Kitchen Corner

Warning!!!

 

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È un bel problema.

Voglio dire, vi siete mai chiesti come si senta un povero cristo, nato alla fine degli anni Sessanta, a chiamarsi Andrea, dopo che quello… quello là, insomma, il personaggio più amato dalle ragazzine degli anni Settanta, quello là con gli occhi, anzi, l’occhio verde e la chioma fluente ha rovinato la vostra cotta adolescenziale, ponendosi quale rivale, immateriale ma non per questo meno pericoloso, della compagna di scuola che vi piaceva?

Andrea: mille aspettative, pure se non gli somigli. Una vita rovinata. Soprattutto se la lei in questione cova in segreto, ma neppure poi tanto, l’aspirazione all’emulazione, e quindi, taciturna per natura, melanconica, scassapalle, ci aggiunge anche quel tocco di sana sofferenza pre-infra e post adolescenziale, che la protagonista infligge a tutti, LUI compreso, per tutto il cartone?

E che dire della crisi dei 32? Quando ti aspetti che qualcuno ti infiocini un occhio e ti domandi in quale mattina lei, che nel frattempo hai distratto da una vita di tentata-emulazione, ti dirà che se ne va perché ha bisogno dei suoi spazi, ma in realtà perché c’è quel maledetto episodio 28 e lei che si catafotte in Normandia dove, beninteso, nessuno la caga, manco un cane?

 

Questa è la storia di un Andrea. E lei non si chiama Oscar.

 

 

Quasi gli viene da piangere.

L’aroma pungente della cipolla lo investe, mentre l’affetta sottilmente, come distratto dal gioco di toni del tagliere e degli spicchi.

“Nanny!”

Calma piatta.

Solo un goccio d’olio, poi versa il tutto.

“Nanny”, ripete.

Allunga il polso verso il cucchiaio di legno. Decisamente, ammette, una disposizione comoda. Altra occhiata. L’ha scovato. “Pascha, piantala di poltrire vicino alla stufa. Vai con Nanny a chiamare il grand’uomo, ché è quasi pronto!”

 

L’acqua bolle, versa le zucchine.

 

Il grand’uomo, altrimenti detto bel ragazzo o fanciullo dalle larghe spalle, è attualmente un po’ sottosopra. Non solo metaforicamente parlando. Sempre atletico, si svincola dalle cavigliere e, asciugandosi il sudore, apre al tap tap sulla porta. “Ehilà, bellezze!!!”

Poi, dal frigo rosso scarlatto, tira fuori latte e succo di arancia rossa senza conservanti conservare in frigorifero consumare entro tre giorni dall’apertura – ma per essere pignoli non ricorda da quanto tempo giaccia lì, in attesa del saldo.

Il grand’uomo, per la precisione, sostiene che quello sottosopra è lui. Lui che è il paradosso vivente e ama cucinare ma anche la danza, per cui è lì, attento alla caloria, al grasso – e che casino con le proteine –. Lui che, per amore di Tersicore, ha messo su nel rustico una scalcinata scuola di danza ma che è afflitto da allieve di ogni tipo, dalla ninfomane alla bambina soprappeso, e a febbraio, invece di curare le lezioni, gli tocca cominciare a preparare saggi assurdi per fare contente le malefiche mamme e le terribili nonne. Già, perché le mamme sono impegnate, per cui le pargole vengono scaricate sulle nonne, e le nonne, leggiadre di creme e trattamenti, pretendono che le loro stelline brillino. Forse non aveva torto Naouri a sostenere che bisogna uccidere le nonne. Forse, a parte questo, a pensarci bene, ha ragione il grand’uomo. È lui, sottosopra.

 

Si guarda attorno.

Gli piace quella stanza.

Lo spazio non è molto, ma è luminoso e sufficientemente vuoto.

Ravviva il fuoco nella stufa azzurra, poi finisce di sistemare.

 

Una volta, prendersi cura degli altri gli piaceva. Era il suo modo di dimostrare amicizia, affetto. Ora è diverso. Sono tanti anni che è stanco. Tanti anni che le cose, che sarebbero dovute andare, non vanno.

E allora, prendersi cura di qualcun altro diventa quasi un’ancora. Forse non lo vorresti, ma aiuta.

A volte, si direbbe che è meglio macerarsi nella solitudine e coltivare il dolore. Il vuoto. Non che non l’abbia coscienziosamente fatto. Poi il grand’uomo si è trovato nel casino. E lui non ci ha pensato due volte.

Perché, potendolo fare, sono cose che si fanno. Il problema è quando non puoi permettertelo. Lui ancora a questo punto non c’è arrivato, quindi.

 

Sistema le posate.

 

Un’occhiata alla caffettiera azzurra. Sempre in attività. Ricorda la prima volta che l’aveva notata, una mattina brumosa, e quel “che bella” che era sfuggito spontaneo. Lei si era illuminata. Come avesse notato chissà cosa. Il suo strano modo di sentirsi appagata. Piccole cose. Poi, com’era sua abitudine, aveva ricordato da dove arrivasse. Perché tante delle loro cose non erano solo oggetti, ma avevano una storia, e, spesso, ricordi di persone o luoghi. Nostalgia e ricatti. E delle tante case che avevano cambiato, lui forse non se ne rendeva conto, c’era un nucleo a rimanere costante. Loro due, e oggetti che li accompagnavano. Rassicuranti. Invecchiati nel confortarli nel tempo.

 

Il timer lo riscuote dai pensieri. O dalla sua distrazione perenne. È bravissimo ad astrarsi. Quando doveva studiare per gli esami, il problema era la sua mente artistica. Era capace di distrarsi, la fatica non era capire, ma mantenere la concentrazione. Fortuna che si è lasciato questa cosa alle spalle. Un altro punto a favore, quindi. Ovviamente, quando c’era lei era diverso. Lì, la mente era totalmente focalizzata, anzi, il problema era che non restava spazio per altro. Erano una coppia pressoché fusionale. Con lei presente, quasi non viveva. Cioè, non viveva la sua vita di tutti i giorni, quella che si era faticosamente costruito (chi gliel’aveva ideata?), ma viveva la loro storia. Che, dal suo punto di vista, sebbene poco pratico, era davvero più appagante. A pensarci, forse era lo stesso per lei.

La zuppa è quasi pronta. Un mestolino a frullare nel mixer amaranto francese doc con tanto di prese internazionali, poi, una spolverata di basilico.

 

“Mica pretenderai che mangi due zucchine????”

Prima ancora che entrasse, l’aveva sentito per le scale. Lui, e gli accompagnatori. A volte si domanda cosa farebbe, se non avesse sassi da calciare, tasche in cui affondare le mani, incassando le spalle.

“Tut tut tut, grand’uomo”. E solleva trionfale una pentola, ormai residuato bellico di uno dei loro viaggi, forse il più bello – se il più bello non fosse quello non ancora fatto –, arancio. Un cazzotto in un occhio, per alcuni, bellissima per altri. A lei piaceva. L’ha adocchiata da una vetrina, non ci ha pensato due volte, si è fiondata. Tipico.

Quando sono tornati erano carichi. Due pazzi scatenati in libera uscita. Casa loro era fatta di queste incursioni intuitive.

Pensa che dovrebbe usarla solo nelle occasioni speciali, stare attento a che non si rompa. Occasioni che non ci sono mai state – non c’era mai tempo. E non ci saranno. In fondo, usarla è un modo per onorare lei. Le cose che hanno fatto insieme. Comprese quelle che non hanno mai fatto.

“Allora, che mi dici???” e gli scodella sotto il naso l’opera.

“Ah, ora si ragiona!!!”, e si schioda dallo stipite, le mani in tasca, il passo elastico, per sistemarsi a tavola. Poi lo guarda, sornione. “Non è che ci sarebbe qualche crostino…”

“See… magari col burro…” fa eco il salutista riluttante.

“Ecco, sì!”

Lo guarda con somma disapprovazione, un rapido calcolo di Omega 3 e 6, magari invidia per quel metabolismo fortunato – o saranno le larghe spalle che mascherano bene. Poi pensa che è una compensazione, che lui prima non era così. E in fondo se per un po’ si rimette in forze, non è male – ecco, ora è entrato in modalità nanny-on.[1] Le ragazze per strada smetteranno di puntarlo e, finalmente, si accorgeranno di lui. Perché, invece, prima, neppure si alimentava. Era ridotto uno straccio.

 

Prima, quando c’era ancora lei.

 

Quando non s’era accorto di come ognuna delle case che avevano abitato, negli anni, fosse in fondo simile grazie a lei. Lei che, silenziosa, ostinata, arrivava con un nucleo irriducibile di cose, che riorganizzava, in ogni luogo, nella stessa maniera. A creare una sorta di continuità.

Ora, ricordava quella sera che, di fronte alla frustrazione per l’ennesimo spostamento – “Quante case…”, si era lamentato lui –, gli aveva risposto “In fondo siamo sempre noi due... e un po’ delle nostre cose, sempre le stesse. Lì per lì non ci aveva fatto caso, ora invece ritrovava il vero di quelle parole. Non aveva fatto caso al modo sempre uguale di disporre oggetti, attorno, a ricreare quella continuità che altrimenti mancava. E il portare con sé quelle stesse loro cose. Non l’aveva notato.

 

Perché, però, fosse accaduto, non avrebbe saputo dirlo.

Forse, semplicemente, lei era stanca.

 

Che la situazione del ragazzo fosse un po’ in maretta l’avevano intuito da un pezzo.

Non che fossero come loro due, fuori dagli schemi: il ragazzo e la sua lei erano sempre stati molto normali, di quelli che fanno le cose nei tempi giusti e ti domandi se è perché lo fanno tutti e si sia trascinati dal “ma poi i parenti cosa dicono” o se si rendano davvero conto di quello che stanno per fare. Cioè, lui non gli era parso così, ma siccome quella ragazza l’aveva aiutato a reagire alla delusione d’amore e all’altra infinita batosta, Al, per gratitudine o per speranza di salvarsi, ne aveva assunto i punti di vista. Non che avesse perso i propri, solo assunti. Che significa affiancarvisi, non necessariamente condividerli o fondervisi.

Loro due, invece, erano stati alternativi totali. D’altronde, col tipo di vita che facevano, diversamente sarebbe stato impossibile. Impossibile annoiarsi, in una vita come la loro, certo. Eppure, anche lì, qualcosa era subentrato.

È davvero come diceva Troisi. Ti annoi, ti sposi, passa la novità, ancora noia, facciamo un figlio. No, per loro due non era stato così. Era stato, quasi da sempre, un rincorrersi folle. Qualche simpatico benpensante si era domandato, nella monotonia delle nude pareti del suo cervello, come si potesse stare insieme e lontani, condannandoli senza appello come ”due single che stanno insieme”. Ma non poteva neppure capire cosa fosse quando erano davvero insieme loro due. Quei rari attimi in cui la scintilla scoccava e loro “tornavano”.

Tempi lontani, comunque. Anzi, remoti. Andati. Ora, ad essere sincero, non avrebbe saputo dirlo neppure lui, cosa voleva dire stare insieme a lei. Qualcosa si era perso, riaffiorava, a volte, con fatica, ed era magico, in quei momenti. Ma tempo non c’era mai. E loro due neanche.

Il ragazzo, invece, aveva preso una batosta terrificante.

E ora lui se lo coccolava. Fossero tutti così, gli amici…

 

Lo osserva, in tralice. Neanche si sente appagato, non si rende conto di quante attenzioni abbia. È altro quello che vorrebbe e non lo ha più. Eppure, si lascia curare. Assorbe. E questo è un bene. Dopo quello che è successo, bisogna reimparare ad amare e a lasciarsi amare. Ma si domanda quanto sia difficile, poi, ritrovare il limite negativo, quello di non lasciarsi colpire, ferire, distruggere. È facile fare del male, anche non volendo. Figuriamoci quando lo si desidera.

“Camille e Yuki sono a lezione, dopo…” tenta. Ma di fronte al mutismo subito se ne pente. “Vieni a vederle?” Mentre gli lascia scivolare accanto i crostini imburrati e si siede, noncurante e ferreo, di fronte alle due zucchine, insalata, tofu, pane azzimo, spremuta d’arancia. Forse chi lo osserva non se ne rende conto, ma a lui sembrano buone. Certo, quelle comprate sono plastica, dopo aver provato quelle del campo si preferisce il niente, ma insomma… Avere Al lì nei paraggi significa anche un paio di robuste braccia sanamente dedite all’agricoltura. Il che non è male. E rispetta i cliché.

“Vabbe’, io te l’ho detto”, in risposta alla risposta che non arriva.

“Ma almeno è buono?” S’informa, mentre affetta religiosamente la zucchina.

Annuisce, preso. Sant’uomo, immerso nella scodella.

 

“Vieni qui, Nanny!” Protesta. “Vieni a salutarmi!” Di corsa, mentre carica la lavapiatti, mendica un segno d’affetto. “Pasha, neanche tu, ingrato…”

“Eh, caro mio mica puoi comprare l’affetto vero…” gli assesta una pacca virile sulla spalla, ora che ha finito di allungare la scodella perché il compare gliela riempisse, intimamente soddisfatto, come una brava mogliettina, del successo della sbobba – o, magari, era fame nera…

Sì che lo posso comprare, pensa. Con l’affetto in cambio, con le cure, con la dedizione. Prima o poi a qualcosa porterà. E se non porta a niente, l’avrò fatto per me stesso. Che è già qualcosa. Sì, ma si sente solo. Di merda. Come se fosse sull’orlo di un precipizio e bastasse un minimo spostamento per crollare. O quel minimo spostamento potesse, infine, abbandonarlo in volo e liberarlo da tutto.

Fanculo, si dice. Tiriamo avanti. Un passo alla volta. Ma verso il baratro o la terra? E, alla fine del baratro, non c’è la terra?

 

Amore, quando ti decidi a tornare?

 

Fine parte 1


 

Laura, febbraio-ottobre, novembre 2007, Pubblicazione sul sito Little Corner del novembre 2007.

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[1] Cito la mia nanny personale Luana.