BK's Night

 Parte XV

Warning!!! The author is aware and has agreed to this fanfic being posted on this site. So, before downloading this file, remember public use or posting it on other's sites is not allowed, least of all without permission! Just think of the hard work authors and webmasters do, and, please, for common courtesy and respect towards them, remember not to steal from them.

L'autore è consapevole ed ha acconsentito a che la propria fanfic fosse pubblicata su questo sito. Dunque, prima di scaricare questi file, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli su di un altro sito, tanto più senza permesso! Pensate al lavoro che gli autori ed i webmaster fanno e, quindi, per cortesia e rispetto verso di loro, non rubate.

Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

 

 

Si era allontanata. Ma ogni angolo della casa, ogni luogo, le ricordava lui.

Ora poteva ammetterlo, con se stessa.

E non riusciva, anche lì, anche sola, a fare a meno di domandarsi come stesse lui, cosa facesse. Quasi in ognuno di quei momenti.

La scena che le si rifletteva davanti agli occhi conteneva dei movimenti dinamici che superavano di gran lunga quelli del suo cuore.. in quei momenti aveva ogni volta l'impressione di essere abbracciata da qualcosa di enorme e il suo animo si rischiarava.

Pienezza. Non c'è altro modo per descrivere quello stato d'animo.

Forse era la potenza di quella natura.

Delle immagini della natura attorno a lei.

Forse era quella potenza, che riusciva ad appianare un po’ la pena che si portava dentro.

Il mare, immenso e forte.

 

Le era capitato spesso, in quei giorni lontano da André, di ripensare ad Hans. A quello che non sarebbe mai stato. Erano stati pensieri improvvisi, vissuti con disagio e scacciati con decisione metodica. Ma di notte non poteva governare la mente. Ed i sogni.

L’aveva sognato. Bellissimo. Che la faceva tremare.

Aveva sognato di avvicinarsi a lui, in una brezza leggera di primavera che gli scompigliava i capelli, di salutarlo, nella luce che gli illuminava gli occhi. Aveva sognato il timbro della sua voce. Il contatto rubato delle mani.

Si era svegliata turbata, sentendosi come tradita da se stessa, e aveva cercato di annullarlo dalla mente.

Si era detta che era solo paura, paura che quel suo sentimento non fosse abbastanza forte per un legame vero. Paura che non fosse ricambiato oltre la normale misura delle cose umane. Che non fosse speciale, unico, disumano e dilaniante, come lei lo avrebbe voluto. Che per entrambi, prima o dopo, sarebbe subentrata l’ordinarietà in cui l’amore, quello vero, quello più onesto, sarebbe scaduto, dimenticato. Paura della responsabilità che questo avrebbe comportato, se fosse andato avanti. Già… sorrise fra sé… se fosse andato avanti… perché, al punto in cui era, non si sarebbe neppure saputa rispondere. “Forse è il caso che ci lasciamo…” una frase che mille volte le era risuonata, muta, nella mente. E che, nonostante tutto, le faceva paura. Eppure, se avesse deciso di continuare con André, non avrebbe potuto continuare a scappare per sempre, a nascondere se stessa e costringere anche lui a nascondersi. Sarebbe arrivato un giorno in cui lui avrebbe chiesto – a ragione - che quel loro sentimento non restasse più qualcosa di nascosto, da occultare, come una vergogna. Sarebbe arrivato un momento in cui quello che aveva non gli sarebbe più bastato e lui avrebbe chiesto di più. Che cosa avrebbe fatto, allora? Avrebbe cercato di mediare? Avrebbe rinunciato a tutta la sua vita futura per suo padre, per la paura di tradire l’immagine che pensava lui avesse di lei? E quella che doveva fornire all’esterno? Per timore delle convenzioni? Avrebbe abbandonato André o l’avrebbe negato, nascondendo a tutti la verità? Ma che vita era? Non era giusto. Forse per lei poteva andare, ma non era giusto per lui. Nonostante quello che era accaduto, non lo meritava. E sarebbe stata una mera ipocrisia.

 

 

Standone lontana aveva finito per rendersi conto che sarebbe riuscita perfino a dimenticarlo.

Era stato come un dolore.

Il comprenderlo.

Il venire a patti con questa realtà del suo animo.

Il pensare di doverlo accettare.

Se ne era rattristata. Perché, lo sapeva bene, non voleva, in alcun modo, assolutamente, dimenticarlo.

Gli voleva troppo bene. Egoisticamente.

"Mi va bene così, in questo momento va bene così", si era detta.

Ma il tempo era terminato ed era quasi ora di prendere servizio.

Di tornare.

 

 

Eppure, quando arrivò a casa, non lo trovò. Stare lontana da lui l’aveva straziata. L’aveva fatta sentire incompleta.[1] Era tornata pronta a pretendere un chiarimento, a mantenere le distanze, a fare l’offesa. Era tornata anche per inerzia – e pena –, quel suo sentire che, in fondo, anche lui dipendeva da lei non meno che lei da lui. E questo non significava che le ferite non restassero. Significava dover cercare una mediazione, significava affrontare altra sofferenza – ma non era sofferenza anche vivere così? - Ma non era preparata alla sua assenza.

 

Il generale l’aveva fatto chiamare. E da quel breve incontro André era uscito stravolto.

Via, doveva andarsene. Lo scacciavano da quella che era stata anche la sua casa – anche se non sua…

La scrivania scura rifletteva sul piano l’abbagliare della finestra alle spalle del generale, la sua figura avvolta da quella luce, il viso in ombra. Non riusciva a mettere bene a fuoco.

“Credo che tu sappia perché ti ho fatto chiamare”, esordì.

Ad André non sembrò promettente. No, non lo sapeva. E neppure lo immaginava.

Fece qualche passo incerto verso la voce.

è evidente che non puoi continuare ad occuparti di Oscar nella tua situazione…”

Aggrottò le sopracciglia. “Situazione?” La voce incerta. Quasi l’ansia nel domandarglielo, forse sarebbe stato meglio non sapere a cosa si riferiva. Aveva scoperto di loro?

Si sentì quasi sollevato quando la risposta fu “Hai perso un occhio, non vedi la profondità. Non le sei più utile. Spareresti male e lo stesso varrebbe nei duelli. Finiresti col metterla in pericolo.”

Era questo. Per la sua ferita. Il benservito. Qualche attimo per incassare il colpo.

“Non mi pare di averle dato problemi.” E posso esserle molto, molto utile… ma non vi farebbe piacere saperlo, suppongo.

“Ho già disposto per il sostituto.” Così impersonale, pensò André. Asettico. Tagliare, via.

“Credo sia Oscar a dover decidere.” Osservò, notando che il problema era sempre lo stesso, ancora adesso. “In fondo, si tratta della sua vita.”

“Certamente”. Il generale si soffermò giusto un attimo a squadrarlo. “Sono suo padre. La sua vita mi appartiene.” Aveva avuto ragione Girodel, si disse, quando gli aveva fatto notare il peso di quella presenza troppo ingombrante accanto alla figlia. Da troppo tempo. Troppo vicino. Troppo influente.

“Non credo che Oscar sarà d’accordo almeno su quest’ultimo punto…” Sono un uomo paziente, si disse. O un pazzo. Probabilmente questo…

“Ho disposto per il tuo trasferimento nella nostra tenuta a Grenoble. Prepara le tue cose e parti.”

Grenoble… così distante.

 

Erano state lame, le sue parole. Senza possibilità alcuna di una fase interlocutoria. Subito, dirette, all’allontanamento. E si era sorpreso a rispondere “No, non posso”, con voce ferma e stranamente calma, girarsi ed andarsene, di fronte a quello che, per rapporto feudale, era stato il suo padrone.

Che l’allontanamento doveva averlo a lungo cullato nelle fantasie, fino a propiziarlo. Ma non di quel tipo. Doveva essere una vittoria. Non rivelarsi una perdita. Avrebbe dovuto essere un supplizio sottile. Era stato uno schiaffo morale.

Ma aveva le mani gelate e sentiva addosso un peso immane.

Cosa ne sarebbe stato di lui, ora… non sapeva cosa avrebbe fatto, dove sarebbe potuto andare, né come avrebbe affrontato i giorni a venire, la cecità. Ma di una cosa era certo: a quelle condizioni non sarebbe stato possibile, umanamente, tornare indietro.

Questo, a caldo.

Si chiese soltanto poi come Oscar avrebbe fatto a saperlo…

 

E fu così che entrò nella sua stanza, dopo giorni. E le trovò.

 

Oscar, perdonami… di questa irruzione. E di tutto il resto.

Sono entrato nella tua stanza per lasciare una lettera, nel cassetto della scrivania, perché non la trovassero.

E ho trovato lì le tue lettere, c’era il mio nome sopra, quelle di quando eri in missione. Le ho lette, scusami. E le porto via con me – sono così belle. Le porto via, voglio qualcosa di te, dove andrò.

Sei una persona piena d’amore. Di affetto.

Ti amo. Sempre. E ti voglio bene. Infinitamente.

 

Le dita pallide reggevano a stento il biglietto che Nanny le aveva consegnato.

“Ma dov’è andato?” Le aveva rivolto uno sguardo accorato. Senza riuscire a reprimere l’ansia nella voce.

Era in pena, la governante. Divisa tra loro due. Come sempre. E ora anche delusa dal padrone.

“Tuo padre l’ha mandato via, Oscar…”

“Perché? Non ha senso… è… è successo qualcosa…”

 

Si lasciò andare, seduta accanto a Nanny al tavolo, le mani tra i capelli. Ma cosa farà, solo… e se non…Si sentì morire al pensiero di lui, con quell’occhio che poteva dargli problemi. Dove sarà andato… si rese conto solo in quel momento che André poteva cavarsela perché conosceva da tempo i posti che frequentava, ma non era così sicura che, non vedendoci bene, potesse essere lo stesso in un luogo sconosciuto. Non ne era sicura, ma… ora quell’idea aveva aperto come uno squarcio nella sua coscienza, riportandole tasselli di situazioni e momenti, che, prima, non aveva collegato.

“Tu sai se ha problemi alla vista…” Non voleva darle un’altra pena, ma non c’era scelta.

“No… è stato dal dottore, qualche volta…”

Oscar trasalì. Non lo sapeva.

“Cosa…” Si fece più avanti, sul tavolo.

“… ma era tutto a posto.”, concluse.

“Come mai…” non riusciva a continuare “c’è andato…” Senza quasi voce. Non era neanche una domanda.

“Un controllo…”

Si alzò di scatto. “Tu sai dov’è andato?” Devo trovarlo. Dirne quattro a mio padre.

“No, piccola, no… sono così preoccupata…”, si lasciò sfuggire.

Guardò fuori. Era ancora presto. Forse… si sentiva stanca da morire. Avrebbe solo voluto potersi buttare sul letto. Invece… poi, si sentì egoista. Lui era stato mandato via, senza niente, senza un grazie, solo, lontano da quella che era stata la sua casa per oltre vent’anni. La rabbia diventò difficile da contenere.

 

“Perché avete mandato via André, padre?”

Nessun convenevole. La voce a stento trattenuta. Lo trovò che stava fumando, seduto con un libro.

“Ah, bene, vedo che sei tornata. Ho buone notizie per te…” un gesto secco, chiuse il volume.

“Come vi siete permesso di mandare via il mio attendente? Era una decisione che spettava a me.”

“Ho già chiesto che sia rimosso dall’incarico. Anche nella tua nuova destinazione.” Notò con fastidio. “Ne ho scelto uno più adatto.”

“Ma cosa dite? Si tratta della mia vita!” Aveva alzato la voce. La provocazione stava facendo effetto. Un altro attendente? “Sono decisioni che devo prendere io, non voi!” Era tutto così assurdo.

“Niente affatto. Non era più adatto. Con quella ferita non era più adatto.”

“Adatto?” pronunciò quella parola con disprezzo. In una stretta al cuore. “Quella ferita, come dite voi, è stata colpa mia! È stato per proteggermi! E pensate di ripagarlo così?”

Lui rimase in silenzio.

“Togliendogli il suo lavoro?”

“Io l’ho destinato alla tenuta di Grenoble…” le fece notare. Certo, dicendogli anche di fare le valigie e quindi non dandogli nessuna alternativa. Ma questo era un minimo, insignificante dettaglio.

“E poi ha sempre lavorato bene, anche ora.” Ora… un’altra stretta al cuore.

“Forse non sai che Monsieur de Girodel ha notato che vede poco bene. Forse te l’ha nascosto.” Quella era la scusa formale. Si guardò bene dal condividere con lei le considerazioni che il conte aveva aggiunto, limitandosi a sperare che fossero solo fantasie, chiacchiere, sensate obiezioni di un cortigiano.

Oscar si sentì gelare. Certo, poteva essere. Per non farla preoccupare. Per non farla sentire in colpa. Per non essere separato da lei. Per amore…

“E cosa c’entra Girodel?”, ritorse, invece, marcando sul nome, privo di titolo. “Lavora forse con lui?”

“Dice che ha avuto modo di stare accanto a lui, ultimamente, e che il tuo attendente è in difficoltà”.

Notò che evitava apposta di usare il nome. Una spersonalizzazione completa del ruolo. Aveva già rimosso l’essere umano.

Cercò di non sembrare agitata, ma, in effetti, poteva essere vero.

“E, comunque”, riprese il generale, “il conte è il tuo pretendente. ha ritenuto opportuno informarmi perché prendessi provvedimenti.”

Pretendente? E di che? “Non diciamo idiozie”, tagliò corto. “Non so a chi sia venuta in mente questa idea, ma la cosa non mi riguarda.”

“Ti sbagli. Lo sposerai.” Una sfida. Infastidito si sistemò sulla sedia.

“Non credo proprio…”

“Lo sposerai e mio nipote continuerà il mio incarico”. Una sferzata. Lei non contava niente. Tra lui e il presunto suo nipote, niente. Lei doveva solo servire, un’altra volta ancora, ai suoi scopi. A che altro serve, un figlio, se non al genitore?

“Mi pare stiate saltando una generazione… io sono qui…” gli fece notare, trattenendo a stento la delusione, la rabbia, il disgusto.

“Tu mi hai deluso.” Tu sei una delusione. Gli parve di godere nel dirlo.

Altro affondo. Altro colpo da sopportare. Incassa, Oscar. Sei una delusione. Non esisti se non in funzione sua…

“Anche voi…” o, forse, no. Non ho mai pensato poteste essere diverso…

Ricordò, poi, d’aver sentito lo tonfo secco della sedia contro il pavimento. Il rumore della scrivania spostata. Il mulinare delle carte, sparse a terra. Ricordò la sensazione assolutamente fisica di sorpresa, di stupore che, sempre, quelle scene le avevano causato.

“Come ti permetti?” Le fu addosso.

“State lontano.” Oscar mantenne la voce gelida. “O chiamo qualcuno”.

Sembrò placarsi, di fronte al tono distante di lei. “Tu farai quello che voglio”, la minacciò.

Senza sembrare dargli ascolto, si limitò a ricordargli “Finché io vivrò in questa casa, André potrà stare qui. Se manderete via lui, me ne andrò anche io.” Poi, aggiunse “Pensateci.” Lasciandolo livido, i pugni ancora serrati, rabbioso contro quella figlia che si rifiutava di appartenergli.

“Spero che ti caccino dalle Guardie francesi!” Le urlò dietro.

 

Galoppava veloce, stanca, cercando con la mente un posto dove potesse trovarlo.

Non lo vedeva da giorni, eppure era presente come mai nei suoi pensieri.

 

Neppure lì. Sospirò, gli occhi a terra. Si richiuse, delusa, la porta alle spalle. Non l’avevano visto neanche Rosalie e Bernard. Si era costretta a passare anche da loro, nonostante incontrare Bernard ogni volta le rivoltasse l’anima. E non capiva, davvero, come riuscisse André a non avercela con lui, anzi, a considerarlo un amico. Si domandò se non fosse stato per una qualche sorta di oscuro proposito di vendetta, che gli aveva appioppato Rosalie.

 

Si guardò allo specchio. Scostò i capelli. E si vide.

Soffocò un brivido. Non avrebbe voluto mostrarsi così a lei. I così erano troppi. Già non era facile, con quella cicatrice. Che lo faceva sentire diverso, anche se non era poi diverso da prima. Ma gli faceva sentire come il bisogno di nascondersi. Come una vergogna. Eppure, non sapeva scappare, e non avrebbe voluto mostrarsi a lei, che era come la luce. E lui il buio profondo della notte. Non era facile, con quell’amore inchiodato nel cuore, nella mente, che era parte di lui, parte della sua vita da più di vent’anni. E non lo era neppure in quella situazione, senza più niente da offrirle – né la salute, neppure più un lavoro, solo un amore perverso e ostinato.

Che tristezza, anche sognare, per quelli che non possono permettersi neppure questo…

 

L’aveva sognata, quella notte. E, quando si era svegliato, in quella stanza spoglia, fredda, senza riconoscere attorno a sé gli oggetti consueti, aveva capito che non poteva starle ancora lontano. Che doveva accettare di fare a patti con l’idea di poter tornare indietro a cercarla.

Era stato un incubo, le immagini nitide e precise, senza scampo, non come quando gli occhi erano aperti davvero. Lui era lontano e lei stava con un altro. Perché lui era assente. Perché era stato assente, via, dalla sua vita. E lui si era sentito perduto, a quell’idea. Devastato. E si era svegliato con un dolore sordo, dentro, e con la necessità di riuscire a cambiare qualcosa, nella sua situazione, di potersi riavvicinare a lei. Di doverla cercare.

 

Aveva passato ore ed ore a domandare, come nei giorni precedenti, se qualcuno avesse bisogno di un lavorante, qualcosa, qualsiasi cosa. Qualche giorno prima gli era andata di lusso, aveva passato la giornata a scaricare sacchi ai mercati, era una paga da fame, ma tutto faceva comodo.

Aveva lasciato in giro dei recapiti, offrendosi come traduttore, nelle stamperie in cui nascevano i vari fogli cittadini; aveva domandato se ci fosse chi cercasse un precettore per i figli. Ma c’era troppa miseria, perché la gente pensasse a pagare l’istruzione di figli che avevano generato senza chiedersi se avrebbero avuto un futuro, e quale.

I figli… a volte ci pensava… certo, in quella situazione, sarebbe stato un atto di incoscienza. Lui messo così, Oscar che non avrebbe accettato l’idea – la conosceva bene -. Sapeva essere molto materna, l’aveva vista in azione varie volte, con Rosalie, col principe, un po’ meno con le nipoti, ma era diverso, e lo sapeva. Era stata educata per un altro tipo di vita, più moderna, e non avrebbe accettato di fare la madre in senso tradizionale. Magari, sorrise tra sé, il padre… Eppure, a volte gli sarebbe piaciuta, l’idea di un bambino. Poi crescono, arrivano le delusioni, non sono più quei bambolotti rosei che sono a sei mesi… Scacciò l’idea. Non era cosa. Non ora. Né poi. Presto non sarebbe più stato in grado di occuparsi di se stesso, ammise, in brivido, meno che mai di qualcuno che dovesse dipendere da lui.

E, a parte la sua vista, non era in grado di assicurare un futuro a se stesso, né ad Oscar, figurarsi ad un bambino.

Non che non avesse niente da parte, ma, aveva considerato, tra pagare un alloggio, mantenersi, e considerare che, in futuro, probabilmente non sarebbe stato in grado di lavorare né autosufficiente, c’era di che preoccuparsi.

 

“E cosa pensi di fare…” domandò, guardando avanti, reggendo tra le mani un boccale.

“…” Alzò le spalle. Non ne aveva idea.

Una locanda era una soluzione per pochi giorni, ma non era possibile continuare così.

Aveva cercato a Parigi, anche a Versailles. Abitazioni se ne trovavano poche decenti. Più che altro stanze mefitiche in subaffitto o in condivisione. E lui era senza lavoro, senza più un reddito. Sapeva leggermente di beffa aver lavorato tutta una vita e ritrovarsi così…

“Pare non ti possano prendere, da noi…”

Lo guardò. Deluso. Non amava il mestiere delle armi, ma non avere scelta era peggio. “E perché?”

“Ordini superiori…” non aggiunse ‘Non ti prenderanno da nessun’altra parte’, ma era quella l’impressione che aveva avuto.

Lo guarda pagare ed andarsene, curvo. Piegato. “Aspetta”, gli fa. “Non dovrei dirtelo, ma…”

 

Un ENORME grazie alle proof reader: Alessandra, Elisa, Sydreana, e in particolare ad Assunta e a Luana per la pazienza e i commenti degli ultimi due mesi

 

Laura, 2004, estate 2005, autunno-inverno 2005, gennaio-marzo 2006, Pubblicazione sul sito Little Corner del marzo 2006.

Continua...

Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

Back to the Mainpage

Back to the Fanfic's Mainpage

[1] Recuperato dal working 19-6-2004.