Christine

Parte XVIII

Warning!!!

 

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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.

Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.

Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.

Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.

 

Odia rientrare in una casa vuota. Odia quel buio dietro i vetri.

Le prende male. Anche se sa che quel niente che lei sente, che le grava dentro, la schiaccia, la fa sentire devastata, nasconde, a ben guardare, qualcosa che ha saputo creare da sola. Nasconde la sua casa. La sua piccola realtà. I suoi spazi, la sua scrivania, la poltrona, il tavolo, le sue scelte, i suoi gusti. Lo sa, è una sua vittoria, ma, senza nessuno con cui condividerlo, per ora, non ha la forza neanche di goderne. Sa che non deve essere così, sa che la serenità non può dipendere da questo, eppure, ora, da un po’, da troppo tempo, si sente sola. Sola perché, quando si ama, si vorrebbe accanto la persona amata. Sola, perché basterebbe un amico. Ma lei ci ha rinunciato.

Forse ha chiesto troppo, riflette, nell’immolare anche Al ad André. Il problema è che non sapeva, onestamente, con se stessa, dove si sarebbe sentita di arrivare. Se giungere alle estreme conclusioni del ragionamento e, dunque, fermarsi. Vorrebbe ritrovare la serenità per poter stare sola, sola davvero e godere momenti di serenità. Forse deve solo lasciar scorrere, trascorrere tempo e pensieri, parole, sensazioni, respiri. Forse dovrebbe saper osservare – e osservarsi – con occhi nuovi, non velati dal dolore o dal rimpianto – e neanche dall’amore, per dirla tutta – . Fosse semplice… fosse facile vivere con dignità e sapienza, e saggezza, e non lasciarsi distruggere da se stessi.

 

È più semplice per chi scarica tutto l’odio o le frustrazioni all’esterno, cavandosela con un nemico immaginario o con l’ennesima passioncella, per un amante, per una nuova moda, che aiuta ad alleviare la solitudine. Vivere all’esterno, buttare tutto fuori, e invece siamo qui, a fare i conti con noi stessi, senza mentire. Perlomeno, cercando di non mentire.

Mica facile, si ripete.

Vorrebbe odiare quei due là, sprangati dietro la loro casetta ideale, due cretini che non si fanno troppe domande e realizzano metodicamente quello che tutti si aspettano, bella coppietta, bel pargolo in arrivo, poi magari un altro. André, brutto stronzo che sei sfuggito ai miei mancati piani! O, magari, ti sei salvato in tempo… maledetto, maledetto… o, forse, stupida io, che ti ho lasciato andare, persa nei miei silenzi, nel non saper dire, neanche un semplice sì.

Che tristezza…

 

Sente sotto le dita la tinta polverosa del legno della porta. Entra e teme il gelo. Invece, casa è calda. C’è una piccola brace che, ancora, arde, nel camino.

Accende il lume, quasi ha paura di guardarsi attorno. Ostinata, ancora rivolgerebbe gli occhi in basso, per non vedere. Eppure, è tutto lì. Illuminato dall’alone tenue del paralume, tremolante, e, nonostante tutto, bello. Che dice di lei. Che sa essere anche questo, non solo la persona depredata dei sentimenti.

 

È una meraviglia, quel piccolo camino. Starsene lì davanti, tranquilla, a fare niente. Piccoli istanti preziosi. Piccole cose che danno segno e senso. Potesse essere sempre così. Dimenticare, vivere di piccole sensazioni, saperle apprezzare, massimizzare, farne tesoro. Forse, il segreto è lì.

 

È un giovane padre triste e pieno d’orgoglio, quello che le si avvicina piano, reggendo con cautela quel piccolo involto. Lei, ancora deve riprendersi dalle turbolenze che non s’aspettava, da quel casino endemico, emozioni, paura, una realtà greve fatta di parole da donne che lei ripudia. Eppure, è lì.

“Guarda”, le dice piano, in un tono che non gli conosceva. Piano, per non disturbarlo. Le fa tenerezza, quasi è commossa.

E lei, timida, si affaccia a spiare. E non sa che dire. Non sa nemmeno come si giudicano, i bambini. È emozionata, sì. E un po’ le ricorda lui. I suoi colori. Qualcosa. Uno sguardo a lui, come se cercasse un suggerimento. Perché sono troppe le cose da dire.

“È così piccolo…”

“Sì…”

è deluso, lui, per quelle scarne parole? Vorrebbe di più? Ma come si fa, come si può dirgli tutto quello che le passa per la mente, ora, di fronte al figlio della persona che amato, che ama, l’amico di tutta una vita; confessargli che è un po’ un piccolo lui, che lo ritrova in quei piccoli lineamenti, in quelle minime espressioni. Come può?

Osserva di nuovo. Lui la guarda, in attesa.

“Ti somiglia…”

Un sorriso timido d’orgoglio.

“Vuoi tenerlo?” Parole che la sorprendono. Un estremo atto di fiducia. A una come lei. Inadatta perfino a fare la zia. Nessun genitore ha mai osato tanto. Lui, sì.

“No, no”, agita le mani davanti a sé. “Sai che io coi bambini non ci so fare…” si allontana, a distanza di sicurezza.

“Sicura?” Un po’ deluso. “Guarda che non morde…” Voleva condividere con lei il suo piccolo tesoro.

“E se lo lascio cadere?” Il terrore atavico.

“Ma figurati…” Uomo fiducioso.

“Avanti, prova…” glielo porge, incosciente.

“No, no, ho paura…” non ti rendi conto di cosa rischi…

“Su…” Glielo mette tra le braccia. Piano. “Ecco…”

E lei ha paura, e rimane lì, tesa, terrorizzata di fare un qualche danno, le braccia irrigidite, una sensazione di dolcezza e disagio e la paura che il coso morbido e caldo scivoli giù, fin quando lui, dopo istanti immensi, non la libera, e lo riprende, con gesti che sembrano già naturali. Che le fanno male, per la distanza che le significano. E che la stupiscono e commuovono. Perché, questo, di lui, non lo immaginava.

“Visto? Non è niente di strano.” Le sorride.

E lei lo guarda, stranita, confusa, emozionata. Niente di strano?

 

Christine è di là. Senza forze. L’ha incontrata giusto un attimo, di sfuggita.

Emozionate entrambe.

“L’ho visto… è bellissimo”, si è sforzata, Oscar. Queste cose non le vengono proprio naturali… eppure era sincera.

“Vero?” ha annuito lei, grata.

Una carezza, che sfugge alla sua monolitica riservatezza, e lei che ha scherzato “Almeno riprenderò una forma umana…”

 

E, però, quando la sera torna dal lavoro – e torna sola, il neo riprodotto è stato prudentemente lasciato a badare al nido –, e ritrova luce contro buio, famigliola felice o perlomeno presunta tale contro vuoto, anche se cerca di dirsi che va bene, che non è quello che vorrebbe – e, in effetti, non lo vuole –, anche se cerca di contenere quello sconforto, quel senso di solitudine che l’avvolge e atterra, non è semplice. Non è affatto semplice. Quella sua condanna, di essere una donna moderna, di voler cercare l’amore ma a modo suo, secondo le sue esigenze, di volere un amore e non un prolungamento di esso, di volere un compagno, una persona simile, pari, eguale, eppure diverso, è davvero qualcosa di impossibile a osare domandarsi? Bisogna per forza essere come tutti e fingere e nascondersi e accettare le tappe che sembrerebbero obbligatorie, mollare l’uniforme, lasciarsi scopare e riprodursi? E se lei non ci sta, se lei questo non lo vuole, se ha avuto la fortuna di incappare nelle manie del padre e, ora, se le gode? Che male c’è? Che male ci sarebbe a desiderare un compagno e un’unione con lui, lui e basta, il lavoro che non le dispiace, loro due, due soli, due.

Bisognerebbe riscrivere le tradizioni. Forse, dopo l’uno, se l’uno proprio, da solo non ce la fa, è magari due il numero perfetto!

Soddisfatta di questa sensazione, si sente un po’ più in pace.

Oddio, pace è una parola grossa. Diciamo meglio.

 

Su una cosa, almeno, André e Christine si sono trovati d’accordo. Forse, in nome delle comuni idee, forse, in ricordo del tempo in cui condividevano le letture. Quelle sull’educazione. Sul progresso. Sulla condanna di pratiche barbare e di credenze popolari. Quando hanno visto la levatrice cercare di costringere il loro bambino nelle fasce, quando hanno sentito il suo pianto, hanno avuto un moto di ribellione. Qualcosa di comune, che, tra loro, latitava da tempo – veglie e mancanza di sonno a parte –.

“Non se ne parla”, ha fatto lui, interpretando quel cenno e dando voce anche alla disapprovazione di lei.

“Si fa così.” La perentoria risposta della donna.

“No, che non si fa così. Gli fa solo male.” Le fa notare. “Non sentite che piange?”

“Piangono tutti, poi si abituano.”

Inorriditi, esterrefatti, si domandano come sia possibile infliggere certe crudeltà a piccoli esseri senza difesa, che dai genitori si aspetterebbero protezione, e non castighi? No, non sarebbe stato così, per loro figlio. Si scambiano uno sguardo. “Noi non lo vogliamo.”

“No?” Incredula.

“No.” Fermi.

“A vostro rischio, poi, se cresce storto, rachitico o che…”

“Affari nostri…”, taglia corto lui, un braccio, protettivo, attorno alle spalle della moglie.

 

La guarda, mentre se lo stacca dal seno, esausta. Pallida, magrissima, le vene azzurre sotto la pelle diafana dei polsi sottili.

È lì, sul letto, accanto a lei, dopo l’ennesima notte insonne. E, d’un tratto, non gl’importa più di trattenere quello che prova, e se lei ce l’ha ancora con lui. Sente solo che vuole stringerla a sé, e lo fa, la trascina, sorpresa, in quell’abbraccio, di tenerezza, affetto, pena, che cerca di tenerlo lontano, con le mani, ma, poi, si lascia avvolgere, in una cascata color miele.

 

Non è così facile mantenere il proposito di non frequentare più la casa di André – e, mentre formula il pensiero, il disagio ancora l’attanaglia –, si trova a considerare, un po’ delusa da se stessa. Ma cerca di farlo il meno possibile.

Lui, però, sembra tenerci davvero tanto. La invita, spesso. E, ogni tanto, lei accetta.

Per non deluderlo. Perché non pensi che rifiuta lui, le sue scelte, il pargolo ululante. Le viene da ridere e prova un certo sollievo, se ripensa alle occhiaie di André, che sembra passare più tempo in piedi la notte che il giorno. Pare che il poppante sia alquanto diabolico. Un po’ le fa pure pena, lui. Quanto all’altra, annota che, per ciò che la riguarda, se lo merita tutto. Visto che la cosa è stata scientemente programmata e si incazza solo a pensare che il suo compagno d’infanzia, di giochi, il suo miglior amico, la persona che ama, che pensava fosse quanto di più simile a lei sulla terra, si sia lasciato coinvolgere in piani così diversi da quelli che lei aveva per lui – e per sé –. È incazzata, perché non è stata in grado di chiarirli con se stessa, questi piani, e, dunque, neanche a lui, sebbene il malcapitato, in qualche modo, li avesse incrociati volutamente. Qualcun’altra li ha intercettati, e lui, come un pirla, c’è cascato, certo, spinto dal rifiuto di lei… un casino infame, di cui lei non sente di non avere una qualche responsabilità, purtroppo.

Non si sente più a suo agio con Christine. Ora ha dovuto rinunciare a troppo. Dopo un cammino difficile e senza ipocrisie. Anche se la colpa è stata sua, all’inizio. E lo sa bene. Christine in fondo ha solo accettato di essere la seconda scelta. A suo rischio e pericolo.

Con André è diverso. Disagio, dolore, affetto, sguardi desolati e innamorati si mescolano – e parole mute nascoste in quegli scambi – con le distanze che li dividono. Senza contare le malefiche pappe e pannolini. Col loro amore che pare non spegnersi nonostante i ferrei propositi. Ma che serrano entrambi, ben in fondo al cuore. In un certo senso, ammette nei suoi sempre più frequenti momenti di cinismo, è un buon modo per preservare un amore. Altro che svegliarsi tutte le mattine con la persona che hai idealizzato e vederne il peggio… – insomma, si dice, secondo questa teoria dovrebbe considerarsi sommamente fortunata. – Certo, le risulta alquanto difficile convincersene, ma, nella vita, non si sa mai… per il momento si sente scornata. Ma sente che può migliorare.

Come sarebbe tutto più semplice, se si potesse rinascere, e non rifare gli stessi errori. Ora, saprebbe come comportarsi. Una sana dichiarazione, bella diretta, a tempo debito. O una definitiva fuga. In effetti, è ancora incerta.

A volte ripensa ad Alain. Si domanda cosa faccia. Lui e la ragazzina. Anche. Le capita di domandarsi se avrebbe avuto una vita diversa, con delle possibilità in più. Se avrebbe potuto concedere spazio a ciò che davvero gli piaceva, e non solo ad un lavoro che si fa per necessità. Ma è inutile. Non serve tormentarsi sul passato. E poi la vita è quella, non dà altre scelte, né a lei, né a lui. Lui resterà così, ogni giorno uguale all’altro, la paga per mantenere la baracca, e le distrazioni per non pensare. Una bella barca di distrazioni armate di tette e culi. E lei, più o meno lo stesso, con la differenza che non lavora per necessità, non muore di freddo ed è decisamente esile.

A volte si domanda – e questo fin da bambina – perché sia nata proprio lì, proprio lei, con quella coscienza – e non una persona diversa. Se una coscienza attraversi delle vite – e, allora, sarebbe tremendo aver dimenticato tutto quello che è stato, prima, e non ritrovare André, dopo – o se tutto finisca lì. A non nascere neppure ci si rende conto… a volte è meglio vivere senza capire, senza interrogarsi, che essere come lei. Incapace di procedere a spada tratta, senza ragioni, sensi, domande…

Anche lei, come André, a volte pensa che la vita sia una gran fregatura…[1] ma magari no.

Fortuna che s’è portata il piano, nella nuova casa. Mentre l’immagine dello sguardo innamorato che André le ha indirizzato, mentre si sistemava in braccio Daniel, la insegue. Un pianoforte bellissimo, laccato di rosso bordeaux. Anche la rabbia, aiuta a reagire. A non annegare nella disperazione. E nella solitudine. Mentre ripensa a quando gli è andata vicina, e, nell’osare, terrorizzata, una carezza al batuffolo, ha sfiorato con dolcezza anche lui. Che l’ha guardata, con negli occhi l’infinito e si è domandata, sinceramente, se fosse per la carezza al pupo, per cui lui stravede, o per quella a lui. Passa ore intere, anche la notte, a suonare. A volte al buio. A orecchio. Non le servono gli spartiti. E neanche le candele. Vantaggi del vivere soli. Sorride, pensando che avrebbe scritto opere intere, se avesse trascritto tutto quello che, d’impulso e dolore, ha suonato, in quelle ore solitarie e fredde. E quanta legna ha bruciato, in quelle incursioni musicali fuori orario. Ma un po’ l’aiuta, mentre, china sui tasti, scorre il piano, i capelli che accarezzano l’avorio, i martelletti che percuotono le corde.[2] La musica che si perde, e nessuno l’ascolta.

Al lavoro, invece, ha nascosto un violino. Quello più buono lo tiene a casa. E, a volte, prende e se ne va a suonare, lontano. È straordinario il suono del violino, dal vivo. Ti prende il cuore. A volte ti anestetizza il dolore. A volte lo rivolta dagli abissi in cui l’abbiamo nascosto, e lo porta allo scoperto.


 

Laura, 2002, autunno 2005-gennaio-novembre 2006, revisione novembre 2009, pubblicazione sul sito Little Corner novembre 2009

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

Continua

Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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[1] Singolo brano 5/6-11-2006.

[2] http://web.tiscali.it/sicilpiano/storia_del_pianoforte.htm per brevi notazioni storiche sull’evoluzione tecnica dello strumento e sul tipo di suono.

Si veda anche http://www.webalice.it/inforestauro/pianoforte_03.htm