Christine

Parte II

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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.

Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.

Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.

Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.

 

 

Non rendersi conto di un amore è colpa più grave che tradire – Oscar, ep. 39

 

Doveva soffocare l’amore. C’è gente che ama una persona tutta la vita senza che questa persona lo sappia – André, ep. 20

 

Continuava a piovere senza sosta. Uno scorrere senza fine. La vegetazione si piegava sotto la forza dell'acqua, il verde reso più intenso, più scuro, le foglie lucide, che lasciavano scivolare le gocce. Il tonfo e il loro scorrere, poi, sulle tegole, lo schiocco sui vetri.

Oscar condusse André a casa. Dovette quasi portarlo come un cieco, tenendolo per la vita e per un braccio. Lui la lasciava fare. Salirono le scale dalle mura rovinate che ora nella tempesta facevano tristezza. I gatti, tristi, a nascondersi sotto la tettoia. E subito sgattaiolarono in casa. Era buio. Oscar fece luce. Non c'era nessuno. Una casa vuota. E fredda.

Osservò André, che guardava avanti a sé, sperduto. Era casa sua, eppure rimaneva immobile.

Un ospite, venne da pensare ad Oscar. Già, forse senza di lei si era sempre sentito un ospite, lì dentro… e ora…

Lui non si muoveva. Non osava neppure osservare.

Oscar, invece, per la prima volta, si guardò intorno senza timore di poter ferire qualcuno, di sembrare usurpare qualche ruolo. Già, fino ad allora, era stato così. Dentro – e non fuori, strana ironia - quella casa aveva avuto paura di rovinare qualcosa. Il loro rapporto… Andava lì perché le faceva piacere, perché era quasi l'unico modo rimastole per continuare a vedere André alla luce del giorno. Ma si rendeva perfettamente conto di come la sua presenza fosse percepita, vissuta, interpretata – e, tutto questo, variando nel tempo e nelle situazioni -. E, lì dentro, aveva sempre temuto di poter distruggere, ancora… Ora, invece, lasciava senza più remore che il suo sguardo si posasse sulle cose, le pareti, le stampe, i mobili, le suppellettili. Osservava e immaginava quella casa di nuovo piena. Viva. Non vuota, come era adesso. E si rendeva conto, anche se non ci aveva mai fatto caso prima, come dall'arredamento si potesse comprendere chi abita una casa. Rivedeva tante cose di lei… La rivedeva muoversi in quelle stanze, leggera, aerea, una nuvola di allegria e dolcezza.

Le lacrime ritornarono prepotenti. Strinse i pugni fino a farsi male, cercando di trattenerle. Non voleva piangere. Non voleva che lui la vedesse piangere. Non sapeva che dire, non sapeva più niente… sapeva solo che la vita può far male in mille modi, tutti terribili. Anche la vita che sembra più banale. E, invece, si piegò su una sedia e pianse, pianse in silenzio, tremando, scossa da quel dolore, dalla pena per André, dalle loro due solitudini diverse. Distanti. Era troppo, troppo… Pianse, tenendosi la testa tra le mani, sapendo che era sola, che André non sarebbe arrivato a consolarla, che avrebbe dovuto trovare dentro se stessa la forza di rialzarsi e andare avanti, non in lui, come una volta era stato.

Eppure, non poteva lasciarlo solo, in quella situazione.

Si guardò attorno, ciocche di capelli bagnate dalle lacrime. Il freddo dentro. Un brivido.

Una lampada illuminava a stento il soggiorno. Le mura apparivano sinistre, spettrali in quell'oscurità. La pioggia sembrava sovrastare tutto e così, pensò, avrebbe voluto che fosse. Forse, si disse, sarebbe stato più semplice. Quella stanza, che era stata allegra, giovane, piena di vita, le appariva spoglia, incuteva paura, insinuava pena. Non poteva permettersi di essere egoista, in questo caso. Lo era stata, scioccamente, incoscientemente, in passato. Ora, non era più possibile. Osservò André, che pareva in trance, mentre versava ai gatti del latte nelle ciotole. Un gesto meccanico, che chissà quante volte aveva fatto. Mandare avanti la casa. Nonostante tutto.

"Vieni", gli disse, prendendolo per un braccio.

Solo allora lui si riscosse.

"Daniel… dov'è…" La sua voce suonava triste, smarrita.

"A casa…” Poi, subito, si corresse, una stretta al cuore. “Da noi…”

 

Gli tolse il mantello, lo fece sedere.

Gli sciolse i capelli, bagnati. Una carezza, in altri tempi. Ora, la distanza. La pena.

Osò, quasi per la prima volta, andare di là, la zona notte, e, come in una profanazione, con le mani che tremavano di gelo e d’emozione, sfiorare timorosa i mobili, osare aprire dei cassetti, per cercare degli asciugamani.

Si rese conto di non sapere bene dove trovarli, in una casa così diversa dalla sua. In una casa in cui una persona in fondo non troppo dissimile da lei li aveva organizzati. Senza l’apparato dei domestici. Per una vita a due.

"Sarebbe meglio se dormissi a casa, stanotte…" azzardò, neppure troppo convinta, tornando di là. Non si sentiva di lasciarlo lì, da solo coi suoi ricordi.

Lui sospirò. Sembrò stupito, per un attimo, di vederla lì, con quei teli in mano. Poi, tornò il buio. Si passò le mani tra i capelli. Guardava il tavolo. Le mani gli tremavano. Sembrava soppesare mille parole, un’enormità di dubbi. Solo dopo un tempo infinito articolò "No, voglio restare qui", la voce chiara, spenta.

Gli passò l’asciugamano, lasciandolo sul tavolo.

Lui non allungò neppure una mano per prenderlo. Come se la distanza fosse tutto. Una salvezza, un riparo. Il poter continuare a coltivare in pace il proprio dolore. Rinnovandolo. Per non perderlo.

Avrebbe voluto prendergli le mani, stringerle, infondergli un po' di calore. Ma non ci riuscì. Non ci riusciva. André sembrava come respingerla. Come aver innalzato una cortina attorno a sé. Guardò fuori. Diluviava ancora. Acqua annegata nel buio. Un buio nero, pesto, ad inghiottire tutto. Anche quello che resta.

Il rumore della pioggia in quella stanza era talmente evidente da parere l'unica realtà. Avrebbe fatto meglio ad andarsene. A lui non importava. Che lei fosse rimasta o meno, le cose non sarebbero cambiate. E, tuttavia, non se la sentiva di lasciarlo solo. Era avvolta nella tristezza. Sapeva benissimo che lui sarebbe rimasto indifferente a qualunque sua decisione. Che, probabilmente, non si sarebbe neppure accorto se lei fosse stata lì o meno. Eppure, sarebbe rimasta. Nonostante tutto. Non gli avrebbe preso le mani. Non ne avrebbe mai avuto il coraggio e avrebbe troppo temuto di essere respinta. Non gli avrebbe accarezzato i capelli. Eppure, sarebbe rimasta. Trovò la forza di guardarlo, sperando non si accorgesse di lei. Di quelle lacrime. Lo sguardo a terra, tremava di freddo, i capelli bagnati, pallido. Teso. Sul punto di crollare.

Si diresse verso il camino, cercando qualcosa da fare. Cominciò a preparare il fuoco. Era diventata brava, da quando lui non lo faceva più per lei. Dandogli le spalle, si asciugò furtiva le lacrime col palmo della mano.

Poi, all’improvviso, mentre sistemava la base, sentì la sua presenza dietro di sé. Era lì, in piedi, lo sguardo perso in un punto indistinto. Sembrava indeciso.

Sentì un tuffo al cuore, quando, incredula, lo vide inginocchiarsi accanto a lei e sfiorarle le mani per allontanarla. “Lascia, faccio io…” come fosse ancora normale. Come il passato fosse tornato tra loro.

E osservare quelle mani, e i gesti consueti. Quelli che si conoscono. Quelli che si riconoscono, stupiti. Notare le differenze. Ricordarle. Classificarle.

Poi, alzare gli occhi al suo viso, dopo aver trovato il coraggio, e vedergli le lacrime, che non riesce quasi a trattenere. Riempirgli gli occhi. E scivolare giù.

E lui che resta lì, a fare quelle poche cose che ancora sembrano avere un senso. Non tanto scaldarsi. Quanto rispondere alla sua esigenza di un fuoco.

Mentre le fiamme si alzano.

Perché non immagina che, anche lei, voleva scaldare lui.

Mentre i gatti arrivano al richiamo del calore.

Eppure continuò. Anche se il fuoco aveva preso quasi subito. Continuò. Come per migliorarlo. Perché ardesse più forte. Finché lei non gli strinse le mani, e gli disse piano “Ora basta…”

E fu allora che crollò.

Che lei, inginocchiata lì accanto, lo protesse nel suo abbraccio, e lasciò che, al riparo da tutti, piangesse ancora un po’.

 

Lo fece sedere al tavolo. Lo sguardo basso, gli occhi lucidi. Le mani intrecciate.

Lei, quasi non riusciva a muoversi. Le gambe le erano diventate come di legno. Troppa tensione. Troppo dolore…

Gli passò una mano sulla schiena.

“Devi mangiare qualcosa…”

Neanche rispose. Lei non avrebbe più né mangiato. Né vissuto. Niente. Non era più niente. Si strinse le braccia al corpo. Voleva gelare. Morire anche lui di freddo. Di fame.

 

Di là, per fortuna, qualcuno aveva cambiato le lenzuola. Almeno avrebbe potuto cercare di farlo dormire un po’. E qualcuno aveva pulito, per terra, il sangue.

 

Poggiò sul tavolo del cibo in un piatto.

La guardò. “Vai, ora. Si è fatto tardi…” lo sguardo allucinato.

Scosse la testa.

“Voglio restare solo…”

“No.”

 

Rimase lì, con lui. Tutta la notte. A non poterlo guardare piangere. Distrutto.

Gli preparò del tea, caldo. E almeno quello lo bevve.

Poi, che era quasi l’alba, mentre si sorprendeva di come la luce irrompesse, lenta, da quelle finestre, e piccole nuvole rosa dipingessero il cielo, là, in fondo, per mano lo trascinò di là. Lo convinse a stendersi. Lo coprì con la giacca. E con un plaid.

Rimase sulla porta, giusto il tempo di vederlo crollare, di traverso sul letto. Senza sapere quale fosse stato il posto di lei. Quello di lui. Che importava, ormai…

Poi, tornò di là. Ad aspettare che fosse giorno.

 

Ad aspettare di combattere un’altra battaglia. Per convincerlo a tornare a casa.

 

Com’è tornare a casa dopo anni d’assenza…

Quando pare passato un secolo, e tutto grava addosso. Ciò che è stato bello. E il male.

 

Era cominciato come un periodo solare, in fondo. Tutto quanto era cominciato come un addio. E una rinascita.

Addio ad Oscar, benvenuto il futuro.

Molti anni prima…

 

Una mano a coprirsi le labbra. Le dita fredde.

Ricordava.

Lei era viva, e ancora poteva ricordare.

 

 

È strano pensare ad una nuova amica, si era detto André. Tu, che hai sempre cullato l’idea che lei sarebbe stata unica. E ti trovi a tradire te stesso – e lei -, con stupore, ma senza poter fare altro che accettare la realtà.

A lei aveva finito per parlare anche di Oscar. Non avrebbe voluto farlo. Ma Christine, come amica, stava lentamente ma inesorabilmente occupando il posto che era stato di Oscar.

 

C’erano stati innumeri acquisti di volumi, in quel periodo…

E molti, impensabili, anche, ne erano stati coinvolti…

 

Per esempio, un piacente, biondo straniero. Che aveva trascinato in libreria, ritenendo poco prudente condurlo in una taverna. “Sapete, di questi tempi…”, aveva glissato, senza ammettere la ragione vera, l’odio, il risentimento, la gente che l’avrebbe linciato volentieri.

"E lui chi è?", fece Christine, amichevolmente.

"Il conte Hans Axel von Fersen", lo presentò André, che aggiunse: "Conte, vi presento Mlle Testaert."

"Per servirvi…", le baciò la mano Hans.

"Ma...", gli sorrise Christine, per niente intimidita, "credevo voi frequentaste solo belle donne… che ci fate con André?"

"Ma io qui vedo una donna bellissima… Quanto al nostro André, mi accompagna, dato che ritiene le taverne di Parigi inaccessibili…” un sorriso - ha capito benissimo, si disse André -. “E”, prosegue, “che la nostra amica Oscar mi ha ripetutamente parlato della vostra libreria…", fece Hans, lo sguardo decisamente ammirato, mentre lanciava complici occhiate di approvazione ad André.

"Oscar?", fece lei, perplessa.

"La… persona di cui ti ho parlato…", cercò di glissare André, imbarazzato.

“Quella… persona…” Titubante.

"Esatto…", confermò André, sconsolato, lanciando un'occhiata furtiva e desolata all'indirizzo di Hans.

"Ma… ma io pensavo si trattasse di una donna…", protestò vivamente Christine, che di complicazioni, nella vita, ne amava ben poche e di stranezze meno ancora.

E, a quel punto, quasi all'unisono, i due poveretti si trovarono a spiegare "Ma Oscar è una donna!!!", ad una quanto mai sconcertata interlocutrice…

 

 

Era veramente graziosa. In molte cose, piccoli dettagli, particolari, somigliava ad Oscar, ma aveva una femminilità più accentuata, un modo di muoversi, di parlare, di guardare… Eppure le somigliava. Lo stesso sguardo da gatta, il viso ovale. Era bella.

 

Non è facile spiegare perché nasca l’amore nei confronti di una persona. Se sia la consuetudine. O l’attenzione che essa ci riserva. Se sia un bisogno di essere amati. Se siano i gesti. Il quotidiano. Una parola. Le parole…

Perché, quando qualcuno ci sta vicino, tutto scompare, e il mondo diventa migliore. E le parole meno amare. E il dolore meno forte.

 

Perché il cuore manca un battito e sembra precipitare, e le mani si gelano di sudore, e tremano, quando appare davanti a te quella persona.

 

C’è un piccolo ponte in pietra, tra le case. Nella bella stagione la vegetazione rigogliosa risplende.

Due figure, appartate, sedute. Sembrano giovani, ancora aperti alla vita. Sembrano belli in quei momenti rubati al loro lavoro, a scambiarsi parole che forse hanno un peso.

Lei sembra ascoltarlo, in un’espressione attenta. Sembra capire le pene di lui, di quel suo amore così impossibile. Sembra capire quella donna così strana di cui lui le racconta.

Sembra potergli dire che, sì, lei accetterebbe, per lui, di essere la seconda scelta. Perché lui è straordinario. La voce, le mani così belle ed i polsi delicati. Quel raggio di sole che gli fa splendere i riccioli morbidi. Le ciglia lunghe, la linea della mandibola. Quel tono scanzonato. A volte triste. Quegli occhi pieni di luce e di fiducia, nonostante tutto. Questo, è lui. Ed è disposta a rischiare. Anche se non sa bene a cosa vada incontro.

Lui resta lì, ad ascoltarla parlare. - Il colore vivido delle foglie.- Il suono della sua voce. - Lo scorrere dell’acqua. - I gesti. - Il ricordo di come il sole colpiva le pietre. - I movimenti delle sue mani. - E l’ombra proiettata dal ponte. - Gli sguardi. - E quel cielo. Che pareva immenso. - Veloci, fugaci, ancora timidi. Lascia che lei gli scivoli come un balsamo sull’anima ferita. Che lo avvolga. Che lo plachi con quella voce argentina e un po’ canzonatoria,[1] così femminile. Con quelle risate che non trattiene, come invece fa Oscar. Christine vive. Si diverte. Non si nasconde. Non ne ha bisogno. È la prima volta che ha un’amica, oltre lei, con cui riesca a comunicare così profondamente. Non sente di tradirla. Sente solo il bisogno di pace. Si culla alla dolcezza di questa sensazione, della novità, della libertà di questo rapporto. Ma non si può cambiare. L’amica, ancora una volta, lo affascina. Lo circonda di sé. Diventa una cara amica, lasciando un piccolo vuoto, dentro, per quel senso di sorpresa e incanto che d’ora in avanti potrà solo ricordare, ma che è ormai consegnato al passato. E diventa poi quel qualcuno a cui si pensa sempre più spesso, durante il giorno. E, dopo ancora, il primo pensiero la mattina, quando quasi ci si sorprende che non sia più l’altra…

 

Dimenticavo: Un ENORME grazie alle proof reader: Alessandra, Assunta, Elisa, Luana, Sydreana

 

Laura, 2002, autunno 2005-gennaio 2006, pubblicazione sul sito Little Corner gennaio 2006

 

Continua

Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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[1] Grazie a Luana per il suggest di canzonatoria.