Christine

Parte VII

Warning!!!

 

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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.

Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.

Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.

Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.

 

 

André è uno che ti guarda dritto negli occhi, quando parla. E insiste. Sostenendo il tuo sguardo. Uno sguardo profondo, diretto. Quando l’ha incontrato per la prima volta, ha pensato che non aveva mai visto un bambino con quell’aria da adulto. Non è che non si lasciasse andare a sorrisi, battute, era il modo in cui la guardava. La serietà. La profondità. Pensa, ora, che non vorrebbe mai perdere il ricordo dell’immagine che conserva di lui, a dieci anni, quello sguardo che brillava, il sorriso fiducioso che non ha perso neppure ora. Anche se sembra a volte lontano.[1]

 

Fa freddo. Oscar si stringe le braccia al corpo, si avvicina al camino.

Una rapida occhiata alla finestra, la neve sta salendo.

Lei se ne accorge e, piena di premura, la anticipa, togliendole l’imbarazzo.

“Resta qui, stasera…”

Qualche scusa impacciata, davvero, non vuole disturbare e poi a casa ha da fare… certamente, ho da restare sola, sola e ancora sola…

“Avanti”, e la trascina in cucina, “guarda”, tira fuori, trionfante, uno sformato fumante e regale. “So che Nanny e la cuoca fanno di meglio”, sorride, “ma non è male…”

Sa a cosa è dovuta, la sfumatura amara a quell’accenno. A Nanny Christine non va giù. Si rifiuta di mettere piede in casa sua: “Se vogliono vedermi, che vengano qui” e con Oscar si è lamentata di quell’insensibile del nipote: “Povera bambina, non doveva farti questo…” “Nanny, ma cosa dici…” “Doveva aspettarti…” Oscar sorride. Se non altro, è un infinitesimale, inconsistente, assurdo vantaggio.

Declina, fugge, che la neve ricopra anche il suo cuore e la faccia smettere di soffrire. Che venga primavera…[2]

 

Ci sono stati mille addii… amore mio… mio dolce, grande, immenso amore mio…[3]

 

L’immagine che lo specchio le restituisce è quella di sempre. Forse un po’ più magra. Gli anni hanno questo strano effetto su di lei.

Poi, quando fa caldo, mangia sempre un po’ meno, e quest’anno la tarda primavera sembra letteralmente esplodere d’estate. Colori che paiono più accesi. Strade già riarse di polvere che si leva dalle ruote delle carrozze.

Non vorrebbe pensare. Non vorrebbe sapere. Neppure immaginare. Non sa che, fra un anno, le cose potrebbero essere diverse. Cambiate. Finite, iniziate, chi può dirlo…

Si sistema la fascia, si scruta in viso. Ha l’espressione tesa di chi ha incassato un colpo, ma, si dice, non è successo niente. In fondo.

è solo che…

Solo che quell’immagine, da qualche giorno, la dilania.

Lui che si stacca lentamente da lei, raggiante, appoggiata al tavolo, lo sguardo che la accarezza, le mani che teneramente le cingono la vita.

Giusto un dubbio.

E quell’espressione che da qualche tempo lo accompagna.

E lei, l’altra, Christine, in quella sera di inverno che non voleva finire e di neve quasi fuori stagione, ad accoglierla, dolce, vivida, sulla porta. Gli occhi, bellissimi, luminosi, come se si potesse essere ancora più vivi ed intensi. Ponderare, giusto un attimo, se salutare, in un bacio, lei, troppo raffreddata. E, poi, un’espressione risoluta, mentre la stringe a sé, con forza. Una sfida. Al futuro.

 

Sa solo che si sente male. Persa. E, in qualche modo, deve tirarsene fuori. O sprofonderà di dolore. Tristezza. Di possibilità infinitamente, ricorsivamente ripensate. Sguardi, parole, abbracci mai avuti o dati, parole non dette, neppure pensate.

Aver passato una vita a nascondersi all’amore, e, ora, lasciarsene distruggere, è troppo, è troppo. Anche io sono un essere umano, si scopre a dirsi, a volte. Anche io esisto… forse è una ribellione, pensarlo. Ed è sconsolante. O, forse, è un inizio – almeno il pensarlo.

Non potrà andare sempre così… così sola, a star male, senza trovare un senso.

È che una tristezza infinita l’avvolge. Vorrebbe riprovare, ora che, forse, saprebbe non sbagliare. Vorrebbe un’altra possibilità. Ma ora, più di sempre, è tutto finito.

 

Un’altra sera di quel sesso a metà. Un’altra notte perduta. Un altro passo verso la dannazione. Com’è che il ragazzo, il compagno di serate silenziose, poche parole scambiate, spesso profonde, di lui sa qualcosa, lui, di lei, quasi niente, sia diventato anche qualcos’altro è difficile dirlo. Forse cameratismo. Forse stanchezza. Non lo sa dire. Voleva solo tradire l’amicizia di una vita. Ora è come se toccasse il tradimento di un amore che quasi non c’è, sfiorandolo senza mai afferrarlo. Un’ipocrisia anche questa, in fondo. Ma più di così non se la sente. E meno di così non può.

Quel calore, prepotente, dentro, non glielo consente. Impazzirebbe, altrimenti. In un altro momento sarebbe diverso. Ma, ora, ora ne ha bisogno. Bisogno di ascoltare il suo corpo. Che qualcuno la plachi. Di non buttare tutta la sua vita. Non vuole spegnersi nella solitudine. Preferisce bruciare nel sesso.

 

È stato così, allora, ripensa, che una di quelle sere ha salito dietro di lui le scale di una locanda meno peggio delle altre.

Ricorda il senso di desolazione. La solitudine. Il desiderio.

Ricorda la bottiglia a metà, sul comodino. I sorsi di lui. I suoi.

Lei, mezza ubriaca, sul letto, stordita, e lui che la spogliava in fretta, prima eccitato, quasi senza respiro, poi, solo, sorpreso, perché era così bella, che non se l’aspettava.

Ricordava l’aria sui seni. Il freddo addosso. Di essersi vergognata, ma di non aver avuto la forza di coprirsi, e di essere rimasta lì, abbandonata.

Ricordava lo sguardo di lui. Rapito. Le sue carezze, prima ardite, poi timide.

E le sue lacrime, silenziose. E lui che s’era fermato.

E, dopo, le aveva posato la testa sul ventre, ed era rimasto così, a lungo, senza parlare, mentre lei sentiva il suo respiro sulla sua pelle e rimaneva lì, immobile, assente, lontana una vita da tutto quanto.

 

 

E ripensa ad André, che ha lo sguardo di un cane bastonato. Perché lei ce l’ha con lui. E crede di intuirne la ragione. Anche se gli pare un po’ folle…

Quando le ha detto che Christine aspetta un bambino, lei ha sentito come di averlo perso. Se esistesse il concetto, potrebbe dire più perso ancora. Ma non esiste. È un po’ come dire gone… Non sa spiegarsi perché, perché tanto l’aveva già perduto da tempo. Ma poteva sopportare di saperlo con lei. Non riesce, invece, a passare sopra a questo, che le sembra un tradimento. Perché ora è davvero legato a Christine. Perché ora avranno davvero qualcosa di loro, soltanto loro (ammesso e non concesso che un pargolo costituisca una proprietà…). Soprattutto, perché lui ha accettato di darle qualcosa di sé. E questo le fa male. Malissimo. E lei si sente sola, e persa. Lontana. Esclusa.

Forse, perché lei non può. O non vuole. O non gliel’avrebbe domandato. E non ci avrebbe neppure pensato. Fanculo, Grandier. Vai immensamente a fanculo. È tutto qui, in fondo… Se solo potessi dimenticarti…

“Non potevi tenere il pisello a posto?” Le sfugge, acida.[4] Odia – ora riesce a formalizzare il pensiero – gli uomini che si riproducono.

Lui è mortificato. Ma è… gelosa?

Le viene da ridere da sola, per quella reazione.

“Scusami…”

Lui tiene la testa bassa, non osa guardarla. “Lei… lei lo voleva…”

E tu, vorrebbe domandargli, quello che pensavi tu non contava niente? O, forse, lo volevi anche tu? E io… E si costringe a fermarsi.

Ma la mente macina pensieri. Cattivi. Perché? Perché lo voleva? Per consolidare il legame? Aveva paura le sfuggissi? Ma non ha nessun rispetto di te? E tu? Perché hai accettato?

Lo odia, perché un figlio è una parte di sé che lui ha concesso ad un’altra. Che l’altra gli ha chiesto. Gli ha potuto domandare. Che avrà preteso, come fosse un suo diritto. Come fosse un dovere di lui. E magari lui, ponderato e serio com’è, avrà sicuramente riflettuto bene, prima di acconsentire. Con lei non potrebbe. E lei non potrebbe. E neanche vorrebbe, onestamente. Se lui fosse suo, lo vorrebbe tutto per sé. Solo per sé. Non sentirebbe il bisogno di altro, riflette. Farsi una famiglia… ma non sarebbero, loro due, loro due, soli, una famiglia? O soltanto una coppia? E che differenza ci sarebbe, se ci si ama, se ci si rispetta? È diverso, agli occhi del mondo? È un male essere diversi? È un male amare di un amore esclusivo, tanto da chiudersi a tutto il resto? Poi, alla fine, è solo teoria, lei non ha niente… lei non è niente… soltanto un essere umano solo. Infinitamente solo. E sente l’abisso tra lei e l’altra. E, ora, anche con lui. E si sente sola e tradita, definitivamente, dall’unica persona a cui davvero tiene, che la conosce e a cui si è mostrata per come era. Si sente come se la fine sia arrivata. Di cosa, non sa dirlo con precisione. Ma sente che loro due sono alla fine. E di aver perduto qualcosa. Molto.

 

Ed è un tradimento, quello che va maturando.

Non fisico. Qualcosa di peggio. Il tradimento di una vita insieme.

Vuole dimostrargli che non ha più bisogno di lui. Che può stare bene anche da sola o rifarsi una vita senza di lui. Come, non lo sa. Ma non ha nessuna intenzione di passare le sere chiusa in casa, con lui, tranquillo, che tanto la sa a leggere davanti al camino e si può permettere di trascorrere il tempo con la moglie, a sistemare la camera per il bambino, tiranneggiato come mai lei riuscirebbe a fare, perché lei lo rispetta. è stata da loro, oggi. Ed è stato tremendo.

è struggente vederli assieme. Come lei lo guarda, con dolcezza e attesa. E come lui, nonostante tutto (e quel tutto si chiama Oscar), la ricambia. Casa loro – di lei, per la precisione – è sempre così calda e accogliente, così carina come l’hanno messa su. Insieme. Se dovesse pensarne una in cui vivere, la immaginerebbe quasi così. Ma si dice, col cuore avvolto nel gelo, che non sarebbe capace di fare altrettanto. Di riuscire ad evocare quell’atmosfera. Christine arde d’amore. Lei sprofonda nel ghiaccio.

Lo guarda, divertirsi, preso, avvinto, come fosse un gioco – o un labirinto – e prova un senso di smarrimento e panico –, in quel mondo in cui lei non è che un’estranea. Anzi, in cui lei non esiste. E sente crescere la distanza tra loro. Tra quello che erano stati – perduto –, quello che saranno – loro, non lei, lei resterà l’esclusa, da tutto, loro, una famiglia, un bambino, la scommessa folle verso l’incognito –, e quello che lei non sarà mai. E quando ripensa a quello che c’è stato, a lui nell’amore, che le ripeteva ti amo, sente che ormai non c’è scampo.

Lo osserva, e non saprebbe dirsi se lui è coinvolto o, invece, assente.

Le ha detto, Christine, come immagina la stanza del bambino, i lavori che pensa di fare, il colore delle tende, delle coperte, la piccola culla. Parole dette con dolcezza e anche con affetto verso di lei. È così che Christine la tratta. Certo, si sentirà debitrice nei miei confronti, pensa col piglio della zitella incallita. Ha passato sempre belle ore con lei, con loro.

“Tu e André vi somigliate”, ha osservato, una volta, sorprendendola.

Il cuore ha fatto un balzo.

“In molte cose…” le ha fatto notare.

Ha sollevato lo sguardo, sperando che la sorpresa, il tumulto che quelle parole hanno saputo scatenare, non si notino.

“Sai, modi di fare, gesti…” la guarda, come noncurante.

Forse, riflette lei, non si rende conto davvero. Forse, pensa, ma resta in silenzio, è perché abbiamo vissuto così tanto a lungo insieme… forse… è perché siamo simili… o perché ci siamo amati. E qualcosa resta, comunque.[5]

 

E vede che Christine in certi momenti si rabbuia e vorrebbe come dirle qualcosa, ma tace. E lei spera non sia qualche sospetto su di loro. Quella felicità le fa male. Ma non può fare a meno di desiderare quei momenti con loro, con lei, perché, nonostante tutto, vuole bene ad André e anche a Christine e non vuole che si sentano allontanati. E neanche vuole perderli.

Non le resta molto altro.

E ancora non ha imparato ad essere costruttiva. A guardare anche avanti.

In fondo, pensa, questa è una tremenda, terribile lezione. Tutto qui. Una lezione della vita…

 

è una ragazza coraggiosa…” gli fa, quasi imbarazzata, ma vuole che lui lo sappia.

Si gira a scrutarla, interrogativo.

“L’altra sera… quando mi ha salutato, nonostante fossi così raffreddata…” Gli sorride. Ha visto altri fuggire per molto meno. Onore al merito delle armi, bellissima, te lo meriti. Ammette, amaramente.

 

Però così non può continuare. O ne uscirà pazza. Deve ritrovare un equilibrio. Una vita, almeno quasi normale. Che somigli a quella di prima. Insoddisfacente, sì, ma meglio di così… E allora, comincia ad uscire. Sola, in compagnia. Se qualcuno la invita, non dice di no, come faceva prima. Girodel in fondo è meno noioso di quello che sembra, troppo snob, vero, ma meglio che niente. Se la accompagna a qualche concerto, purché taccia, non è tremendo. È cinico, cortigiano, scaltro, esperto. E anche questa può essere una lezione utile. Da seguire o meno, dipende…[6] A volte medita di tagliargli la massa di capelli – dev’essere una perversione, riflette, divertita –. Fersen, pieno di racconti lontani, di aneddoti, di donne deluse dal fatto che lei non sia un uomo, un’altra possibile loro preda, ma rassicurate, povere illuse, dal fatto che non sembri neppure una rivale. Le serate di Maria Antonietta, strazianti, tranne quando chiama i maestri musicisti e allora è straordinario. In fondo, è semplice. Che importa, se aiuta a non sprofondare? Se aiuta a non pensare? È così, che è cominciata, ripensa…

 

Altra sera, altra osteria.

“E hai sorelle, fratelli…” Curioso. È una strana tipa, questa, che circola la notte, come un fantasma e bisogna cavarle le parole di bocca.

“Cinque sorelle.”

“Siete in tanti… Maggiori, minori…”

“Maggiori…” le viene da ridere: non l’aveva mai considerata in termini di bocche da sfamare. La logica dei nobili è assicurarsi l’erede maschio e piazzare le femmine in legami strategici a basso impatto di dote…

“Io ho una sorella, minore…” e, mentre lo dice, lei nota lo sguardo intenerirsi d’orgoglio.

 

Cammina accanto a lui.

“Come sta, Christine?”

Lui non sa interpretare il tono. E la scruta, notando quanto sia incredibilmente più bella e sicura della sua bellezza, sfolgorante, e chiedendosi dove andrà a parare. Se lo aggredirà anche stavolta o se le sta passando.

“Bene…”

“E i preparativi per i mobili? Procedono?”

“Beh, sai come vanno queste cose…”

Non che non lo so, idiota... ti sembro sposata? Incinta? In procinto di schiavizzarti per i prossimi vent’anni? Prendendo il meglio di te e lasciandoti solo i rimpianti?

Lo guarda e decide che è meglio tacere. Per tutti e due.

Lo scruta e si chiede cosa penserebbe delle sue frequentazioni serali. è come immaginare di schiaffeggiarlo – una piccola, intima, soddisfazione. Si sente stupida. Vigliacca. Disperata. Ma si dice anche che non può continuare così. Fa troppo male.

Lo osserva, mentre sistemano i rapporti. Dopo quella notte, hanno cercato di non pensare a quello che era successo. Di farne solo una forza interiore. Di continuare come se niente fosse. Una vita quasi onesta. Sguardi rubati, la stretta di una mano. Una carezza sfuggita. Un ammirato e tenero “Sei bellissima, oggi” sussurrato all’orecchio forse un po’ troppo spesso – o di rado, dipende dai punti di vista –, ad illuminare giorni altrimenti bui, a cullare una speranza fatta di illusioni. Il rodersi per non aver risposto “Anche tu” e aver osservato il voto del silenzio, limitandosi a piantargli addosso uno sguardo immenso d’amore e stupore. Ad Oscar era parso quasi accettabile, anche se per Christine avrebbe preferito non fosse mai accaduto niente, e per sé forse anche… era stato difficile, con quell’amore che si nutriva di vuoti ed inesistenze, ma ogni istante sembrava rafforzarsi. E invece si trattava solo di una tregua armata.

Se lui la provoca a cercarsi una vita sua, può darsi riuscirà a farlo. Ma, attento, André, potrebbe non essere quella che ti farebbe comodo. Potremmo non avere le stesse esigenze…

 

Altro giro. Ormai è un’abitudine consolidata.

Mentre immagina André con la moglie, lui, dolcissimo, cingerla e proteggerla, scioglierle il nastro dei capelli e osservare divertito e rapito la cascata morbida, color miele spargersi sulle spalle (ancora quella maledetta scena – ormai è un incubo!), a fare progetti con lei, lei conta i gradini del patibolo del loro rapporto.

“Non hai amici?”

“Ma che domanda è?”

“Amici, hai presente… si parla, si passa il tempo insieme…” Si va a donne… no, ragazzo, non è il caso…

“Ah…”

“Ecco, quegli amici…”

Ce l’avevo uno, sì… E sprofonda nel mutismo.

 

 

Strana, Oscar, in questi giorni. Gli sembra strana.

È come se fosse più femminile, come se dal suo corpo prorompesse qualcosa che era rimasto nascosto anche a lui. Io, invece, me ne accorgo sempre, aveva considerato, una volta. Quale hubris!, ride di sé. Ora quel tempo, quella pretesa di conoscerla meglio di se stesso, di riconoscere ogni suo sguardo, ogni suo gesto, sfumatura della voce o del respiro, gli sembrano distanti una vita. Ora, riflette con amarezza, quasi lo sorprende quanto sia più bella di sempre. Intensa. Oscar pare brillare. Illumina di sé con uno sguardo. Non l’ha mai vista, così. Lo nota da come scuote i capelli, da come si muove. Gesti che ha sempre fatto, ma, ora, come con più enfasi, più profondi… La osserva, mentre cavalca accanto a lui, e gli pare come di intuire tutto di lei, sotto le vesti che la fasciano. E si chiede cosa sia, questa aura nuova, così tanto più forte.

 

È stata quasi brutale, l’altra sera, a cena.

“Vado via”, gli ha detto, semplicemente. Diretta.

“Co… cosa?!” Ha sollevato su di lei lo sguardo, allarmato. Aveva l’espressione di qualcuno a cui stanno togliendo qualcosa di molto importante. O dato molto per scontato.

Prova una soddisfazione sottile, Oscar, a godersi ogni attimo di quella reazione. Non vuole fargli del male, vuole solo ricominciare a vivere.

“Perché? Dove…” è incredulo, stravolto. Annaspa. Come chi si senta franare sotto i piedi qualcosa che è dato per acquisito, di più, inammissibile. Come chi pensa, per privilegio duramente conquistato, di poter essere il solo a sconvolgere la vita degli altri con cambiamenti folli.[7]

Assapora la reazione, Oscar. Lo osserva boccheggiare.

“Vado a vivere per conto mio… lo fanno tutti, prima o poi, no?” E resta a guardarlo, tra le dita il bicchiere col cognac che lentamente fa girare. Mentre sa che potrebbe godersi ogni attimo dell’effimera vittoria, ma è come se sentisse, dentro, il dolore di lui, come l’avesse persa. Come non fosse stato lui a fare il passo. Potere degli uomini, di sentirsi clamorosamente vittime. E di diffondere questa assurda sensazione attorno a sé.[8]

 

L’altro giorno gli è capitato per caso tra le mani il biglietto dalle spine di rosa. Quello di quella mattina maledetta.

L’ha rigirato tra le mani. Era stordito, come se qualcosa l’avesse colpito.

Perché proprio ora…

Non si può essere sempre divisi… poteva voler dire qualunque cosa. Poteva voler alludere a loro due… Non se ne era reso conto, quel giorno. Quella mattina, nella disperazione, non aveva neppure considerato la cosa. E lei?

Cosa aveva voluto dire, allora, Oscar? Cosa avrebbe voluto dire? E se fosse stato… se i due non fossero stati André e Christine, ma loro due, lui ed Oscar? è terribile rendersi conto solo dopo tanto tempo dell’ennesima possibilità uccisa. E assumersi la responsabilità.[9]

 

È anche difficile respirare. L’ha inseguita, poi, quella sera.

“Dimmi perché.” Senza riuscire a comprendere.

“Non c’è una ragione…” L’ha squadrato come se volesse ucciderlo.

“Sì, invece.”

“No. Non l’hai fatto anche tu?” Domanda a senso troppo vasto, annota tra sé.

è diverso…” non ha più scuse.

“Vuoi dire che ti sposavi?”

Abbassa gli occhi. Ma lei non molla.

“Ma se, per caso, avessi potuto scegliere, può darsi l’avresti fatto ugualmente, no? È normale, tra adulti…” Lo inchioda.

“Io…” non vuole dirlo. “Lo sai…”

“Ah, ecco! Ecco il punto nodale! Tu non l’avresti potuto fare: con me eri inchiodato, no? Incastrato con questo strano ibrido…”

“Non essere ingiusta!” Alza la voce, ora.

“No?” Solleva un sopracciglio, sarcastica.

“No”, le urla contro. E, mentre, per i polsi, la preme contro la parete, sente che la rabbia è svanita. Che tutto, come sempre, non ha senso. L’ha perso molto tempo fa.

Abbassa la testa. “Scusami…” ma non lascia la presa.

Sembra un tempo infinito. Il rischio o il gioco di sentire il respiro di lui sulla sua pelle. E percepirlo così vicino. Eppure, è come se, ogni istante, ogni sua scelta lo rendesse più distante. Come se ne perdesse un po’ per volta. Un tono della voce. Il ricordo di uno sguardo.

Le piacerebbe restare lì, non muoversi. Provocarlo. Dire qualcosa di appropriato per sciogliere quel nodo e, chissà, convincerlo a farsela. Lì. O dove crede. Questione di comodità. Di gusti. Ma la vita non è un romanzo, un copione scontato. Né uno svolgimento a tema. E lui è di un’altra.

Si libera dalla stretta.

Ma la mano di lui resta allacciata alla sua.

“Scusami tu…”

C’è una tristezza infinita, nella voce di lui. Rimpianto, mentre articola “Credi che non abbia mai sognato una casa mia?” Le parole vibrano. “Immaginato di vivere con te…”

Ora è lei che accusa il colpo. “Lascia stare…” ma non sa dire altro.

“Ma… ma la realtà è diversa. Lo è sempre stata, nostro malgrado. E ora, grazie a noi, lo è definitivamente.”

Restano lì, distanti. Lui, che non osa lasciare la mano. Lei, che sente le dita allacciate alle sue.

Poi, porta la mano alle labbra. Un bacio lieve. Ricorda la tristezza infinita nei suoi occhi. Quando l’ha lasciata andare, ricorda come una traccia, nello sguardo che, rapido, fuggiva, d’amore, di lacrime.[10]

 

È per questo che è così cambiata, Oscar? È stato questo a devastarla, fino a costringerla a reagire? O è qualcos’altro… come si dev’essere sentita, smarrita, persa… sola lei. Come lui. Come l’altra. Uno squallido gioco delle parti, con piccoli sprazzi di sereno e tregua.

Vorrebbe solo vomitare fuori tutto, tutta questa storia, nata per colpa sua, che lo nausea e lo spezza. Eppure deve vivere. Come ha spiegato, con cattiveria, ad Oscar, in tempi non sospetti, bisogna sopravvivere… a quale prezzo, non è dato saperlo.[11]

 

Ha cercato di non pensarci, ma il biglietto è tornato in sogno. Con l’equivoco infinito di quelle parole che si rincorrono. E lo condannano. Li condannano.

Aveva pensato, leggendolo, che fosse la condanna di lei per lui e Christine. Ora, gela al pensiero di aver inflitto lui una condanna al loro amore. E il cuore si stringe.

 

Non vede quasi la strada. Le immagini scorrono, sfocate, in un tunnel di tinte che si inseguono, orizzontali, indefinite. L’aria non basta. Le voci solo rumori disturbanti. Non sente altro, se non il respiro che lo taglia e brucia.

È uscito in fretta, di corsa. Senza quasi salutarla.

Pensava solo a lei. All’altra.[12]

 

Le arriva di fronte, sta prendendo il tea in piedi, come al solito.

“Cosa volevi dire?” La affronta.

Un sorriso franco. “Nel biglietto…” indovina.

Neanche le risponde. Continua a guardarla.

Poggia la tazza sul piatto. La mano urta la zuccheriera, tradendo la tensione. “Quello che c’è scritto…” una strana espressione.

“Che vuol dire ‘non si può sempre essere divisi’? La incalza.

La nonna, che l’ha visto arrivare dalle cucine, vorrebbe entrare a salutarlo, ma, dalla vetrata, intuisce aria di redde rationem e si sottrae, forte di una lunga esperienza di sopravvivenza domestica.

Lo guarda dal basso. “Che altro può voler dire…” ritorce la domanda. La voce vorrebbe essere ferma, ma è solo triste. Di una stanchezza che logora.

“Non mi stai rispondendo.” Un passo verso di lei.

“Sì che ti ho risposto…”

“No…” resta a guardarla.[13]

 

Vorrebbe stringerla tra le braccia e proteggerla da quella pioggia. Da tutto.

Vorrebbe tornare indietro. Vorrebbe averglielo detto quel pomeriggio, sotto la pioggia, che l’amava. Ma lo sguardo di lei lo supplicò di non tradire il ruolo di amico. Di non fare un passo oltre. Eppure, gli si abbandonò contro. Gli permise di stringerle un braccio attorno alle spalle, dopo, e di metterle tra le mani, in una carezza, del cognac caldo. Gli permise di restare accanto a lei, nella notte, mentre le ceneri, ardendo, lentamente scoloravano nel grigio, l’arancio in cenere. E lei, lì, con lui. Solo, finalmente, sua. Era stato un sogno? Era stato folle sperare? Eppure, ora lo sapeva, lei lo amava, e non era riuscita a dirglielo. Era ancora peggio, questo dolore che si portava dentro e che la costringeva a rinunciare a tutto. A non saper dire.

Vorrebbe dirglielo. Vorrebbe riuscirci. Ma è come paralizzata, e le parole non escono. E ogni istante è perso, più lontano dalla richiesta di lui, che, ora, a guardarlo, gli occhi tristi, le redini in mano, forse conta i passi che li separano dall’ennesima mancata occasione. Risposta, negazione. Qualsiasi cosa, forse, è meglio di quel dubbio.

Perché non riesce a parlare? A dire le cose che, per tutti, sono naturali? Cosa la blocca, ancora? Non si è fatta, non gli ha fatto abbastanza del male?

Poi, uno sguardo di lui. Coglie quell’occasione. “André… noi…” ora che le parole stanno uscendo, sente come se un peso immane la stesse abbandonando. Una cappa di solitudine, tristezza. Dolore. “Noi non siamo divisi…”

Osa guardarla più apertamente, ora, sorpreso. Quasi sollevato. “…”

Un sorriso appannato. “No”, conferma. Scuote la testa. Non lo saremo mai…

“Certo… hai ragione…” conviene. Una pausa, poi. “Ma se l’avessi capito prima, allora…”

Lo osserva, in attesa, interrogativa.

“Forse io…”

E, allora, laconica, forse per paura di un rifiuto – o della realtà e delle sue conseguenze –, “Si capisce quello che si vuole capire”, chiude, lapidaria e triste.

Perché farci tanto del male, pensa, perché?

Le prende la mano. “Aspetta…”

Ma lei ha gli occhi pieni di lacrime, e fugge via, sotto la pioggia, dandosi della stupida.

Che cosa c’è da aspettare?

Che cosa c’è da capire?

Poi, rannicchiandosi contro il muro, è tutto solo uno stupido errore… la vita, tutto…le tempie tra i polsi, capelli, lacrime, ciglia.

Lui, in piedi, resta lì. Vorrebbe dirle che è inutile fuggire, ma forse lei non è pronta a sentirselo dire. Forse, riflette, non glielo dirà mai. Si limiterà a pensarlo. E, poi, in fondo, non è fuggito anche lui? E cosa potrebbe offrirle, ormai, lui? Un amore rubato?

“Che cosa ti ho fatto… che cosa ho fatto a tutti noi…”[14]

 

Grazie ad Assunta e a Luana per la loro pazienza nel farmi da  proof-reader e per l'impegno che profondono nei nostri scambi.

 

Laura, 2002, autunno 2005-gennaio-ottobre 2006, pubblicazione sul sito Little Corner ottobre 2006

 

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Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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[1] Da appunti sms 20-7-2006.

[2] Cocciante, Primavera.

[3] J. BREL, Chanson des vieux amants, versione italiana Patty Pravo.

[4] So che questo stesso testo è in Alternate BK, ma qui mi pare io l’abbia scritto prima e poi riutilizzato di là.

[5] Da appunti 23-7-2006 ampliati.

[6] Mi riferisco al Girodel che emerge dai dialoghi originali giapponesi, soprattutto negli scambi con Oscar e André relativamente alla malattia del sovrano.

[7] Da appunti 28-5-2006.

[8] Citazione, quella sul vittimismo maschile, dalla Giménez-Bartlett, la bellissima serie di Petra Delicado e Fermin Garzon.

[9] Da appunto sms del 2-6-2006, poi scritto il 2-7-2006. Aggiunte il 29-7-2006.

[10] 29-7-2006.

[11] Da appunto sms del 2-6-2006, poi scritto il 2-7-2006.

[12] Grazie a Luana, perché il ricorrere di lei, l’altra, è nato dentro i nostri scambi di email a proposito di questo racconto.

[13] Da appunto sms del 2-6-2006, poi scritto il 2-7-2006. Aggiunte il 29-7-2006.

[14] Da appunto sms del 2-6-2006, poi scritto il 2-7-2006. Aggiunte il 29-7-2006.