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Christine

Parte XXI

Warning!!!

 

The author is aware and has agreed to this fanfic being posted on this site. So, before downloading this file, remember public use or posting it on other's sites is not allowed, least of all without permission! Just think of the hard work authors and webmasters do, and, please, for common courtesy and respect towards them, remember not to steal from them.

L'autore è consapevole ed ha acconsentito a che la propria fanfic fosse pubblicata su questo sito. Dunque, prima di scaricare questi file, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli su di un altro sito, tanto più senza permesso! Pensate al lavoro che gli autori ed i webmaster fanno e, quindi, per cortesia e rispetto verso di loro, non rubate.

 

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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.

Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.

Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.

Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.

 

Aveva lasciato vagare uno sguardo nel piccolo cortile, uscendo.

Qualche scatola poggiata a lato della porta. Un baule.

Aveva osservato le piante, ora, quasi secche, come quando non c’è più qualcuno ad occuparsi di loro.

Il branco di gatti attendeva, affamato, gli occhi verso l’alto, le code distese, che s’inarcarono in tante esse, quando si chinò, insieme a lui, per lasciare del cibo e dell’acqua nelle ciotole.

“Bisognerà portarli con noi…”, disse come tra sé.

“Qui non li possiamo lasciare… almeno per ora…”

 

 

L’ha trascinato via da casa. Attonito. In lacrime. Inerme.

“Avanti… andiamo da Daniel…”

Sembra riscuotersi. “Dov’è?”

“Con nanny…” Lo prende per un braccio. “Non puoi lasciarlo solo.”

 

È stata lì tutto il giorno. Tutto il giorno con lui e i segni, ovunque, della presenza di lei. E, ora, deve rubarlo alla vita di prima. Costringerlo a venir via. A scuotersi.

Come starebbe, se perdesse lei? Arriva a pensare, in un brivido.

E lei, se perdesse lui?

È una cosa mostruosa.

Ricaccia indietro i pensieri.

Lo scuote.

“Andiamo…” Gli stringe la mano, camminandogli accanto.

 

 

Furono forse i giorni più difficili, quelli.

 

Non tanto vincere il fastidio per la disapprovazione e l’ostile mutismo scontento delle ragazze, che, costrette ad occuparsi dei gatti, l’accusavano di comportarsi davvero da uomo, di aver scaricato loro addosso il peso, oltre che l’affetto, della gestione della numerosa schiera felina che aveva loro imposto.

Non tanto reggere gli sguardi di sua madre, che la trapassavano silenziosi, o quelli indecifrabili della governante, che si era ritrovata improvvisamente con due nipoti a carico, oltre lei.

Non tanto sopportare il disagio di avere a che fare con un bambino.

Ma sostenere lo sfuggirle di lui, quel cercare di eluderla, quel nasconderle se stesso e il proprio dolore in occhiate, disperate e mute, che le scivolavano accanto, senza rivolgersi a lei. Farsi forza, e sopportare quel tentativo di evitarla.

Non si rendeva forse neppure conto che era per non ferirla. Per non pesarle ulteriormente addosso, con un dolore che per lei era un affronto. L’ennesimo.

Non considerava il pudore di quei silenzi. E quanto a lui costassero. Che sarebbe stato più semplice, per lui, potersi davvero lasciare andare, con lei, senza il timore di distruggerla, di farla sentire uno strumento, usata. Era solo questo.

Il dolore della perdita dell’altra. La devastazione, dentro, per quello che le aveva inflitto, ripercorso, meticolosamente, in ognuno di quei momenti, che, prima, aveva lasciato trascorrere senza attenzione, e ora enumerava tutti, spietatamente. Il senso di colpa. Il senso, terribile, di liberazione. Il sentire l’assenza di lei. La mancanza di quei piccoli gesti che l’avevano saputo accogliere. Il peso, indicibile, dentro, di quanto doveva avere sofferto. Senza poterne parlare. Sopportando. L’orrore di essere stato lui a trattarla in quel modo.

E la freddezza, lucida, determinata, di non consentirsi di farlo mai più. Di non farlo a lei. Di non rovinare anche quello.

È un’elaborazione disperata. Febbrile. Che si alterna a momenti di vuoto totale. In cui non riesce neanche a muoversi. E sente solo il dolore.

Lo trovava quasi sempre nella sua stanza, pallido, schiacciato da un peso enorme. Non era sicura che si stesse occupando del figlio. Non sapeva dire se fosse un rifiuto o un effetto della disperazione, ma il piccolo, affidato alla nonna, sembrava lontano dai suoi pensieri. E le faceva una pena immensa.

L’aveva visto, la notte, attratta da una luce pallida, vegliarlo, tenerlo stretto a sé, cercando di placarlo. Sembrava piegato. Poi, per fortuna, era accorsa Madame, che si era presa il bambino, e aveva saputo tranquillizzarlo.

Sembrava piegato quando lo vedeva camminare, perso, per scaldargli del latte, ed evitare gli sguardi che, anche non volendo, perché, davvero, l’affetto era tanto e credevano di capire la sua situazione – ma forse non potevano avere idea di cosa, realmente, stesse passando -, lo sfioravano rapidi. In quei momenti in cui lasciava il rifugio della sua stanza, e affrontava l’esterno.

Ma era la nonna ad occuparsi di Daniel, con le ragazze. Talvolta Madame, con uno sguardo imperscrutabile.

Lei stessa non voleva mettersi avanti e rubare qualcosa a lui, ma ne aveva parlato con sua madre.

Era molto preoccupata. Non si poteva lasciare un bambino così piccolo abbandonato a se stesso, con André che, completamente perso, se ne occupava per intervalla insaniae. Non bastava l’affetto. Occorrevano cure. Attenzione. Dedizione. E lui, in quelle condizioni, non sembrava in grado di fornirle.

Gli aveva dato dei giorni di licenza. Lei spesso tornava a dormire a palazzo. Non si nascondeva di essere preoccupata. Non si sentiva, in questi momenti, l’avvoltoio che vola in cerchio sulle spoglie lasciate dalla preda. Non pensava di stare rubando indebitamente l’amore. A lui. All’altra. Sentiva solo una terribile angoscia per lui, e non voleva lasciarlo solo.

E quasi non riusciva a capirlo. Poteva comprendere la disperazione. Ma non quell’abbandono. Quel bambino dipendeva completamente da lui, che pareva averlo quasi completamente rimosso.

 

È andata, pensa.

La nemica è andata. Si sorprende a non pensare a lei come alla rivale. Qualcosa di ben più radicato.

Ma non ha niente da festeggiare.

Si sente stonata e fuori posto. Anche dove ha sempre vissuto. Con le persone di sempre. Anche quando cerca la solitudine. Ed è così difficile ottenerla, in questi giorni.

Si sente male. Come se abbia infine realizzato che l’amore che, finora, ha cresciuto dentro di sé, non possa vincere sulla forza della morte. Perché la memoria di lei resterà per sempre ormai qualcosa di irraggiungibile. E presente.

 

Lo trova steso sul fianco, sul letto, gli occhi sbarrati, le lacrime che gli rigano le guance. Lo scuote.

“Non sono riuscito nemmeno a difenderla…” riemerge chissà da dove, incubi, immagini, ricordi, sensazioni, le cose di lei che lo dilaniano.

Lo guarda, interdetta. Potevi pensarci prima… che raro tempismo, Grandier… Possibile che non senta il figlio che piange? Cerca di tirarlo su. “Non pensarci, ora, non ha senso…”

“... col giornale… ci teneva…”

Lo odia. La odia. Ancora lì, tra loro, la povera perdente da difendere. La perdente che non osava neppure domandare aiuto, si limitava a comunicare e traeva le conseguenze dai silenzi attorno a sé. Eppure, lui non l’ha mai difesa davvero, e Oscar questo lo sa. L’ha lasciata nei suoi dubbi, nelle sue sconfitte, sempre più sola, sempre più stanca.

“Smettila!” non ne può più. Non sa se di lui. Del rimorso. Di lei che ancora non è annegata nella melma dei ricordi, oscura e pastosa. Arriva a schiaffeggiarlo. “Piantala, ora basta!”

Alla fine, lui si riscuote un po’. A lei fanno male le mani e se potesse riderebbe di sé.

 

Ma non è facile. Non è facile ripensare ai discorsi spazzati dagli eventi.

“Me ne vado”, gli aveva detto. “Ti lascio la casa.”

Aveva alzato su di lei uno sguardo di dolore. L’ennesima reazione di disperazione all’ennesimo annuncio di una missione. Altri giorni lontano da casa. Da lei. Senza notizie. Con la paura. Sola.

“Per favore… è solo per pochi giorni, non precipitare gli eventi.” Ti prego, aveva pensato.

“Non ho più voglia di stare sola, André.” E c’era tanta tristezza, nella voce. “Sono stanca.” Desolazione. “Non immagini quanto sono stanca.”

Si era stretta le braccia al corpo. Era rimasta addossata al muro. “Non è così che voglio vivere. Non è giusto.” Semplice.

“Non voglio.”

“Neanche io. Ma questa vita mi sta uccidendo. Mi distrugge.”

“Ti voglio bene, possibile che questo non conti?” Si era sentito come se gli stessero strappando l’anima. E un assurdo sollievo.

“Te ne voglio anche io. Moltissimo.” Gli aveva passato una mano tra i capelli. “Ma così non possiamo continuare.”

Si era portato la mano, stretta nella sua, al viso. “No.” Aveva scosso la testa. “Non può finire così.”

“È meglio così, invece.”

 

“Sei stanca… ti prego, stacchiamo un po’. Andiamo via e pensiamoci con calma.”

“Certo, sono stanca. Mi hai lasciato addosso tutto questo, e te ne rendi conto ora?”

“Andiamo via…”

“Credi che cambierebbe qualcosa?”

L’aveva guardata, disperato.

“Tireremmo avanti qualche altro mese, magari un anno… poi…”

“Proviamoci.”

“Lo abbiamo già fatto, ricordi?”

 

Allora, le aveva dato le spalle. Un gesto di rifiuto. Era davvero finita.

Le mani tra i capelli. “E Daniel?” Gli tremava la voce.

“Starà con me.”

No… no…

“Mi trasferisco a Lione. Ci sono delle stamperie. Lavorerò alle bozze, poi si vedrà.”

“Ma è così lontano!” Aveva protestato. “Come faremo?”

Tu, come farai. Aveva pensato tristemente. “In fondo, per te è normale stare via da casa per giorni.” Quante volte aveva rigirato nel cuore quelle parole. E quanto si sentiva meschina, ora, nel pronunciarle. Fino ad odiare se stessa, nel sentirsi in colpa per lui.

“Chris, per favore… non roviniamo tutto…”

“Ipocrita!” E quella era stata l’unica volta che aveva alzato la voce, quella sera. “Se qualcuno ha rovinato tutto non sono certo stata io.”

 

Poi, a voce più bassa. “Imparerò a non avercela con te. O con lei.” Avrebbe voluto piangere. “Tra un po’ passerà. Ci abitueremo.” Come a rassicurarlo.

“Non voglio perderti…”

Sei sicuro?

“Non voglio vivere lontano da te, da Daniel…”

Ah, ecco… difficile sradicare le abitudini, quanto è facile prenderle, aveva riflettuto, lei. Un peccato, si era detta. Davvero un peccato che tre persone come loro si fossero scontrate su un campo tanto devastante. Sarebbe potuta andare in un altro modo, aveva riflettuto. Certo, nessuno di loro aveva quel palmo di pelo sullo stomaco da intavolare ménages à trois ou à quatre… era solo molto, molto triste cercare di vivere senza ingannare se stessi.

 

Dopo, c’era stata quella notte terribile. Di pena. Stanchezza addosso, che ti schiaccia. Rimorso. Angoscia. Era rimasto lì, accanto a Daniel, pensando a come sarebbe stato. Aveva pensato che quelle erano le ultime ore che passavano così, insieme. Che il bambino sarebbe cresciuto solo, come, in fondo, era capitato a lui. e non voleva.

Non dormiva neanche Christine. Irrigidita sotto le coperte.

Non che non la capisse. Forse aveva ragione lei. Forse doveva rassegnarsi a lasciarli andare. Rompere quel legame. Abituarsi alla sua assenza. A non averla attorno. La sua voce. E Daniel. Daniel.

Doveva aver bevuto.

Vagato.

Non ricordava.

Non ricordava niente più.

Poi, quell’alba grigia. E, dopo ancora, il sangue. Tutto quel sangue.

Allora, era davvero finita.

 

Della mattina dopo ricorda il senso di smarrimento che l’aveva avvinto appena sveglio. Quella consapevolezza, immediata, che lei era andata. Finita. Morta. Quello che era stata non esisteva più.

Ricordava di aver sognato. Una tregua di poche ore. Poi, la realtà.

Di non trovarsi come ogni altra mattina. Quella lama di luce che illuminava i capelli di Oscar, china sul tavolo.

Un risveglio che avrebbe sognato per anni, invece ora lei era lì, con lui, e tutto andava storto. Non era così che doveva andare.

Giusto due sere prima il discorso di Chris gli era parso senza ritorno, e adesso si trovava a considerare che qualunque altra cosa si sarebbe potuta aggiustare. Non la morte.

Davvero, la vita era una sontuosa, avvincente, allettante, estrema presa in giro. Meglio non nascere. Meglio non nascere. Non se ne sarebbe reso neppure conto. Non avrebbe amato. Non avrebbe sofferto. Niente. Niente. Neppure il vuoto. La non esistenza. Il niente.[1]

 

Laura, autunno 2005-gennaio-novembre 2006 pubblicazione sul sito Little Corner maggio 2011

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

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Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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[1] 5-11-2006.