BK's Night

 Parte XIX

Warning!!!

 

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Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

 

Oggi, sono due anni che ti hanno ferito.

Un brivido, al pensiero.

Dolore. E, ancora, rabbia. A stento trattenuta.

Lui pare non ricordarlo. Le è sembrato ancora più bello, una visione struggente, il cuore che vola, un attimo, e quasi dimentica il rancore, mentre ricompariva in camera, ad asciugare il corpo bagnato.

 

L’inverno è stato terribile.

 

È di là, lui. Vorrebbe raggiungerlo, sono rarissimi i momenti che riescono a passare insieme.

Ma resta lì, piegata, sul letto, che nemmeno riesce a muoversi. E parla con se stessa, rabbiosa, a farsi forza, ma non serve. Non serve, quando il corpo è devastato. Quando la malattia ce l’hai dentro e ti divora senza scampo. E tu non hai certezze, ma quell’unica sì.

Oltre all’amore. Sempre.

Ma una malattia lo distrugge. Lo annienta. Assieme al tuo corpo. Assieme a te.

Tu sei quel cuore. Quell’anima. Quella mente. Tu sei quel corpo. Quell’insieme di sentimenti. Quella voce. Quegli occhi. Tu sei quella che prova qualcosa che finirà con te. Senza lasciare altra traccia, se non nel ricordo di qualcuno. Forse.

La malattia ti stanca di vivere. Per quanto lo desideri. Per quanto ami lui e non voglia lasciarlo. Ti fa desiderare che il dolore smetta. Ma, perché possa smettere, devi cessare tu.

E allora non resta più niente.

 

“Che cosa sta combinando?”

Una domanda, a bruciapelo, ad Alain. Perché a lui non può farla. Eppure, forse, lo salverebbe.

Poi, più chiara, a quegli occhi che la sfiorano, sorpresi, taglienti. “Come sta?”

Si appoggia alla spalletta. “Perché non lo domandi a lui”, temporeggia.

Poi, la sorprende, in quel gesto che le scosta i capelli dal colletto: “E tu, comandante, come stai?” E sembra una carezza.

Mentre fugge, senza aver risposto, una scia di sensazioni e domande e dubbi, prontamente censurati – abitudine di una vita.[1]

 

Alain dice che lei è pallida.

Ho una paura fottuta. Di questa gente che ci manda al massacro. Che gioca con la vita di chi ha così poco. Che non fa niente per il popolo. Ho paura. Per te e per me.

Vorrei svegliarmi ancora, con te, in una di quelle locande dei nostri piccoli viaggi, delle nostre fughe. In un giorno incerto, in un viaggio rubato fuori stagione, quando le nuvole coprono quello che avrebbe dovuto essere un cielo azzurro di sole – e poi tanto io non lo vedo, ma tu sì, mio amore… – e, poi, tutta la nostra vita, non è stata fuori stagione?

Un sorriso triste e caldo gli stira le labbra. È pallido, oggi. Le guance sono scavate. I capelli, che ha accorciato da poco, si appiccicano lungo lo zigomo sinistro e coprono quell’orrore.

Oscar gli ha detto che sembra più giovane, coi capelli tagliati. E lui, chissà, ha sorriso, quasi orgoglioso, di quel complimento. Ma era un complimento? Magari un’osservazione… chissà… – lui allo specchio non s’è visto e, anche prima, tendeva a non guardarsi più[2] – per un più che trentenne ancora innamorato, pieno di buone intenzioni – sessualmente parlando – ma senza più le energie di un ventenne affamato… e sì che di fame atavica avrebbe dovuto averne di scorta per altri cent’anni. Almeno.

Gli viene da ridere, ora… Si volta a mezzo, seminascosto dalla colonna. Ci si appoggia. Che diavolo ti viene in mente, Grandier… sei andato… l’età, l’alcool, le donne – la donna, si corregge –, ti hanno fuso. Definitivamente.

Ha le mani gelate e con le dita fredde stringe il fucile. È un attendente, ma preferisce stare lì, coi soldati. Lì non si sente fuori posto. O inutile.

Quelle dita, che, l’altro giorno, scorrevano calde e impazienti su di lei. In lei. E lei, anche lei, bruciava. E pareva quasi senza forze. Lei, che nell’amore era così forte. E straordinariamente egoista e generosa. Eppure, pareva naufragata chissà dove, lontana, come perduta.

Dove sei, amore mio…

 

Dove sei, amore…

Mi sento bruciare dentro. Sono stanca. Non ce la faccio più.

Non ho più forze.

Non sempre, perlomeno… è così, quando il corpo ti tradisce.

Ti prego, andiamocene via… andiamocene via, al nostro posto in riva al fiume, non appena questa pioggia sarà finita…

Ti prego, amore, salvami.

Portami via.

Non firmare la mia condanna a morte. E, anche, la tua.

Sii saggio. Di noi due, almeno tu.

È una vita che non ha più senso. E non so neanche quanto tempo mi resti, ma non è così che voglio finire… andiamo via. Non tenermi legata qui, non è più questo il mio posto. Né il tuo.

Non facciamo più il loro gioco, ti prego.

Le dita pallide lasciano una debole scia sull’appanno dei vetri, mentre ora si contraggono sulla fronte bruciante, tra i riccioli madidi, e lei, lì, raggomitolata contro la parete, senza più forze. I fogli sparsi sul pavimento, una macchia d’inchiostro seppia che si spande lentamente.[3]

Non è color sangue, si sorprende. Un sorriso disperato.

Trema dal freddo, sotto i vestiti zuppi di sudore. Sotto la pelle, pallida, delle mani, vene azzurre pulsano di febbre.

La stanza è immersa in un’ombra ovattata. Solo il rettangolo della finestra squarcia quel limbo. E il ritmo della pioggia. Si soffoca d’umidità.

Vorrebbe piangere, e non ci riesce. Non sa se le manca la forza di riuscire a farlo, o se sia qualcosa che la blocca, dentro.

Rivede, in quel delirio, la sponda del loro fiume, quella in cui i loro giochi erano le loro guerre… ora che la guerra c’è davvero e si sorprende di come si sia potuti arrivare a tanto.

Andiamo via, André. Io lo so già quello che non vuoi dirmi, che non voglio domandare e che ho il terrore d sentire. Ma dentro di me lo so già… andiamo via, ti racconterò i colori, tutto, e ti aiuterò, ogni giorno, ad andare avanti. O tu aiuterai me, più probabile… Andiamo via, viaggiamo insieme, e lasciamoci dietro questo orrore… abbiamo già buttato troppo delle nostre vite, e non sappiamo neanche quanto ci resti, ancora...

Rimane lì, come uno straccio, a sperare che nessuno la trovi. O, forse, sì. Annientata dal suo stesso corpo. In un tradimento infinito. A cui non avrebbe mai pensato.

Sta lì a rigirare la considerazione che è tutto finito, in quella strana illusione che è la vita. Speranze. Paure. Quei pensieri, subito repressi, di un figlio, con lui. Ed i timori, con tutte le complicazioni. Ora, non ci sarebbe stata più nessuna possibilità per niente. Finito il futuro. E anche il passato e i ricordi, finiranno con lei. E che farà André?

Chi si prenderà cura di lui?

Come farà, solo?

Senza di lei.

André… aiutami…

Appoggia la testa contro il muro umido e freddo. Un braccio davanti agli occhi, rannicchiata anche a se stessa. A quel terrore che le si è rivelato, ora, come se quell’arrovellarsi di pensieri terribili non fosse già abbastanza.

E, ora, sì, riesce a piangere. Al pensiero di lui, solo, senza nessun aiuto…

Si preme i palmi delle mani contro gli occhi. Oddio, André…

André, André… aiutami… aiutami…

 

L’ha trovata che bruciava di febbre, Alain. Si era sentita male nella sua stanza. L’ha trovata rannicchiata sul divanetto, avvolta in una coperta militare, che tremava di freddo nonostante il caldo.

“Cosa succede…”

Ha aperto su di lui occhi di dolore infinito. Tristezza. Rimpianto. Quasi non riusciva a parlare. “Niente, solo un po’ di febbre…” Poi, ha notato la sua espressione. “Mi fermo un attimo e passa…” Si è sentita in dovere di continuare.

“Vado… a chiamare André.”

Occhi allarmati, ora. “No. No, per favore…”

Poi: “Dov’è…”

 

Guarda André, quei gesti sempre più incerti, lo sguardo lontano, e non sa cosa fare. Lui sembra ignaro. Stanco, preoccupato, come tutti, per la situazione. Ma sembra non aver notato che lei non sta più bene… si domanda se sia il caso di mettere fine a quel gioco al massacro, in cui uno dei due causerà la fine propria e dell’altro, per troppo amore. Lei non voleva parlasse, ma forse…

Lei vorrebbe poter vivere. Vivere ancora.

Dimenticare tutto, via, lontano. Avere un’altra possibilità e il fegato di non rifare gli stessi errori.

Una nuova pagina.

 

È di fronte a lui. Il cuore le martella nel petto.

“Cosa c’è?”

Lo guarda, e le parole non escono.

Andiamo via… portami via…

China il viso di lato, lui. Stringe un po’ gli occhi, incerto.

Riesce solo a voltargli le spalle, abbandonandosi sfinita contro il muro.

Eppure, vorrebbe che lui l’abbracciasse. Vorrebbe perdersi in lui. Confondersi totalmente in lui. Dimenticare quello che non sono loro due.

 

Abbassa la testa sulla sua spalla. Sente lui, i capelli, la pelle. Il respiro.

“Stai tranquilla…” Se la stringe contro. E pare sconfiggere tutte le sue paure.

 

Quella notte fu straordinaria. E triste. E vivo, vivido, in ogni istante del tempo che poi sarebbe trascorso, ogni attimo di quel vissuto, destinato a farsi ricordo. Ad accrescersi nel dolore della possibilità perduta. A rivivere finché la mente fosse stato in grado di richiamarlo. – Fino, poi, a perdersi. Quando nessuno più l’avrebbe ricordato. Né con rimpianto, né con affetto.

“Il tempo che ho trascorso con te”, gli aveva sussurrato, quella notte, Oscar, “mi è sempre sembrato troppo poco…”

Lui l’aveva stretta più forte. Senza parlare.

“André, voglio un bambino nostro…”

Allora, aveva alzato su di lei gli occhi ormai spenti. In un’espressione piena di vita.

“Io voglio vivere…” è egoismo, lo so, non mi resta altro… non ci resta altro…

Quando la vita si allontana, quando nega la tua esistenza, quello è un estremo atto di ribellione. Di egoismo. Di cieco coraggio. Di follia.

“Ti prego, riempimi di te. Cento, mille volte.” E che questo sia un segno del nostro amore. Che nasca qualcosa da noi… che resti almeno qualcosa, di noi… pensava, mentre lo attraeva sempre più dentro di sé, avvolgendolo in una spira senza scampo.

Avevi avuto ragione tu anche stavolta, André, e solo la mia vigliaccheria mi aveva impedito di ammetterlo fino ad ora. Ora che non c’è scampo. Ora che è troppo tardi. Che persona terribile sono, André… perché hai voluto farti rovinare la vita da me? E, se ti volevo bene, perché ho lasciato che accadesse?

 

“Promettimi che andremo via…”

E gli occhi le brillavano, in una richiesta muta. Portami via. Salvami. Da tutto. Da me stessa.

 

L’aveva guardato con occhi diversi, qualche tempo dopo, sotto la pioggia, davanti alla piazza in cui fervevano i preparativi per la futura sfilata dei deputati, e lei era così stanca. Occhi timidi e pieni di luce, tra le ciocche gocciolanti dei capelli, annegati in quel pantano grigio e freddo, quando gli aveva detto, senza riuscire a trovare le parole, che, sì, forse… E lui, che si era sentito il re cieco del mondo, senza più poter vedere quello sguardo, l’aveva intuito. E aveva pianto, abbracciandola, di amore, orgoglio, tristezza, disperazione, speranza, circondandola di sé e perdendosi in lei. E Alain, dopo, l’aveva trovato stranamente commosso ed euforico. Perché, nonostante tutto, io vivrò…[4]

 

È stanca da morire.

Vorrebbe solo andare via.

“Dove”, le ha domandato André, giocando coi suoi capelli mentre lei gli si accoccolava tra le braccia.

“Ad Arras…”

Aveva annuito, lui.

“Poi…” in un sorriso, tanto sapeva bene che sarebbe rimasto solo un sogno, eppure… “poi… in Bretagna… e in Normandia… con te” aveva precisato. Stavolta, non ci sarebbe andata sola.

“Sarà un viaggio lungo…” aveva notato, divertito.

Un’ombra l’aveva attraversata. Ma era durata un attimo. “E tu, dove ti piacerebbe andare…” a scacciare la malinconia.

“Dove sei tu…”

“Dai, sii serio…”

“Ero serio”, protesta, angelico.

“Più serio!” Lo provoca.

“Mhhh, va bene… ti spiego…” E, mentre il braccio scivola, caldo, lungo il suo corpo, “Qui, per esempio…” poi, lentamente, dentro, “E anche qui…”, vengono a patti dei rispettivi itinerari.

 

Guardano i deputati sfilare. I soldati ascoltano accalorati i discorsi.

Sfoglia, lentamente, un cahier, André. “Hai letto?”, lo porge ad Oscar.

Nel prenderlo dalle sue mani annota nel cuore la sensazione di quel contatto. “No… cosa dice…”

“Che tutti dovremmo essere uguali…” Le sorride. Trattiene a stento la mano, vorrebbe carezzarle il viso, stringerla a sé.

“Quando partiamo per il nostro viaggio…” non vede l’ora di poterla abbracciare, senza doversi nascondere. Vuole tornare nei luoghi in cui sono stati, e conoscerne altri, prima di non riuscire a distinguere più nulla.

“Presto…” ma come si può andare via proprio ora, si domanda. Eppure… “Forse vorrei tornare un po’ verso il sud…”, fa, interlocutoria.

“Italia?”

“No, no…”

“Perché? È bella…”

“Sai che nello Stato pontificio tolgono i figli agli ebrei con la scusa del battesimo?”

“Sì, l’avevo sentito…”

“Recludono le donne incinte e se non accettano di battezzarsi le separano dai figli…”

“Sì, pare sia peggiorato negli ultimi decenni…”

“Separano le famiglie… è pazzesco… bella salvezza dell’anima…”

“Anche qui in Francia non va meglio… prima delle Patenti del re a Strasburgo pagavano, come gli animali, per poter entrare in città…” commenta lui, come lontano. “E a causa delle Patenti sono obbligati a chiedere il consenso del sovrano per sposarsi…” Sente quella problematica estremamente vicina. Oscar annuisce. È lo stesso per lei. La tutela delle libertà individuali.

è assurdo…”, considera, un’emozione a stento trattenuta, nella voce, “gli esseri umani, tutti, senza differenze di sesso, religione, classe, dovrebbero poter vivere liberi ed uguali…”[5]

“Già… è triste, no? Anche ammesso che i deputati ottengano qualcosa, questo non riguarderà le donne, le minoranze, e neppure tutte le classi – ed è già ingiusto parlare di classi, di stati… probabilmente avrà una base censitaria o di possesso terriero… è pazzesco…” si sente come annichilita, impotente, con la consapevolezza che la propria vita non le appartiene e che qualcuno possa limitarne, legalmente, dall’altro, i diritti. Diritti che, tra l’altro, neppure avrebbe, in quanto donna. “È davvero pazzesco”, ripete. “Soprattutto l’idea di non poter cambiare le cose…”

“Chissà… forse…” azzarda lui, “forse noi riusciremo a vivere in un mondo migliore…”

 

Il dottore l’ha avvertita. Forse non riuscirà a portarla avanti, in quelle condizioni. A lui non l’ha detto. Lui non sa che sta male. Quanto sta male.

È via troppo spesso, tra i turni e il resto, e, quando riescono a rimanere un po’ insieme, fa di tutto per reggersi in piedi. E cercare di stare bene. Ancora. Non vuole rovinare quello che resta. Non ora. Ora che quasi scorge uno squarcio di futuro, davanti a sé. Ora che quasi spera. Osa.

E si aggrappa a quella follia. Come lui. Due persone troppo sole. Che si sono trovate. Dopo troppo tempo.

 

Si era lasciata convincere, prima recalcitrante, poi imbarazzata, infine, quando l’aveva sentito su di sé, emozionantissima, a guidarlo a sentire la linea, prima impercettibile, poi dolce, che si disegnava sul suo corpo. Le mani di lui tremavano. Così il respiro, la voce. Ogni gesto. E il seno, teso, e che lui non si stancava di baciare. Si vergognava da morire, erano cose che sentiva estranee, ma era come se si sentisse felice per lui. Si era sentita assurdamente orgogliosa di quella folle scelta che negli anni precedenti non avrebbe fatto, e continuava a custodirlo in sé, ogni volta che facevano l’amore. Avevano sognato un barlume di vita normale, mentre la tempesta montava.

Avevano azzardato timidi progetti, per il futuro. Che sembrava impossibile. E vero.

In una speranza illusa e vana, che, forse, sarebbe stata punita.

 

Ha provato a parlargli, stamattina, al risveglio. Ha passato la notte a rigirarsi nel letto, insonne e preoccupata. A ripetersi che così non può continuare e che tocca a lei fermarlo. E immaginare cosa gli dirà, pur di convincerlo.

Poi, nell’ennesimo mattino di pioggia, tutto è precipitato. Il rifiuto di obbedire ad un ordine ingiusto, l’arresto, l’ammutinamento dei soldati, l’incarceramento. Le sue parole vane e l’unica cosa utile, la fuga, grazie ad André, poi la corsa contro il tempo, per evitare un gesto irreparabile contro i deputati.

 

Le è andato accanto, dopo, sotto la pioggia, e le ha sfiorato la mano, in un gesto complice e dolce. E in uno sguardo di fiducia. Nonostante tutto. Avrebbe voluto dirle ‘Andiamo a casa’, ma sapeva di non poterlo fare e così è rimasto in silenzio. Stanco morto anche lui. Anche lui sfiancato dalla tensione e dalla fatica. Il viso tirato.

“Dobbiamo parlare con qualcuno…” gli ha detto. Era come se gli domandasse aiuto.

“Bernard…” ha constatato, senza fiato, lui.

Era sereno, quando ha fatto quel nome, annota Oscar. Lei, invece, quando lo sente nominare, ancora arde di dolore. André diventerà cieco a causa di Bernard e sua. Questa è la realtà.

 

Una giornata che pareva non terminare mai. Gli alloggi, mezzi vuoti, gli sguardi attoniti dei soldati, per la sorte dei compagni, il gesto. Chi resta e non ha avuto il coraggio della prima linea. Di esporsi. Succede sempre così. C’è sempre chi pensa di doversi fare carico, di dover rischiare in proprio anche per gli altri.

Guardarli e non dire, non lasciare trapelare la speranza di un piano sottobanco, il giornalista politico, il comandante, l’attendente.

Si aspettava un arresto, Oscar, invece è arrivata solo la comunicazione di presentarsi da suo padre. In fondo, è sempre nelle mani di qualcuno…

“Piove troppo forte. E non è il caso che ti stanchi così”, le ha detto André, che era seduto, sfinito anche lui, sul divanetto, portandosi le mani al volto in un gesto di stanchezza. “Andiamo domani…”

Invece, distrutta, in un’ennesima violenza contro se stessa e contro lui, si è alzata come se dovesse andare incontro alla sorte e non al padre.

 

Non aveva quasi più energie, mentre, il braccio di André a proteggerla, ha camminato, esausta, lungo i corridoi. Dopo, ha lasciato condurre il cavallo ad André. Non aveva neppure la forza di abbracciarlo.

Il mantello non basta né a coprirla, né a ripararla dagli schizzi. Gli zoccoli affondano nel terreno. Ed è sempre più buio.

 

L’espressione della nonna è di paura. Ma nanny ha sempre paura, sdrammatizza Oscar, mentre si domanda se dovrebbe averne lei.

Si appoggia allo stipite, di spalle, mentre stringe gli occhi e la guarda allontanarsi sola.

è così sciupata… e il padrone è fuori di sé.”

Perché, vorrebbe domandarle, che diritto ha il generale di incazzarsi per le decisioni di Oscar? Ma rimane in silenzio.

 

Vorrebbe seguirla. Ha paura. È qualcosa di irrazionale, stavolta. E non è solo perché lei è sempre più debole, ma qualcosa che non sa spiegarsi. Come un presentimento, un dolore lontano, latente, che sta per erompere. Non ascolta la nonna, che non aspettava altri che lui per sfogarsi, un fiume in piena, di dolore e reverenza. È come se non la vedesse – in effetti non la vede granché, ironizza –. Come se non fosse lì, così vicino alle scale. Cerca di fare attenzione, ma, da sopra, non si sente niente, dopo che la porta si è chiusa dietro il rumore dei passi di Oscar sigillandola col padre nella stanza. Poi, lo sguardo buio, si ritrae ai pensieri. Cede. La voce della nonna ritorna in primo piano, mentre lui resta così, in un gesto soffocato. Eppure, se oggi non l’avesse seguita… se ogni altra volta, non ci fosse stato…

 

Ma quella sensazione preme.

Sono attimi. E voci concitate. Ha paura, André, non sa spiegarsi, è come se temesse di non arrivare in tempo. A quel minimo incresparsi dei toni che lui, sì, allenato, può percepire. O, forse, è solo istinto.

“Fermo, non disturbarli”, ha alzato appena la voce, nanny. Impotente. Contro il generale. Contro Oscar. E perfino contro il nipote.

Corre, inciampa sui gradini. Serra il corrimano e si tira su, il sudore che gli brucia gli occhi, e la mano, che in un gesto impaziente scosta i capelli ancora bagnati.

Ha paura. Paura che lui le faccia qualcosa di male.

A cosa serve tutto il suo amore se correre così non basta; se un padre può disporre della vita della figlia che ha cresciuto, e mettervi fine; se sarà bastato un attimo, e lui, l’altro, quello che brama di essere il padrone, il despota, il deus ex machina – e forse lo è stato davvero ma non deve più esserlo – avrà compiuto un gesto senza ritorno?

 

Ha paura. Paura che tutto finora sia stato inutile. Di perdere la vita per una follia. Senza poter vedere i soldati liberi, se il piano funzionerà. Senza aspettare di soccombere alla malattia. Senza poter vedere loro figlio. Senza poter rivedere lui. Senza arrendersi a lui, ai suoi sogni, ai loro progetti. È folle, ma uno sprazzo di pensiero è che non vorrebbe essere così, col bambino. Non vorrebbe fare quegli errori. Tanto, si dice, se mi ammazza prima…

Erano anni che non tentava di prevaricarla così. Con quella violenza. Dopotutto, c’è abituata. Ma non è così che pensava di finire.

Le mani violente la strattonano. Strappano, senza rispetto. E lei, che sembra fragile, si irrigidisce. Resiste.

La guarda sorpreso, imbestialito dalla forza di quella passività, il padre. La figlia ribelle, sempre.

E, allora, sguaina la spada.

“Non posso perdonarti.”

 

Il pianerottolo svela un corridoio troppo buio di nuvole nere cariche di pioggia. E i lampi non bastano a rischiarare. Non vede. E i propri passi e il respiro di paura e ansia, il flusso del sangue che pulsa nel corpo, quasi sovrastano ogni possibile traccia di lei.

Eppure, possono essere solo nello studio del generale o nel salottino privato.

Poi, la voce di lei.

“Non esiste, il perdono.”

 

Un ringraziamento alle ragazze che con pazienza mi fanno da proof-reader.

 

Laura, 2002, 2004, estate 2005, autunno-inverno 2005, gennaio-ottobre 2006, Pubblicazione sul sito Little Corner dell'ottobre 2006.

 

Continua...

Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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[1] Appunti 5-5-2006.

[2] Omaggio all’André di Sydreana in Unsafe. I dubbi, le paure, l’impatto di quell’André con lo specchio, quel percorrersi la cicatrice, mi hanno lavorato dentro.

[3] Omaggio alla Oscar di Luana in Echoes, febbricitante, indebolita, straordinaria metafora.

[4] Cocciante, Nonostante tutto.

[5] Dal I articolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, AST. Sulla situazione degli ebrei in Alsazia, nel territori italiani e sul problema dei battesimi forzati, mi sono rifatta ai miei lavori.