Alternate BK's Night

 Parte IX

Warning!!!

 

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Nota: L’idea di questo racconto ce l’ho da quando, nell’autunno 1999, iniziai BK’s Night. Doveva trattarsi di uno spin-off da una frase pronunciata da André a p. 4 del mio file, al suo risveglio dopo il ferimento.

Quando ho ripreso in mano l’idea per scriverlo effettivamente, ho deciso di associarlo ad altre due suggestioni che avevo, anch’esse, in mente da anni, una cronologicamente collegata all’epoca in cui si svolge BK, l’altra ad un periodo successivo. Questa associazione ha comportato che, per far collimare le tre idee, io abbia dovuto spostare la scena che derivava dal BK originario all’anno successivo, poco prima della rivolta Réveillon.

Si tratta di un racconto che, comunque, riprende alcuni temi che mi interessano. Preferisco non anticiparli, se non quello, appunto, dei problemi che incontra André dopo il ferimento da parte del Cavaliere nero, e che si incarna nel titolo.

 

Gli è parso di udire la sua voce.

Non sa spiegarselo, è un’inquietudine che si portava dentro da prima e che gli ha fatto pensare mille volte che era meglio andare via. Lontano. Senza nessun saluto, spiegazione. Stenta, a volte, a comprendere Oscar, che i genitori li ha e quindi tende a continuare a sentirsi figlia. Lui, il problema non ha dovuto porselo e non è neppure detto l’avrebbe vissuto così. La nonna è un’altra cosa. La nonna è affetto e complicità, rigore e saggezza. Una nonna ha per forza una prospettiva diversa, avendo già esaurito per stanchezza i propri figli. Sui nipoti può limitarsi a riversare amore.

Anzi, deve liberarsi del suo chiassoso entusiasmo. Arzilla, aveva commentato “Era ora! Certo, con due imbranati come voi…”, lasciandolo decisamente spiazzato, ed era partita, sparata, a recuperare corredini, cuffie e lenzuolini accumulati in chissà quanti anni di speranze frustrate, forse quando aveva smesso di preparare vestiti per Oscar, poi, inarrestabile, gli aveva riempito il bicchiere per brindare “Una sbronza ci vuole, nelle grandi occasioni!” Aggiungendo “Trisavola, tie’!”, mentre lui pensava di comprendere il bisogno di fuga di Oscar, ora...

 

Scivola senza forze.

Si sente male.

Crede di ricordare la sorpresa sgomenta di quelle mani addosso. Ghermirla, come per farne brandelli. Assalirla, in gesti spietati. Feroci. La sensazione fredda dell’impatto di schiaffi, che la scaraventano contro il muro.

Si asciuga un rivolo di sangue, quasi stupita, mentre rialza lo sguardo su di lui.

In un duello studi il nemico e ti prepari. In guardia, affondi, pari. In un’aggressione cerchi di difenderti. Ma cosa si fa, con un padre?

Arrivi a osare domandarti se sia lecito reagire? O se quello che hai sempre subito ti abbia forgiato abbastanza per sopportare l’ennesimo sopruso senza opporsi? Se sia questo il senso di una famiglia, l’uno che schiaccia l’altro, ne approfitta, in uno stillicidio a volte lento, a volte acuto, ma comunque sistematico. Se è per questo che i suoi genitori l’abbiano fatta nascere, per rinfacciare, sfogare, affossare ogni istinto di vita che lei abbia potuto manifestare.

È tutto molto triste. Davvero molto triste…

Vorrebbe domandare perché, ma quasi non ha parole. In fondo, è così che la tratta, sempre. Sempre, pensa, ma ora è diverso… Che ti aspettavi di diverso, Oscar… soprattutto ora, che gliel’hai detto…

“Di quanti mesi?” Le ha urlato addosso. Poi l’inferno. Mani che l’afferrano, la strattonano, strappandole di dosso le vesti. “Fammi vedere!” Come un pazzo.

Crede di averlo vissuto.

Non sa. Vorrebbe tanto fosse solo l’ennesimo incubo dettato da anni di rigore e delusione. Di affetti smarriti, guardati con tristezza, poi, lasciati andare nel passare del tempo.

Non sa che rispondere, non si aspettava quella reazione. Sa solo che si sente male.

Si stringe addosso le braccia, cerca di ripararsi. Le ha aperto a forza la giacca, la stoffa si lacera, cede.

Cerca di coprirsi.

Si irrigidisce di vergogna. Ha sempre detestato quando suo padre faceva irruzione in camera sua, senza permesso, e lei si stava cambiando. Era come se le scrutasse il corpo. Dentro. Le mancanze del corpo del figlio maschio.

L’aria le sfiora la pelle nuda. Non ha mai saputo reagire, a suo padre. È abituata ad incassare, quando la picchia.

È abituata a sfidarlo guardandolo in faccia.

Ma ora vede i suoi occhi spostarsi, avidi, folli, lungo il suo corpo, e le pare quasi che quello sguardo le bruci addosso. La ispezioni. La violi. Li segue. Si vede. Giusto un attimo di sorpresa.

Ricorda il lampo del suo sguardo, addosso. Le era sembrato pazzo.

Le mani toccarla. Gelide. E non poterlo evitare.

“No…” quasi senza voce. Non potersi neppure sottrarre. Lì, tra lui e il muro.

Poi, qualcosa che la memoria non può che cancellare. Un braccio contro il collo, quasi la soffoca, a bloccarla contro la parete. Poi, vorrebbe aver cancellato.

Un pugno.

Dio, fammi chiudere gli occhi.

Un altro.

Non voglio vedere.

Ancora.

… non voglio vedere…

Calci. Diretti. Mirati.

No…

Sto male…

Lui che grida “Non te lo permetterò!!!”

Gesti di follia montante, nei confronti di una figlia, anche come corpo.

“Non lo farai!!!”

Quella figlia è sua, gli appartiene, è una cosa sua. Già non sopporta l’idea che sia andata a vivere lontano da lui, con l’attendente. Ora che si è degnata di fargli visita per annunciargli i motivi per cui prende congedo, la rabbia compressa monta, in un’aggressione a ciò che quel corpo gli ricorda: che sua figlia è una donna adulta, che non può essere sua. Che è di un altro. Ed incinta di lui. E questo segna come la perdita, il distacco definitivo da lui, che si è illuso, follemente, che niente sarebbe cambiato. E invece tutto cambia. Lei avrà una famiglia sua. Lei è di un altro. È la donna di un altro. Lei gli sfugge. Folle di rabbia e delusione per il tradimento di sua figlia, la sua proprietà, gliela farà pagare. Molto cara. Più di quanto possa immaginare.

 

È come se non sentisse più niente, ora. Solo, lo stupore.

Il dolore lancinante, poi, continuo, che ha provato all’inizio è come assorbito in un pozzo nero e profondo, in cui sta sprofondando. Un’ondata di gelo che sale dal basso e la pervade. Sente solo che non ha più forze.

Avrebbe voluto gridare, ma era come se non ne fosse capace. Forse ha urlato il suo nome nella mente, ma le parole non le ha sentite. Forse, non uscivano.

“André…” riesce solo a dire.

 

 

Gli è parso di udire la sua voce.

Ancora…

Stavolta, ha sentito il terrore.

Non sa spiegarselo, è un’inquietudine che si portava dentro da prima, ha avuto terrore. È corso verso le scale. Come un’ansia che monta, invade il respiro, le orecchie.

Eppure, tutto gli pare lontano, ora.

 

“Non te lo permetterò mai!”

Si è girato di scatto, quando ha sentito i passi, le voci. Lui, e la nonna.

Ha faticato a mettere a fuoco, l’ha vista trascinata, braccia e capelli, lei, che si reggeva a stento. Poi, un ultimo strattone.

 

 

“Oscar!”

L’ha trovata così, che è scivolata lungo i gradini.  Una scena che in fondo ha già visto.

Corre a sollevarla. Mentre lei vorrebbe coprirsi, e quasi non vede, senza più sangue nelle vene, la macchia che si sta creando sul marmo.

“Oscar!!!” La guarda con orrore.

La stringe a sé. Senza peso. La copre con la sua giacca. Gelata.

Arrivano voci, accorre gente. “Chiamate il medico, per dio!”

Gli occhi pieni di lacrime.

 

Dall’alto, il generale, ansimante, domina, come momentaneamente placato, le sue prede.

 

“Che cosa le avete fatto?” Tuona la nonna. “Andate via! Non avvicinatevi!” è solo la furia della governante a sembrare arginare il generale.

Ora è accanto a lei, e le braccia di André la consegnano, esanime, alle sue. E si rialza, lui, come un vendicatore spaventoso, livido, non l’ha mai visto così, il suo ragazzo.

 

Oscar… cosa le ha fatto… la vista annebbiata da rabbia e lacrime. E lo fronteggia, il carnefice, che ansima, furibondo.

“State lontano da lei.” Si asciuga gli occhi, mentre conta i gradini per non inciampare. “Non toccatela mai più”, e il generale non sa che rispondere, di fronte alla luce di follia che legge nel suo sguardo. André non è più il quindicenne pacato e ragionevole su cui sperava di far perno per plagiare la figlia. Non l’ha mai visto alzare un’arma contro di lui. Ora sì.

“Non osare… mia figlia non farà nascere un bastardo!”

Sembra ancora più freddo, di fronte alla provocazione. “Lontano.” La voce bassa, nitida. La canna si preme sul torace.

“E cosa vorresti fare”, sarcastico, “uccidermi?”

La pressione sulla stoffa aumenta. “State lontano da lei.”

“Non osare sfidarmi!”

Un passo ancora. Lo sovrasta. “No. Non osate voi. Mai più. Non avvicinatevi mai più.”

“Lo vedremo”, minaccia, e se ne va.

Tanto, quello che si era prefisso, l’ha ottenuto.

Mentre il sole inonda, rosso, il parco e muore fra gli alberi.

 

Solo, nello studio avvolto nel tramonto, appoggia la giacca allo schienale. Si siede rigido, soddisfatto, come avesse portato a termine una missione. Si versa da bere. Un bastardo… e un’espressione di disgusto gli deforma i lineamenti, una maschera grottesca.

Non è stato difficile. Non ha quasi opposto resistenza… una sgualdrina che si fa montare dal servo, considera. Una situazione ridicola… la caccerà dalla famiglia. O, magari, troverà qualcuno disposto a prenderla così, e si sarà risolto un fastidioso inconveniente…

 

Non si arresta, l’emorragia.

Non si è pronunciato, il medico.

La vede, pallidissima, senza forze, e prega di non perderla. Solo che lei viva. E, così, resta seduto lì, accanto a lei, senza lasciarla sola un attimo.

Ed è sera.

Stringe le mani nelle sue.

Se non l’avesse lasciata andare sola, se l’avesse accompagnata… se avesse dato retta a quella voce, muta…

Nello stillicidio delle ore, André osa appena sollevare lo sguardo sul dottore. Non osa domandare. Forse neppure lui sa quale sarà il loro destino.

 

Una mano sulla spalla.

Fa cenno di no, le dita intrecciate sulla fronte. Non ha voglia di buttare giù niente. Ha lo stomaco serrato in una morsa di disgusto e dolore e rabbia. Vorrebbe solo poter prendere il posto di lei, evitarle di soffrire. Vorrebbe che tutto fosse già finito. Trascorso. E lei, viva.

È colpa sua… è colpa sua se ora Oscar…

 

Ha aperto gli occhi, giusto un attimo. Un respiro faticoso.

La testa di lato. La mano, esangue, a cercare la sua. E lui, subito, a sostenerla. Portarla alle labbra.

“Andiamo via…”

Annuisce, ma lei è già lontana. Non la risvegliano le lacrime di lui che le scorrono sul viso. Non l’abbraccio di lui, che la tiene stretta, e ora piange, piange, e vorrebbe morire. Insieme a lei. Al suo posto.

Non sente più niente.

Inghiottita in un buio freddo e vuoto.

 

È finita.

 

È la fine.

 

...

 

Se

 

Se non si piombasse in quel buio e vuoto. Dispersi, ciechi e sordi. Svaniti. Inesistenti.

Se il respiro, piano, tornasse.

Il sangue scorresse.

Se una vita, ancora, fosse possibile…

 

Se non fosse finita…

 

“Dottore, cosa dite…” lo implora, la nonna.

Scuote la testa.

 

È un dolore terribile.

Che la spezza. La lacera.

Vorrebbe gridare. Vorrebbe fosse già tutto finito.

Un’altra contrazione.

Ancora un po’…

Non mollare, Oscar… tra poco sarà tutto finito…

Tra poco…[1]

 

Quando il tempo è troppo. O troppo breve. Se si distilla verso il niente. O sfugge dal nulla.

 

“André”, il dottore lo riscuote dai suoi pensieri. “Reggila per le spalle, per favore.”

Annuisce, le labbra serrate. È notte fonda, ormai.

Ha solo implorato sua nonna della massima discrezione. Ma forse lo sanno già tutti, e Oscar non vorrebbe. Lui non le vede, le occhiate di compatimento, dolore, invidia, tristezza, che le cameriere gli riservano. Ma sa che il sangue sulle lenzuola, le vesti strappate, la cronaca deformata dei fatti, di bocca in bocca, parleranno da sé.

Vorrebbe solo che tutto non fosse mai accaduto. O che fosse già finito.

Vorrebbe non averle causato indirettamente questo. Ora, tutte le paure che pensava di aver domato, tornano.

Vorrebbe nascondere il viso tra i capelli di lei e non guardare quello scempio. Lei scossa dalle contrazioni. Le mani del dottore. Il sangue.

Invece, si fa del male. E guarda.

Per non dimenticare.

Per onorare la verità.

Perché non vuole pensare, un giorno, che non ci sia stata una ragione per difendersi.

Perché sarebbe stato diverso.

 

Si è sentita come spaccata. Spezzata.

Si sente esausta. Svuotata.[2]

 

Perché ora gliel’hanno portato via?

Voleva sentirlo. Addosso. Vivo.

Dopo averlo portato dentro tanto a lungo… averlo cullato…

Dopo tutto quel dolore…

Perché gliel’hanno portato via…?[3]

 

Ci sono teli, intrisi. E sangue, ancora.

E lei, persa tra le sue braccia. Gli sembra pallida. C’è poca luce e non vede bene. Ma non sa se sono le lacrime, la tensione.

Quasi non le sente le vene pulsare.

Sta piangendo, lei. Piano. Ha allungato una mano, debolissima, come a cercare qualcosa.

L’ha cullata contro di sé, come a proteggerla.[4]

È quasi l’alba. E tutto sembra immerso in un silenzio irreale.

Non ha neppure il coraggio di chiederlo, se si salverà. Gli pare impossibile quello che sta accadendo.

Alza lo sguardo sul medico. Pietrificato. Le parole non escono. I gesti immobili nel corpo.

“Stai tranquillo… il peggio è passato.” Ha un’espressione tirata.

Le mani sul viso. Osa guardarlo. È salva? Starà bene?

Non osa domandare altro. Non vuole neanche pensare ad averne un altro. Ed, è sicuro, neppure lei. Vuole solo che lei viva. Il resto, poi, si vedrà.

 

Il dottore è ancora lì. Cerca di capire la sua espressione, quando gli domanda: ”Dottore, è…”, accennando a quell’involto insanguinato.

Annuisce, il medico, mentre tasta il polso di Oscar, pallidissima.

Lo osserva in silenzio, serrando le labbra, sollevare con orrore e pena quel piccolo peso. Nasconderlo, quasi, contro di sé. Chiudersi, silenzioso, la porta alle spalle.

 

È salito nella sua vecchia stanza. È rimasto tutto com’era.

Ha poggiato con cura quel grumo di teli sulla scrivania.

 

Ha cercato, e l’ha trovata dove la ricordava. La sua cassetta delle armi. Probabilmente dismessa dal generale. Quella di Oscar è ben tenuta, questa è vissuta. La apre, e la vuota, lento.

Poi, si siede alla scrivania, e scrive. A lungo. Cercando di meditare le parole. Mentre non sa più trattenere le lacrime, che spandono l’inchiostro e bruciano.

Sarebbe stato figlio di Oscar François de Jarjayes, comandante della Compagnia B delle Guardie francesi, e di André Grandier, suo attendente e marito. È nato morto il … giugno 1788, a causa dell’aggressione del generale Jarjayes a Oscar, sua figlia.

Non sa come altro dirlo. Quasi non riesce a crederci. Che sia accaduto. Che stia accadendo.

Trema, la mano, nello scrivere le ultime parole.

Il suo nome…

 

Si ferma.

 

Non riesce a proseguire. Gli tremano le mani, lo sguardo appannato. Non vuole consegnare all’oblio quello che è accaduto. Sono lacrime di dolore, spavento, rabbia. La perdita, la follia del generale, la paura di perdere lei, di averla vista quasi morta, la piccola speranza di sapere, ora, che si salverà… almeno Oscar si salverà. Oscar è viva. E, di fronte a quello a cui ha assistito, lei, esanime, tra le sue braccia, e tutto quel sangue, alla fine, almeno lei vivrà. Nonostante tutto. Almeno lei…

Si passa una mano sul viso.

 

Le lacrime appannano lettere, foglio, tutto.

Una macchia color rosso veneziano – unico lusso che, prima di mettere su casa con Oscar, si concedeva – si spande, inesorabile. Conquista, lenta, le fibre del foglio.

Compone con delicatezza il panno, senza il coraggio di guardare. Senza più forze. Sopra, appoggia lo scritto. Firmato. Perché resti una memoria di quello scempio. Della follia. Del distorto potere di un padre. Dei suoi abusi su una figlia.

 

Un peso enorme, in quel legno leggero. E le braccia, come paralizzate. Le gambe, inchiodate a terra.[5]

 

Poi, cercando di non fare rumore, raggiunge l’albero. Gli attrezzi poggiati, accanto alla cassetta, sull’erba umida di rugiada.

Si passa una mano sul viso. Pallido. Disfatto. Stringe le labbra, e cerca di farsi forza.

Può farlo solo lui. Soltanto lui.

Mentre, tra le manciate di terra che solleva, le lacrime scorrono. E lo accecano. Di rabbia. Di dolore. Di disperazione. D’amore. Nei movimenti stanchi, netti, disperati. Lui, che non crede in niente se non in Oscar, si ritrova a cantilenare una preghiera muta, perché lei viva. Almeno lei. Perché ha il cuore devastato. Non può credere che esista tanta malvagità e sia così vicina. Che si possa, volontariamente, fare così del male ad una persona. Ad una figlia. Cercare di ucciderla. Devastarla. Per negarla. Essere così bestiali. Egoisti. Possessivi. Malati.

 

Resta lì, ancora un po’. Come a pensare di non volerlo lasciare solo.

Senza riuscire a non piangere. In silenzio.

A lasciarlo lì, almeno, ora, al sicuro, accanto ai loro tesori. L’ultimo.

Ciao, piccolo…

 

Laura, autunno-inverno 2005, gennaio-agosto 2006, revisione marzo 2007, Pubblicazione sul sito Little Corner del marzo 2007.

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

Continua...

Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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[1] 4-8-06.

[2] 7-8-06.

[3] 4-8-06.

[4] 4-8-06.

[5] 4-8-06.