BK's Night

 Parte XX

Warning!!!

 

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Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

 

“Non esiste, il perdono”.

Glielo ha detto così, semplicemente.

Con la lama contro la pelle che pulsa e quella mano che le preme sulla spalla, e le farebbe male. Ma lei non sente più nulla.

Si domanda se dovrebbe dirgli del bambino, forse proverebbe un briciolo di pietà. Ma pensa di no. E non vuole farsi scudo di qualcosa di tanto intimo. Non vuole che lui distrugga anche questo.

 

La calma contro la rabbia. L’immobilità contro il gesto rapido di quel braccio.

E lui, lui che, non sa più neppure come, è corso dentro, ha visto la sagoma, il braccio alzato, lei inerme. Lei, senza difese. Che non reagiva all’autorità paterna. Che non accennava ad un gesto. E il loro bambino. È stato un attimo.

“Non lo fate!”

Gli si è scagliato contro, gli ha bloccato le braccia, è riuscito a fermarlo, travolgendolo, sbalzandolo contro la finestra.

“Non vi permetterò di ucciderla!”

Cade a terra, la spada. Rimbomba, il metallo. Stride.

I vetri rimbombano contro l’intelaiatura. Fragili. Freddi. Carichi di pioggia e tensione. Si apre una crepa.

 

“Stai bene?”, le domanda, mentre riprende fiato. “è tutto a posto?”

Quasi non ha voce per rispondere, Oscar.

Si è alzata. A fatica, le gambe bloccate. Perché, si domanda, attonita, delusa, rabbiosa, perché non è riuscita a reagire? Perché non ha tentato di difendersi? Perché è riuscita ad opporre solo una sorta di resistenza passiva? Non ritiene davvero di avere nessun valore, di fronte a quel padre? Non dovrebbe desiderare proteggere suo figlio? Da tutto, anche da lui? Non conta niente l’idea del dolore che André proverebbe, perdendola? E perdendo il bambino? Quasi non osa respirare, fare un passo.

Perché, Oscar, cos’è che non osi? Non è più importante André, di lui? Sei sincera quando gli giuri di amarlo? Quando lo dici a te stessa? Come puoi restare a guardare, mentre vi distrugge?

Oscar, come puoi?

Osserva, come da una distanza infinita, la lotta tra il padre e lui, che, nonostante tutto, trattiene le forze. Invece, il generale esplode di violenza.

È un attimo. Ha raccolto la spada del padre e ora la stringe in mano. Anche se prova ribrezzo all’idea del contatto sia pure indiretto. E ha paura. Ma non sa chiarire se sia paura di fare un gesto contro il generale o paura di perdere André, quello che loro due sono, il loro futuro.

 

Si fa di fianco ai due. Sei impazzita, Oscar? Davvero vuoi permettere che continui ad annientarvi?

 

Ora lui ha sollevato una pistola, armata. E la sta puntando contro il generale. Non l’avrebbe neppure capito, se suo padre non si fosse fermato all’improvviso, sorpreso dalla pressione della canna contro il corpo.

“E magari, vorresti sposarla, non è vero…” suona il disprezzo nella voce potente.

E Oscar ha un moto di ribellione, a quel padre che la considera come una proprietà. In definitiva, come un oggetto. Non era, non era diversa da una figlia femmina: le femmine si allocano strategicamente tramite matrimoni e doti lesinate, i maschi – lei, in questo caso – si piazzano in cariche strategiche. Tutto, nell’interesse del casato. Lei è l’ennesima pedina di quel gioco infame e André anche, condannato a seguirla da sempre. Serra l’elsa nel pugno. Solleva il braccio.

Tace solo un attimo, André.

Poi “L’ho già sposata”, affonda. Gli piacerebbe rovesciare il soggetto, dire che è lei ad aver sposato lui e non metterla in quel modo, che pare una questione di possesso, ma un’arma carica in mano non è uno scherzo, soprattutto di fronte ad un soggetto notoriamente irascibile.

 

Avrebbe un moto d’orgoglio e d’affetto, Oscar, e noterebbe quel profilo, se l’inaudita reazione del generale non si rovesciasse impetuosa su André: uno schiaffo improvviso, violentissimo, poi una massa di colpi scomposti, rabbiosi, che lo disarmano, mentre il padrone urla che vuole ucciderlo, lui, il traditore, e la pistola cade, slitta sul pavimento, in un rumore secco d’avorio e metallo. E Oscar assiste paralizzata, ma in uno sprazzo di lucidità, lenta, cauta, silenziosa, la recupera.

André, colpito, piegato a terra, non vede, cerca a tentoni un appoggio, lo trova. Inciampa, la mano scivola, mentre Oscar cerca di proteggerlo dalla violenza del generale. “Lasciatelo stare!” Sembra riscuotersi.

“Riparati”, la supplica.

Si rialza. Stringe gli occhi, spera passi. Calmo, si dice, adesso torna… adesso torna… muoviti lentamente… piano… Oscar gli è vicina. “Stai bene?”

Annuisce. Fa per allontanarla. “Non toccatela mai più!” La voce risuona, ferma, mentre fronteggia il generale. “Aspetta un bambino…”

Sembra stupito, il padre, ma è giusto un attimo. La rabbia, l’ira, sovrastano tutto, tra le grida di vendetta. Lo colpisce senza pietà, ma André resta saldo, non arretra. “Vi distruggo! Mi avete disonorato!” Folle di gelosia e delusione. I piani in fumo, il buon nome, le cariche, le strategie.

Ma, stavolta, Oscar si difende. Difende lui. Loro.

Brandisce la spada. “Fermatevi! Non lo toccate!”

“Non osare!” Cerca di colpirla.

“Non vi muovete.”

Monta, la rabbia del generale. “Farò annullare il matrimonio! Tu non puoi decidere!”

“Silenzio! Non voglio sentire una parola!” Alza la guardia, lei, la lama puntata contro il petto del padre. Allunga piano la sinistra verso André, sperando lui intuisca il gesto.

Sente la punta delle sue dita. Gli passa la pistola. E ricorda che sono gelate. Come le sue.

“Tu!”, si rivolge ad André, impazzito. “Ti farò arrestare!!! Non la vedrai mai più! E tu”, rivolto ad Oscar, ora, “non avrai mai la tutela su tuo figlio! Te lo farò togliere”, minaccia, preda di un delirio lucido. Spietato. “Lo crescerò come se fosse mio!!!”

“No”. Non alza la voce, Oscar. Non ne ha bisogno. La sua è una determinazione che non nasce dalla violenza, ma dalla consapevolezza. “Non lo farete.”

Stringe l’impugnatura tra le dita. Pesa, la spada, e lei è stanca.

Fa un passo.

Ma lui non può saperlo.

Lo incalza verso il vetro, André in piedi dietro di lei. Lei affonda la spada, André alza la mira. Insieme. All’unisono. E inciampa, il generale, travolto, piombando contro la finestra, in uno schianto secco, frammenti di vetro tutt’attorno che brillano di un rumore dissonante tra le gocce di pioggia, barcollando pericolosamente all’indietro.

Lo sovrastano, ora. Lui è sul balconcino, le mani strette sul parapetto, il respiro affannato e rabbioso, a cercare di bilanciare il peso.

Non cessa l’odio nel suo sguardo. Neppure la follia. Ha paura, Oscar. Di quello che può farle. A lui, a loro. Di non potersi difendere. Di poterlo uccidere. Di non riuscire ad ammazzarlo.

In una manciata di istanti immagina che basterebbe una pressione appena più forte. Immagina, teme, sogna, di vederlo precipitare. Non è più la scena che ha di fronte, ma quella che la mente ricostruisce.

Poi, nel silenzio rotto solo dai respiri, sente un tocco.

 

La mano di André si serra sull’avambraccio di Oscar.

Poi, scambia con lei uno sguardo risoluto, grave. Sembra aver intuito i suoi pensieri. Forse, non sa dirlo, li condivide.

“No”, dice soltanto. Piano. Chiaro. “No”, ripete, guardando di fronte a sé. Vede un mostro, considera tra sé, non un padre. Loro due non si abbasseranno al suo livello.

Stringe un po’ di più le dita attorno al braccio di lei. Vorrebbe saperle comunicare calore, attraverso la stoffa, non l’ennesimo ordine. Vorrebbe solo dirle di buttarsi alle spalle tutto quel male, tutto quel dolore. Che per loro due sarà diverso. Forse noi… riusciremo a vivere in un mondo migliore…

E lei si placa.

Restano lì, a fronteggiarsi. L’odio puro, l’orgoglio tradito, il narcisismo di un genitore-padrone e due esseri che si amano senza clamore, con rispetto e tenerezza e ardore.

Un passo avanti.

Un altro ancora.

“Peccato…”, commenta Oscar, buttandogli accanto la spada. Uno sguardo di disprezzo totale. E di tristezza. “Una buona occasione sprecata…”

 

Un padre che tenta di ucciderti.

Che vorrebbe soffocare te, le tue idee.

E, invece, scatta qualcosa, la reazione. La molla che ti spinge a vivere. A voler tentare di vivere.

Nonostante lui. Nonostante la malattia.

Nonostante tutto.

 

“André…” Poi, non riesce a dire.

“Sì…” Mentre la stringe, forte, dopo l’amore.

“Che succederà, ora…”

Sente lo spavento nella sua voce. Un dolore sordo, dentro, alla consapevolezza di non riuscire, in nessun modo, ad esserle d’aiuto, sollievo. Le bacia, piano, i capelli.

Si alza a sedere, mentre le lenzuola scivolano. Si porta una mano ai capelli. “Voglio dire… se un padre dà un esempio di questo genere… io, io cosa posso sperare di dare a un bambino…” Si volta verso di lui. “Farò i suoi stessi errori?” E gli sembra disperata.

Le stringe le spalle. E, per la prima volta, gli sembrano fragili. Allora, l’abbraccia. Forte. Come a proteggerla anche da se stessa. Poi, piano, “Oscar, tu non sei come lui…” cerca di cullarla, con le parole. La voce dolce. “Non sei lui…”

Come una speranza che si riaccende, minima, infinitesimale. Alza su di lui occhi disperati. Incontra una luce lontana. E sente come spegnersi.

“Come faremo…” e vorrebbe piangere. Cerca rifugio in lui.

Come posso dirglielo… “André… se… se mi succede qualcosa, lo proteggerai? Mi prometti che lo proteggerai?”

È come un colpo in pieno petto. Improvviso. Letale. No! Oscar, non tu, dio mio! Si porta le mani ai capelli, al viso. Il respiro bloccato.

Le stringe il braccio. “Se non stai bene, voglio che andiamo dal medico e che ti curi.” La voce suona sicura, seria. Lui, dentro, si sente morire. Ma se è arrivata a dirgli così, sa che è l’unica certezza di cui lei ha bisogno. Che lui non cederà. “Hai capito?” Mentre si stupisce di ragionare con tanta freddezza.

“No… non è sicuro…”

“Cosa ti ha detto?” L’ansia nella voce. “Che ti ha detto? Quando ci sei stata?” La presa si fa più febbrile. La ragione e il terrore si combattono, la voce sembra rompersi, a tratti, il respiro faticare ad uscire.

“Scusami…”, mente. “Stai tranquillo, non volevo spaventarti… è solo… quello che è successo… non puoi non pensarci… Se mette le mani su nostro figlio…”

Resta ad ascoltarla, sospeso. “Non glielo permetteremo. Stai tranquilla. Ma non mentirmi. Dimmi perché sei stata dal medico e che ti ha detto.”

“No, no… stai tranquillo, era una semplice visita di controllo.” Lui sembra respirare più liberamente.[1] Sembra crederci. “Ha detto che sono debole, che dovrei andare via, ma posso farcela. Ha detto così…” più o meno, ricorda…

“Voglio che tu chieda il congedo.”

“Ma…”

“No. Niente ma.”

 

“Oscar… io voglio che tu viva. Ti porto via. E tu vivrai.”

 

Tu sei la vita che volevo.[2]

 

Pare concederle una tregua, la malattia. Si sente più forte, in questi giorni di pioggia. Si domanda se sia l’ennesimo inganno crudele, o se si possa, in qualche modo, sperare. Poi, smette di pensarci.

Vive.[3]

 

È firmato, il congedo.

Non è stato facile, anche se non c’era scelta, richiederlo. Scrivere quelle righe, anche con le consuete formule rituali a guidarla. Firmarle. Asciugare il foglio e sigillare la ceralacca. Aveva il respiro tagliato e l’emozione che le faceva tremare le mani, così ha dovuto ricominciare tre volte. Ma non si è sottratta. Forse, l’avrebbe fatto comunque, ma la determinazione di André è stata fondamentale. Basta prendersi in giro. Ora, bisogna lottare. Lottare davvero. Per vivere.

Si è sentita come privata di qualcosa, quando è arrivata la notizia dell’accettazione. Poi, dopo, come finalmente libera. Sciolta. È rimasta quasi delusa nel leggere quelle frasi formali ed impersonali, quasi s’aspettasse qualcosa di diverso, dopo una vicenda, umana e personale, di vent’anni.

Eppure, è lì, il foglio, e le tremano le dita mentre quasi non riesce a piegarlo, e subito corre da lui, perché lo sappia. E volino via, lontano.

 

Ma è un alternarsi sommesso e insistente di voci, quello che l’accoglie. I soldati assiepati, altri che hanno preferito isolarsi e se ne stanno appoggiati al muro, seduti, attoniti. E lui si volta, pallido in viso, serio.

È Alain a parlare. “Comandante, l’ordine di intervento è arrivato.”

E lei si sente morire.

 

Gli passa il foglio nelle mani gelate. Le sue tremano. Come la voce. “è arrivato… ma…”

Annuisce, lui. Poi, sente su di sé lo sguardo di lei. La domanda muta.

Si china su Oscar in una carezza. “Io verrò con te.” Come sempre… ma vorrebbe piangere, perché è la fine del loro sogno, e lui lo sa.

Stringe le dita sulle sue mani. Si abbandona contro di lui. Vorrebbe requie. Ma non è una resa. Giusto la disperazione per radunare le forze. Dio mio… che cosa devo fare… che cosa devo fare…

“I ragazzi si ammutineranno…”

“Lo immaginavo.” Poi, una pausa. “Tu devi restare a casa.”

“Se resti tu… e non credo lo farai. O sbaglio?” La scruta, cercando di intuirne i pensieri. Sente che ha il respiro tagliato.

Lo abbraccia stretto, più forte che mai. “Ti amo. Ti amo, infinitamente. Sempre…”

Poi, staccandosi da lui, una promessa, mentre lo guarda negli occhi e pensa in un brivido che potrebbe essere l’ultima volta che incrocia quello sguardo. “Dopo questa battaglia, ce ne andiamo.”

 

Sì, amore mio, andiamo via. È come un furore inspiegabile, la disperazione. Non si domanda più come sarà, dopo. Non ha più dubbi. Ora il destino incombe e lui pensa soltanto che vorrebbe fosse già finita. E che stavolta, davvero, partiranno, andranno via, lontano, per non tornare. Non la lascerà mentire, né fuggire.

Però…

Ho paura. Come se la morte, bellissima e altera, suo doppio e sua ombra, stesse per avvolgerlo nelle sue bende diafane. Come se, improvvisamente, si stesse rendendo conto di dibattersi inutilmente, affannarsi a vivere, mentre tutto è già deciso.[4]

 

L’ha amata senza riserve, stanotte più di ogni altra.

Come in un cercare infinito.

Non la vede quasi più, ma non vuole pensarci, stanotte che la luna incerta li nasconde e forse avranno, anche loro, un futuro[5]

 

Fine.

 

Epilogo.

 

Si è svegliato come cieco.

Un abisso oscuro. Denso e insieme vuoto. Era gelato dalla paura. Ma non gliel’ha detto.

Alzandosi, cercando con la mano, ha sfiorato il libro, abbandonato la sera prima sul comodino. E ha pensato che non avrebbe potuto terminarlo. E a tutte le cose che non potrà più fare.

Ma ha lei. E averla è tutto. Quasi.

Ha paura. Ora ha una paura netta, che si aggiunge all’ansia che prova, per quello che li attende oggi, il giorno dell’intervento, il 12 luglio. Ha paura. Ma lei lo salva.

E poi, in certi momenti, gli pare ancora di vedere.

 

L’ho svegliato io, quella mattina.

Addormentato, aveva un’aria da bambino soddisfatto, così, aggrovigliato nelle coperte. Anche di luglio. E non avrei mai voluto interrompere quella pace, il suo viso sereno. Eppure, ogni volta, ero egoisticamente felice di osservarlo aprire gli occhi su di me. e illuminarsi. Come se davvero fossi il sole.

Ogni mattino mi ripetevo che dovevamo andare avanti, e non mollare.

Ogni singolo mattino ho costruito il nostro inganno.

Ogni volta che avrei dovuto lasciarlo riposare, perché sapevo quanto era stanco. E io con lui.

Ma tessevo la trama. E l’inganno. E, a poco a poco, lo condannavo.[6]

 

Lo prese da parte, quella mattina maledetta. Prima di uscire dalla caserma. Quasi brusco. Difficile mantenere normale il tono della voce. Difficile quello che c’è da dire. “Se mi succede qualcosa…” Come un presentimento.

“Ma cosa dici…” Quasi vorrebbe ridere. Ma è gelato.

Lo trattiene per un braccio. Determinato. “Promettimi che le starai vicino.”

“Non scherzare!”

“Promettimelo.”

 

Quella mattina, la morte soffia su di lui.[7]

 

“È tutto buio… ho paura, Alain… portami via…”

 

Lo sa che non vede? Lo sa che non vede più?

Non sa rispondersi, Alain.

E, la paura che gli serra la gola, la guarda, di spalle, tremare, accanto a lui, disteso, un mare di sangue, non riescono a fermare l’emorragia e lui, sempre più debole.

 

L’ho svegliato io, questa mattina… se solo l’avessi lasciato dormire…

Se solo mi fossi chiusa la porta alle spalle, senza portarlo con me. senza chiedergli, ogni volta, di essere insieme. Sempre…

 

Ho freddo, Oscar… Quasi il respiro fa male. Gela, dentro. Come se il cuore non potesse più. Non lo reggesse più. Non avrebbe mai immaginato di sentirsi così. Dev’essere così, morire. Finire…[8]

 

È tutto buio. Non si rende neppure conto di dove si trovi.

Fa così freddo. Forse, è sera. È strano avere i brividi d’estate…

Si è sentito debole, prima.

Ogni tanto, sente il battito d’ala dei piccioni. Ma sono pensieri scomposti. È faticoso anche percepirli, tra i respiri che tentano di resistere, figuriamoci ricomporli in una logica…

Poi, solo dopo, ha sentito il dolore dello schianto. Piegarlo. Vincerlo.

Spezzargli qualcosa, dentro.

Avrebbe voluto correre da lei. Ma il corpo non rispondeva più. Neanche due passi. Neanche trascinare le gambe.

E la voce, solo un lamento flebile.

Non sa altro.

Non l’ha sentita urlare.

Tutto era già nero e il resto si è confuso nel buio delle parole e dei sensi.

Però ora la sente. Sente la sua voce tremare. Sente il viso di lei così vicino. Tanto vicino che, se allungasse una mano, potrebbe toccarla.

E prova, a tendere le dita. Uno sforzo sovrumano per un cuore spaccato.

Ma arriva lei, lo aiuta, porta lei, tra le sue, il peso di quelle dita.

Un sospiro. E forse lei non si rende conto. Di quanto sia debole. Di quanto sia vicino al niente. Di quanto aiuto gli abbia dato sostenendo la mano tra le sue.

Ma, di nuovo, gli spacca il cuore, perché in questa estate di fuoco, le mani sono fredde, e le lacrime lo bruciano, mentre già scorrono via.

“Non piangere…” quasi un sussurro.

Scuote la testa.

Ma lui non può vederla.

E lei non può saperlo.

“Perché stai piangendo…”

E non vorrebbe lasciare le sue mani, ma non ha altro modo. È come un addio, tra le loro dita, e la percezione di fresco dov’erano le lacrime, e di vuoto, dove toccava la pelle di lei. Ora. Anche ieri. Con la memoria di una vita. In un giorno. Quando un attimo basta. A creare. A morire.

“Perché stai piangendo… perché…” E, nel momento dell’abbandono di tutto, è a lei, sola, che si rivolge. Non sente più niente. Né le voci di prima, niente. “Perché c’è silenzio… Sento solo i piccioni che volano in alto… per trascorrere la notte…” Solo a lei domanda. Il resto, dopo essersi fatto buio, si è fatto silenzio. E comincia a non esistere più. Soltanto lei, rimane. È.

 

Le dita, deboli, descrivono quel viso.

Sentono quella pelle dolce.

Un sorriso. “Sei così bella…”

E le asciugano le lacrime. “Perché… stai piangendo…”

 

E vorrebbe avere la forza per una carezza a lui. Sentirlo ancora una volta. In lei. Ma non ha più forze.

Non mi lasciare, amore…

Ed è lei, ad intuire quel pensiero. Il silenzio riservato di lui, di fronte agli altri, quello scarto impercettibile della mano. E lo guida su di sé, nascondendosi a tutti. I capelli che forse li occultano, e il piegarsi, a proteggere quel gesto. E lui lascia andare un sorriso. Pallido. Lo sguardo lontano.

 

Respira sempre più a fatica. Quasi non riesce a parlare.

 

Gli stringe forte la mano, e lui quasi non ha più percezione nel tatto, mentre pare non voler capire il senso di quegli occhi appannati. Lo sa, forse, gliel’ha detto, la notte prima. E le altre volte, i dubbi. Ma non sembra ancora in grado di capire. O di poter credere che sia già accaduto.

In quei pochi istanti in cui non sono stati insieme.

Come quella pallottola che l’ha raggiunto. Anche quella, è stata questione di un istante. E lei, lì, c’era. E non ha saputo difenderlo.

Ma lui l’ha seguita. Come sempre.

E si aggrappa a quelle parole, che crede di udire “Non posso morire adesso…” Devi crederci, pare dire. Ma non ha più parole.

 

E lei vorrebbe non comprenderlo mai. Ma il momento in cui se ne rende conto, è il più terribile.

Quel senso di perdita, di vuoto, che ha sempre temuto, farsi presente, invaderla, totalizzarla. Annientarla.

Sarebbe meglio morire.

Perché le pare che lui possa risponderle ancora, ma è lì, in un inganno. Statico. Finito.

Perduto.

Alla fine della parabola dell’esistenza, quando non c’è il compimento o la perfezione, ma lo scacco. Quando il compimento consiste nella fine.

 

Sa solo che non lo lascerà.

Non lo lascerà solo.

 

Sente il peso immenso di lui caderle addosso. E ora che lui è andato, fa una fatica immane a tenerlo tra le braccia. Eppure, vorrebbe stringerlo a sé.

Non vorrebbe lasciarlo andare, ma non lo regge.

Cerca di accompagnarlo, non vuole fargli altro male. E non vuole pensare che lui non senta più niente. Neppure il dolore. Almeno, ora, niente più può fargli male.

E ripensa, invece, che lui avrebbe voluto vivere. E finire quel libro, sul comodino, che aveva letto, avido, fino alla sera prima. Attento, concentrato. Alla luce che pareva non bastare mai.

Non saprà mai come termina…

Il libro…

E al resto…

Dio, vorrebbe morire. Ora. Abbracciarlo e morire.

La musica… la musica che ti piaceva…

Le cose che amavi…

Niente… più niente…

È terribile, amore, la vita. È terribile…

L’entusiasmo che ti illuminava di fronte ad una sorpresa. La tua gentilezza. Quei gesti delicati, sobri…

È tutto finito. Tutto.

 

Lo tempesta di pugni, attonita e disperata. Solo ora sta cominciando a realizzare.

“Perché non me l’hai detto???!”

Lui non sa che rispondere.

“Perché?!”

Non c’è davvero stato il tempo.

“Maledetto!!! L’avremmo salvato!!!”

La voce rotta. “Lo capisci?!?”

 

 

Non c’è molto altro da fare.

Armare i colpi. Comandare. Finire.

Sente una strana calma, ora che ha deciso.

In fondo, l’ha sempre saputo.

 

Oscar, piegata in due dai colpi di tosse, colpita di striscio, vacillò. Si domandò se si fosse finalmente spezzata quella strana immunità. Di nuovo, i colpi si rovesciarono attorno a lei, che sembrava aspettarli, ma la mancarono. Mentre Alain la sorreggeva, le parve di vedere André comandare i cannoni al suo posto, la spada sguainata.

 

“Amore, amore mio…” Si sentì struggere dalla tenerezza e dal dolore. Lui era accanto a lei, la aiutava. Eppure, pareva lontano.

 

Non volle vedere la folla rovesciarsi sulla preda. Irrompere nella fortezza. Uccidere come bestie.

Non era per quello che aveva lottato. Non era per questo che lui era morto.

 

Le lettere che gli aveva scritto. Era tutto finito.[9]

Tutto.

Se, fino ad allora, aveva sperato di poter rimediare ad i suoi errori, ormai non era più possibile. La sua morte veniva a significare con troppa chiarezza, alla sua mente, che lei non aveva saputo imporsi, non aveva saputo fermarlo, non aveva saputo proteggerlo. Non aveva saputo neppure, quel giorno, in quella azione militare, prevedere che lui sarebbe stato più esposto degli altri, proprio per la sua impossibilità di difendersi, non potendo vedere più. Non aveva indovinato che l’avrebbe seguita comunque. Quello era il suo ennesimo errore. L’ultimo. Un errore irrimediabile. Perché lui non c'era più. Non avrebbe più avuto modo di riparare, di fare quello che, da tempo, avrebbe dovuto fare, impedirgli di esporsi ai rischi, convincerlo a lasciare quel lavoro o, finalmente, partire, lontano, e inseguire la loro vita. Ormai lui non c'era più. Non avrebbe più sentito la sua voce, la sua pelle calda… niente, più niente. E il pensiero che di lui non esistessero più quei segni che, invece, erano stati lui, la distruggeva. E la responsabilità era la sua. Era sempre stata la sua. Ma, in altre occasioni, l'aveva scampata. Stavolta, no.

 

Si era fatta raccontare da Alain…

 

Guardava per l'ultima volta quelle case, attorno a sé, l'incrocio di strade che la riportavano verso la chiesetta vicina a place Louis XV. Spuntava il sole, quel giorno, tra i fumi densi delle cannonate. Che strano contrasto col suo animo finito, col suo dolore, duro come una pietra.

E vivere quelle ore senza di lui, una tortura indicibile. Giusto per poterlo ancora ricordare. E compiere il suo ultimo dovere.

Io non voglio vivere in un mondo in cui non ci sei più…

Perdonami. Non me la sento.

Non voglio più stare sola.

Neanche col pensiero del nostro bambino – un altro orfano. E io, senza di te, ancora. Per una vita ancora.[10]

No.

No.

Perdonami, ma non posso.

Entrò. Era ancora là. Gli si avvicinò.

Non avrebbe voluto doverlo vedere, così. Eppure, sentiva di non volerlo lasciare solo ancora una volta.

Aveva gli occhi gonfi di lacrime. Stringeva nella mano la lettera che gli aveva invitato durante la missione, tanti anni prima… quella stessa lettera che André teneva sempre con sé e che aveva portato fino all'ultimo, macchiata del suo sangue. Dopo, gliel'aveva presa lei, un oggetto prezioso che lui aveva conservato, per conservare con sé qualcosa di lui. "è l'una di notte",[11] cominciava. Poi, le lacrime le confusero le lettere. Si piegò su di lui, baciandolo, bagnandogli il viso e l'uniforme di un dolore che lui non avrebbe percepito. Mai più. Ora, gliel'avrebbe resa. Passò il foglio nelle mani fredde di lui, sfiorandole ancora una volta. L'ultima. Doveva trovare il coraggio di farlo. Di farlo, ma, prima, di staccarsi da quell'ultima sensazione di lui. E, d'altronde, che altro restava, ora che lui non c'era più… Era lì, immobile, muto, un corpo che non rispondeva più e che già si trasformava. Era lui. Era stato lui. Ma era così distante, freddo, inanimato. Era ciò che era stato lui. Che ne rimaneva, ora? Ormai solo i suoi ricordi. In quelli, annebbiati dalla disperazione, lui era vivo, illuminato da tutti i colori della vita.

E anche quelli, presto…

Si sfiorò con la mano, in un gesto timido, indugiato, rubato, nell’imbarazzo. Addio, piccolo… Disperata.

Non ebbe nessun dubbio su ciò che avrebbe fatto. Nessuno. La scelta, in realtà, neppure si poneva. Sarebbe potuta annegare di ricordi, ma non voleva vivere nel dolore. E nell’assenza. Se lui non c’era più, allora…

Accostò ancora il viso al suo, gli sfiorò le guance con le sue. Dov'era quella pelle come il velluto che conosceva? Dov'era il suo calore? Gli scostò i capelli con amore. Glieli aveva sistemati lei, sulla ferita. Non aveva lasciato che lo facessero altri. Anche lei, a modo suo, aveva cercato di proteggerlo. Ancora. Si domandò se lui avesse mai pensato al dopo. A cosa ne sarebbe stato, di lei. A come si sarebbe sentita. O se aveva capito. E sapeva già. Strinse ancora una volta quelle mani nelle sue. Cercò di prendere coraggio. Ma non fu il coraggio, fu la disperazione ad aiutarla.

E, mentre Alain apriva la busta che gli aveva consegnato e leggeva il contenuto, mentre capiva, mentre si rendeva conto che era troppo tardi per salvarla, Oscar armò la pistola e fece fuoco.

"Seppelliteci nello stesso posto, perché lui è mio marito" aveva scritto nel biglietto.

 

Laura, 11-13 luglio 2006, dicembre 2001-gennaio 2002, estate 2004, ottobre 2005-maggio luglio 2006, ultime aggiunte e revisioni 3 novembre 2006, 5-9 dicembre 2006.

 

Il finale di BK’s Night, un racconto iniziato nel dicembre 1999, quando scrissi i primi due episodi, è nato, salvo alcuni cambiamenti minimali e le solite mie revisioni infinite, nel dicembre 2001-gennaio 2002. La stesura, ad eccezione di brevi righe e passaggi, è rimasta immutata. Elisa lo lesse in anteprima a casa mia, sul mio notebook, nel gennaio 2002, lo lesse Fiammetta. Nella tarda primavera del 2002 lo inviai ad Alessandra, che, per email, mi disse che la lettura le aveva mosso qualcosa dentro e che le aveva ispirato Liberaci dal male. Dopo gli episodi pubblicati nel 2002 c’è stata una battuta d’arresto, sia per circostanze personali e familiari, sia per questioni legate ad alcuni testi e spunti che avrei voluto mettere nel racconto. Era l’episodio 13, di cui nel 2002 Alessandra scrisse un parallelo ipotetico e di cui, nell’autunno 2005, l’ha scritto anche Luana. Alcuni lettori, addirittura, nel 2002, scambiarono il parallelo ipotetico di Alessandra per il finale della storia LOL. La successiva stesura è proceduta come va poi la vita vera delle persone troppo pensose, a volte lenta, faticosa, a volte come fosse un fiume in piena, come una necessità. Si stratificava, assieme alle idee. Brani e ricordi del 2002 si sommavano a scritti ed appunti del 2004. Nella prima estate 2005 ho lavorato furiosamente al testo, la notte, nonostante i crash del notebook e, anzi, avevo quasi dimenticato nel server dei brani di quel periodo, vissuto lottando per ritagliarmi il tempo per lavorare ai testi. E, nell’autunno 2005, ho ripreso i lavori, assieme a quelli di Christine e, poco tempo dopo, assieme allo spin-off Alternate BKs Night, che attendeva una stesura sin dai primi due nuclei, il primo nato proprio da una possibile interpretazione di una frase volutamente ambigua di BK’s Night del 1999, il secondo da idee sparse del 2000, formalizzati solo in un paio di email, la prima del 2000, e la seconda, del 2002, ad Alessandra.

Mi spaventava, riprendendo i lavori, l’idea di finire questo scritto. E, con le idee molto chiare anche sugli altri due, anche il non avere altro da scrivere, dopo. Eppure, altre cose c’erano, anche da anni, alcune scritte, altre solo a livello di idee, altre i cui brani sono confluiti nella parte finale di BK. A lungo ho creduto che questi tre sarebbero stati i miei ultimi scritti. Ora, piano piano, vedremo cosa fare di Inutile (un titolo, un programma!!! LOL), Arras, La guerra è finita, L’ultimo autunno.

Ringrazio le numerose proof-reader e le traduttrici (perse per strada… ^_-;). Avere qualcuno con cui scambiare i testi e che non cercasse di violare le mie idee è sempre stato molto stimolante. Le proof che hanno seguito l’ultima fase di stesura dall’autunno 2005, poverine, si sono beccate le mie innumeri revisioni, hanno dato opinioni, alcune tra loro si sono immedesimate – i nostri commenti potrebbero riempire dei blog –, e tutto questo mi ha fatto sentire meno sola, in questo lavoro, e spesso, con la semplice idea che avrebbero letto quello che buttavo giù, mi ha dato forza. Vorrei concludere citando alcune linee che sono risuonate costantemente nella mia mente, mentre scrivevo, per quello che mi sapevano evocare.

 

Eri bella, lo so, e che bella che sei, dicon tanto un silenzio e uno sguardo

Non parlare non dire più niente se puoi,

lascia farlo ai tuoi occhi alle mani

F. GUCCINI, Canzone delle domande consuete

 

Si può immaginare d'essere bambini

anche quando il tempo scappa dalle mani

continuare insieme tutta un'altra vita

anche quando questa poi sarà finita

R. COCCIANTE, Quando si vuole bene.

 

Almeno, a noi, resta il sogno.                                                  Laura, dicembre 1999 - dicembre 2006


 

Laura, 2002, 2004, estate 2005, autunno-inverno 2005, gennaio-novembre 2006, Pubblicazione sul sito Little Corner del dicembre 2006.

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

 

Fine

Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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[1] Qui cito proprio dal Romanzo di Lady Oscar, di M. Migliavacca, scena della dichiarazione. Ma cito a memoria. J

[2] RUGGERI, Primavera a Sarajevo, che mi evoca ricordi lontani e più recenti, e persone.

[3] Aggiunta del 3-11-2006.

[4] Un’idea presa dalla coreografia di Rhéda del Roméo & Juliette di Présgurvic. Una delle poche cose che ho apprezzato, anche per la ballerina.

[5] Aggiunta da sms 3-11-2006.

[6] Aggiunta dal luglio 2006, periodo successivo 7-11-2006.

[7] Sempre Roméo & Juliette di Présgurvic.

[8] Appunto sms dell’ottobre 2006 e trascritto il 17 ottobre 2006, dopo un periodo molto difficile.

[9] Finale scritto nel dicembre 2001-gennaio 2002.

[10] Omaggio a Fanny, tra le mie autrici preferite.

[11] Citazione da una lettera di Napoleone a Giuseppina.