine parte 3


Laura, febbraio-ottobre-dicembre 2007, gennaio-marzo 2008, Pubblicazione sul sito Little Corner del marzo 2008

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[1] 26-2-08.

[2] Scritto il 6 marzo 2008, trascritto tra il 6 e l’8 marzo 2008. mi sono resa conto della suggestione di “Un mantello sotto la neve” di Fiammetta, che abbraccio forte e che ringrazio, per tutto quello che ha dato al sito e per la sua amicizia, che va oltre le nostre incursioni webbiche.

http://digilander.libero.it/la2ladyoscar/Fanfics/Fiammetta/mantello.htm

[3] 9-8-2008.