Alternate BK's Night

 Parte VI

Warning!!!

 

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Nota: L’idea di questo racconto ce l’ho da quando, nell’autunno 1999, iniziai BK’s Night. Doveva trattarsi di uno spin-off da una frase pronunciata da André a p. 4 del mio file, al suo risveglio dopo il ferimento.

Quando ho ripreso in mano l’idea per scriverlo effettivamente, ho deciso di associarlo ad altre due suggestioni che avevo, anch’esse, in mente da anni, una cronologicamente collegata all’epoca in cui si svolge BK, l’altra ad un periodo successivo. Questa associazione ha comportato che, per far collimare le tre idee, io abbia dovuto spostare la scena che derivava dal BK originario all’anno successivo, poco prima della rivolta Réveillon.

Si tratta di un racconto che, comunque, riprende alcuni temi che mi interessano. Preferisco non anticiparli, se non quello, appunto, dei problemi che incontra André dopo il ferimento da parte del Cavaliere nero, e che si incarna nel titolo.

 

E, così, gli ha preso, da La Maison du Pastel del Marais,[1] esclusiva bottega artigiana, aperta solo il giovedì pomeriggio, dopo una estenuante attesa in mezzo ad una fila di insopportabili artisti egocentrici, allievi dell’Accademia spediti lì a farsi spennare dai maestri riforniti gratis da quella bottega – ma succede anche con le altre, ovviamente –, un set di quei pastelli morbidi che si trovano da relativamente pochi decenni, investendo un capitale, e commuovendosi, quando ha visto l’espressione di lui. Sono oggetti fatti a mano, particolarissimi. Quelle cose da cui lui dice, scherzando, che bisogna tenersi alla larga. Ma lei ne è felice. Anche se sa di essersi condannata ad una carriera di modella a tempo. Anche se sa che lui a tratti non vede quasi più e fatica enormemente a disegnare. Ma ce la mette tutta.

L’idea le è venuta durante una visita alla regina.

La viziatissima principessa ha dimostrato un qualche interesse per l’arte e, subito, si è corsi a procurarle ognuno dei numerosi capricci le venisse in mente.

La Le Brun ha osato consigliare materiali meno costosi, per una principiante di cui non si sa neppure se abbia un qualche talento, e di partire dalle basi del disegno, ma niente si può negare alla ragazzina. Che, così, ha accumulato scatole e scatole di colori, olii, acquerelli, tempere, pennelli, spatole, tavolozze, tele, pastelli. Per non parlare dei cavalletti. Fissi. Mobili. E che, per ora, si è limitata ad acquerelli che solo la madre osa mostrare, orgogliosa, a tele imbrattate senza criterio, donate con sussiego – e sollievo – a qualche domestica compiacente, ufficialmente per abbellire la propria stanza, ufficiosamente a consumare in qualche camino – si sa che la reggia è piena di spifferi in inverno –. E poi ha prontamente lasciato il tutto nel dimenticatoio, in balia del fratello minore, Charles, e dei cugini. Joseph è un discorso a parte. Lui legge. Quasi non si nota. Quasi non si muove.

Costano quanto il salario di mesi, forse più, si è ritrovata a pensare Oscar.

Gliel’ha confermato, Sua Maestà: “I migliori, sì. I più costosi.”

Ma una madre ricca può tutto. Una madre col portafogli pieno non nega niente ai propri figli. Neanche se non lo meritano. Neanche se i loro sono capricci e non esigenze. Neanche se la ricchezza le deriva dall’erario, e dunque dai sacrifici imposti agli altri. Perché l’appannaggio pubblico, che le spetta per posizione, ma non ha meritato, costa molto più di tutte le rinunce degli altri. E c’è chi fa la fame. Ma nessuno osa intaccare le posizioni di potere delle amministrazioni pubbliche. Dei privilegiati. Delle élite di potere. Preferiscono continuare a spremere chi produce. Eppure, nonostante i doni, la principessa, lo sguardo tondo del padre, curva e sospettosa, detesta la madre. Sua maestà ama i bambini, ma coi suoi pare trovare poca intesa.

“Maestà, forse Sua Altezza avrebbe bisogno di colori più semplici, meno costosi…” ha azzardato.

“Oscar, via, non potete capire. Non sapete come sia, con un figlio…”

Sarà, si è detta. Un po’ scornata, un po’ le veniva anche da ridere. Poi, ha visto i viziatissimi regali e ducali infanti gettare in mille pezzi quei colori preziosi, di cui Therèse si è presto sbarazzata. Far volare quegli oggetti delicati in aria, senza cura. Lasciarli ridurre in mille pezzi. Senza ragione. Per gioco. Sfregio. Nervosismo. Liti o rivalità infantili. Non lo saprebbe dire. E sua maestà ridere delle prodezze dei pargoli e mandare qualcuno perché pulisse e decoratori perché ricoprissero gli sfregi alle pareti.

“Giocano”, si è giustificata con lei, che si era chinata a raccogliere un pezzo e lo rigirava, polveroso e vellutato, tra le dita. Che belli…

 

è arrivata a casa, non vedeva l’ora, e gli ha consegnato, orgogliosa, per sorprenderlo, la grande scatola laccata corallo, e tanti, tanti fogli adatti, s’è informata, e di vari tipi. Sfumini. Pennelli per sfumare. Una cartella per archiviare. Era quasi scomparsa, dietro tutti quegli oggetti, spuntavano solo le gambe… Che non gli manchi più niente. Anche se è per poco, che faccia ciò che gli piace. E si è passata le dita, gelate d’emozione, sul viso, mentre le tremava un po’ la voce, quando gli ha scaricato addosso quel ben di dio, annunciandogli “è per te”.

E poi è rimasta, compiaciuta, ad osservarlo stupirsi, illuminarsi, commuoversi, non sapere neanche più da dove cominciare, perché lui è così bravo, ma tutti quegli oggetti assieme non li ha mai nemmeno sognati. E abbracciarla, con le dita che lasciano segni di polvere colorata, e accarezzarla. Spogliarla, subito, in fretta, entusiasta come un bambino, finché c’è ancora luce, perché non vuole perdere neanche un minuto. E, dopo, quando sarà buio, dopo averla costretta mille volte a scoprirsi di nuovo, dopo averne vinto, poetico, convincente, ardito, moderatamente matto come un cavallo – why not? -, le proteste e ritrosie, dopo essersi impossessato della sua immagine, perché si disegna ciò che si vorrebbe, ciò di cui ci si vuole impadronire, ciò che si vuole conoscere, comprendere, nascosti i fogli, sulla scrivania – non ama far vedere cosa disegna –, i pastelli ancora sparsi, farla sua, ancora, appassionato e intenso, più di sempre. Come non l’ha mai neppure immaginato.

 

L’ha presa per mano, nella notte. I respiri sospesi.

L’ha portata alla finestra. Soffiava forte, il vento. La luna dominava sagome di tetti, comignoli. Illuminava a le tegole. Come la protagonista del cielo. Terso. Limpido.

È rimasto lì, dietro di lei, intrecciando le braccia alle sue. Sentiva la pelle di lui. Calda. Tutto. Le mani. Allacciate attorno al suo grembo. Salde. Delicate.

Era terribile. E meraviglioso.

L’ombra della sera.[2]

 

Tutto si è fatto buio all’improvviso.

E il gelo è sceso su di lui.

La testa che gira, nausea, persi i punti di riferimento usuali.

Si è ritrovato a terra, le mani fredde, madido di sudore.

“Oscar… aiutami…” ma era solo. E forse è stato meglio.

Ha avuto paura. Non adesso, ha implorato, come tra sé, non adesso. Perché gli pare ancora troppo presto.

È rimasto lì, il pavimento addosso. Ad aspettare che il vortice si placasse. La testa tra le mani.

Poi, lentamente, è passato.

Quando, con cautela, la luce che era tornata da un po’, si è alzato, piano, e, muovendosi, cauto, ha nascosto ogni traccia di quello che era accaduto. Perché lei non vedesse. E non si preoccupasse. 

Poi, era tardi, la notte, con gesti lenti, come fosse un rito, l’ha spogliata.

È rimasto lì, a contemplarla. Come a volerla imprimere nella memoria.

Percorrerla, piano, sfiorarla, in gesti delicati. Colmi di qualcosa che non era solo amore. Rispetto, forse. Un dolore struggente, lontano. Passione. Dolcezza. Rimpianto. Attesa.

Ha sentito un brivido, quando i capelli le hanno sfiorato il grembo. Come gelo. E fuoco. Il cuore martellava. Lui così vicino. Ne ha sentito vibrare il respiro, emozionato, su di sé. Labbra, ciglia. L’esitare delle mani. Calde. Osare appena sfiorarla. Cingerla.

Poi, in un silenzio commosso, sospeso, vincere l’imbarazzo, e, d’impulso, a circondarlo dei capelli, lunghi, l’ha avvolto. Come a proteggerlo. Onde che ricadevano su di lui. Le mani sulle sue. Su di sé. Come a dirgli ‘no, non muoverti, non andartene’. Più piccole. A non cancellare il ricordo della pelle di lui contro la sua. Il tocco. La sensazione del dorso. Vene. Dita. Polsi.

La paura. Il desiderio.

 

Sono rimasti così. A lungo.

Poi, l’ha accolto in sé.

 

Si è fermato a contemplarla. Rapito.

Era lì, alla scrivania. La scorgeva di spalle, totalmente concentrata, immersa. Un libro. Accanto, fogli, forse appunti. La gatta come fermacarte.

Una mano a scorrere lungo la cornice, la porta. Il muro. È scivolato via, piano, in silenzio. Per non turbare quell’immagine. Felice, di poterla ancora vedere. E la paura, dentro, a domandarsi per quanto ancora.

 

L’ha visto davvero stanco, negli ultimi giorni.

Lo contempla, un’immagine che le scalda il cuore. Una sensazione di dolcezza, appagamento, e pena. Si è addormentato, di traverso sul letto, come un bambino.

Si muove piano per non svegliarlo. Pensa che sono così pochi i momenti di tranquillità che riesce a godersi davvero. E, poi, la paura è sempre lì…[3]

 

Succede sempre più spesso, ormai, e sembra non voler passare mai.

Hanno paura. Tutti e due.

Ha avuto una bruttissima crisi, oggi, André. Si è spaventata, Oscar, ed è stato tremendo vederlo così. Erano di pattuglia, c’era anche lei, quando Alain ha gridato, dietro di lei, allarmato.

“André, cosa ti succede?” Le parole, quasi lontane, in un’eco.

Le si è gelato il sangue nelle vene. Nei gesti di angoscia, il movimento rapido dei capelli, l’ondeggiare delle spalline, ha visto lui, pallidissimo, irrigidito, lo sguardo vuoto. Alain, lì accanto, lo teneva per le spalle, cercava di rassicurarlo.

Lui è rimasto in silenzio, non voleva dirlo, il respiro spezzato. La mano, a cercare, nel vuoto, una presenza. Un contatto. Non ora… non adesso!

Gli è andata subito vicino. Gli ha stretto la mano. “Sono qui…”, ha sussurrato, piano. “Stai tranquillo…” mentre si domandava se fosse arrivato, il momento, e pensava che, no, non poteva essere, era troppo, troppo presto, c’erano ancora tante cose da fare, da vedere.

 

L’ha aiutato a smontare, Alain. Insieme, l’hanno condotto, piano. Lei, quasi di nascosto, che gli stringeva la mano, il viso accostato al suo, a registrare la tensione nel corpo di lui, che prima non aveva mai notato, l’istinto di mettere avanti le mani, a vedere nel buio. “Ci siamo quasi… ancora pochi passi….” E sentiva quasi il respiro che tratteneva, a tentare di governare il cuore in tumulto.

Gli altri sono rimasti di pattuglia, attoniti, in silenzio. Era frastornato, André, eppure, in qualche modo, aveva conservato la lucidità. Se ne è accorta, lei, quando si è resa conto – ma è stata più un’impressione – che contava i passi, sulla strada, fino al portone, poi, fino all’ingresso. Ha avuto una stretta al cuore. Quante volte, quante altre volte è accaduto? E quante prove avrà fatto, nella penombra dell’androne, il buio che lo avvolgeva, per essere pronto? Ma lo si è mai davvero, pronti…?

È a casa, ora. La schiena abbandonata contro il divano, tutta la stanchezza che affiora, quegli occhi sbarrati che la spaventano, e, a tratti, le palpebre si abbassano sullo sguardo, lontano, e, allora, lei pensa che sembra quasi com’era.

Avrebbe voluto piangere. Non c’è stato il tempo. Doveva pensare a lui. Proteggerlo. “Vado a chiamare il dottore”, ha annunciato, risoluta, ma la voce tremava.

“Aspetta”, l’ha trattenuta, lui.

“Ma…”

L’ha sentita voltarsi. I passi frenati, i capelli, lo spostamento d’aria.

“Aspetta… ora passa…”

“Voglio che il dottore ti visiti.” Torna indietro.

Percepisce la sua voce farsi più vicina.

“Non importa…” glissa.

“Sei impazzito?”

La sente, che si è chinata su di lui. I capelli lunghi lo sfiorano, ondeggiando.[4]

“Oscar… ogni tanto… succede”, confessa, allora, cercando le parole per dirlo.

“Stai scherzando?” Ora la voce suona aggressiva, ma è lo scoramento, è la rabbia, che sente Oscar, dentro. Un’occhiata carica di tensione ad Alain. Come a domandare ‘è vero?’

Annuisce, lui, serio.

Lo guarda male, molto male. Dopo me la paghi, ma ora bisogna pensare ad André. “Quando è successo?”

Poi, intuisce. “Quante altre volte è successo? Parla!”

“Vedrai che passa…” cerca di rassicurarla.

Neanche gli risponde. Si precipita fuori, un diavolo per capello, e il gelo della paura.

Sei un idiota!

 

È stanca, stanca da morire, ma non è il momento di mollare. Ora, lui ha bisogno d’aiuto.

 

“Perché, Oscar… tanto, non può dire altro…” è ancora frastornato. Le parole del dottore li hanno un po’ rassicurati, sono più tranquilli.

“Perché non lascerò niente di intentato.” Ma c’è da domandarlo, si chiede, furibonda?

“Il medico costa… non è il caso, proprio ora…” Alain si agita, imbarazzato.

“André, piantala con queste idiozie! Ha detto che devi riposare, che sei molto stanco, e ti darò qualche giorno di licenza. Poi, semmai, discuteremo se è il caso che lasci l’uniforme.” Sembra non lasciare spazio a repliche.

“No.” Placido. Deciso.

“No cosa?”

“Non lascio l’uniforme.” Si è alzato in piedi. Le mani in avanti, qualche passo incerto, a cercarla.

Oscar lo guarda, impressionata.

Alain, sempre più a disagio, si schiarisce la voce. Allunga una mano verso la gatta. Ancora di salvezza. Un musetto umido e tondo preme contro il palmo. “Vieni qui, ragazza…” rassegnato.

“Sei matto. Non puoi continuare così!” Un passo indietro. Urta una sedia. La felina e Alain si girano a guardarla.

André tende le mani verso lei. “Attenta…” Poi, non avendo risposta, “Ti sei fatta male?”

Scuote la testa, lei. Registra in ritardo che non la può vedere. “No…”

“Oscar, la paga mi serve.” Riprende, il tono raddolcito. Cerca le sue mani.

“Avrai quella di attendente.” Incrocia le dita con le sue. Si sente sciogliere. Lo ama. A volte, però, lo odia.

“Non puoi pagarmi tu. E avremo molte più spese, lo sai.” Il calore nella voce. Un passo ancora, gioca con le sue mani. Gliele raccoglie sul grembo. Nelle sue, calde. Lei pensa che è bellissimo. E spaventoso.

Alain avvampa. Ma proprio a me…

“Ah, ecco il signor papi che ricomincia!” Tenta di sdrammatizzare, rompendo la tensione. “E io che pensavo”, lo sfida, “che saresti rimasto a casa col pargolo! Ci contavo…” In effetti, ammette con se stessa, non era molto diversa la visione che si era prefigurata. Una specie di incubo mitigato da vaghi propositi di vendetta e schiavizzazione. Seriamente, aveva mentalmente fatto affidamento sulle capacità di lui.

Alain, sempre più imbarazzato, cerca di concentrarsi sulle evoluzioni della gatta, che è partita di ronron.

“Scusa, e tu?” Le si è fatto più vicino.

“Chi è che vuole il pargolo? Io no di certo…” Difficile argomentare a quella distanza. Intanto, sia pure a malincuore, ha scansato le mani da sé. Eppure, sente già come un vuoto. Un abisso. Neve, dove ardeva un fuoco.

“No, però…” Sembra deluso.

“Ehi, mica pretenderai di non assumerti nessuna responsabilità!” Meglio non pensarci. In fondo, è abituato…

“Va bene, ma tu?”

“Già te lo scodello… accontentati…”

“E non vuoi nemmeno… allattarlo?” Rosso in viso d’imbarazzo.

“Io?” Rossa pure lei, di sdegno e imbarazzo. “Mica sono una mucca!” Ecco un buon modo per spegnere ogni ardore! Grazie, Grandier, ci voleva proprio…

“Ehm… comandante, devo ricordarti che durante l’allattamento pare si eviti il concepimento, normalmente?” Azzarda.

“Ecco, lo senti?” fa eco André.

“Stai zitto, tu! Figurati cosa ne sa quello…!”

“Sempre più di te, a quanto pare…”, glissa, il Soisson, aereo.

“Banda di cretini…”

“E come pensi di fare?”

“Primo, esiste una felice istituzione retribuita chiamata balia: ode alla libertà delle donne! Secondo, il signor Grandier può cucinare quello che ritiene più appropriato, basta che non pretenda che lo faccio io! Si chiama collaborare.” Annota, precisa.

“Ma non sei gelosa? Una balia giovane, carina, piena di energie… lasceresti lui a piede libero con una ragazza in casa?”

Annuisce, compreso, André.

Stronzo di un Alain. “Come sarebbe giovane, carina, piena di energie? E io cosa sarei? Una vecchia strega decrepita? Guarda che lui ha un anno più di me!”

Stavolta André non osa annuire.

“Ti dico solo una cosa, Grandier: non provarci.” Lapidaria.

André non vede lo sguardo da killer, ma pensa che il tono gli basta. “Non calunniarmi…” Sconsolato.

Alain considera che è comunque una partita persa, ma che è troppo divertente stuzzicarla.

“E, poi”, incalza Alain, “forse preferisce le donne più prosperose…”. Provocatore. “Magari se ingrassi un po’ a lui non dispiace…”

“Io sono così”, tuona, inferocita. “Se non gli va bene, peggio per lui!” Poi, si rivolge al malcapitato: “Tu, Grandier, non ti tirerai indietro proprio ora: se vuoi un figlio, collabori, chiaro?” Le mani sui fianchi, imperiosa. “Se no…”

“No, no… va bene…”

“A casa mia questo si chiama ricatto…” commenta Alain.

“Beh, questa è casa mia e si chiama accordo.” Poi solleva la felina e gliela piazza in braccio. “Allenati con lei, noi andiamo a cucinare.”

Noi? Alain è sempre più perplesso. Una sindrome premestruale decisamente fuori tempo massimo…

 

Lo prende da parte “Tu lo sapevi?” Deve sfogare la tensione. La paura. Deve annullare, in qualche modo, quella terribile immagine di lui, cieco, sul divano, quei passi incerti per raggiungerla senza vederla.

“Sì.”

“Quante altre volte è successo?”

Alza le spalle. “Alcune… che importa…”

“Sei uno stronzo. Dovevi dirmelo.”

“E sentirmi dare dello stronzo anche da lui?”

“Minimo…” Lo guarda, infuriata.

“Io… io non sono come lui.” O, forse sì, in fondo.... La fissa. Sei bella… Meglio glissare. “Sai quanto sei importante per lui? Sai cosa farebbe pur di starti vicino?” Se tu fossi mia, non riuscirei a passare un attimo, lontano da te…

“E tu, lo sai che potrebbe farsi davvero male, a continuare così? È da incoscienti! Non voglio che gli succeda qualcosa…”

La prende per le spalle: “Pensi che non lo proteggerei?” L’ho già fatto, ricordi?

Lo guarda dritto negli occhi. “E se non bastasse?” Certo che ricordo… tutto… E sente un tuffo al cuore.

Resta lì, incatenata al suo sguardo, su di lei per un istante di troppo. E una morsa al cuore.

 

Si volta. È esausta. Le tremano ancora le mani.

Si passa le dita tra i capelli.

“Lo vedi com’è la situazione… già è complicato così…” Si sente improvvisamente debole, spaventata. “Come sarà, dopo? Lui che peggiora, e finirà per…” Le mani sugli occhi, “Dio, non voglio neanche pensarci… e anche un bambino… come faremo?” Si stringe le braccia contro il corpo. “Nessuno sembra rendersene conto…”

 

“Comandante, è normale avere paura… eppure, posso capire anche lui.” Le mani in tasca, appoggiato al muro. “Credo che per lui sia come una sfida…”

Abbassa il viso. “Certo.”

“Allora, lascialo fare. Che diritto hai di chiedergli di non vivere per stare tranquilla tu?”

“Già…” guarda lontano. “Ma non è questo… io farò qualunque cosa perché lui stia bene. Se ci sarà bisogno di legarlo, perché si curi, lo farò. Ma lui, nella situazione in cui siamo, non può tirarsi indietro, se c’è anche un solo mezzo per non peggiorare la vista.”

è molto bello da parte tua… ma sai benissimo che l’avrà vinta lui.” È troppo innamorato di te… Tace, ora, rassegnato. Non sa bene per che cosa. “Finirà per farsi davvero del male, per quanto ti ama…”

Lo osserva. “Molto, molto incoraggiante…”, ironizza. Sente improvvisamente freddo. Quanto è troppo, nell’amore, si domanda. Quando l’amore non è malato, quando l’amore è anche dare e non solo prendere, esiste un limite?

 

“Quando è successo?” A tavola, con loro, cerca di spezzare l’imbarazzo di André, nel doversi mostrare, e di lei, che preferirebbe non doverlo vedere così. È stato buffo vederli all’opera, André che dava a lei istruzioni su cotture, tempi, e Oscar che interrogava lui con lo sguardo: un tentativo impossibile di mediazione, esempi esasperati e totale ignoranza in materia culinaria.

Una domanda che la sorprende. È un conteggio tutto suo, quello che fa da quel giorno. Lui non ne parla mai e nessun altro ha mai chiesto.

“Più o meno un anno e mezzo fa.” Si ascolta rispondere, e la propria voce le suona triste. Sorda. A volte il pensiero, che taglia dentro, di quel giorno, torna. E ancora fa male. Come fosse ora.

“Come?”

E, mentre nel cuore le si agitano mille accuse, “Un incidente”, taglia corto lui, un’espressione quasi di fastidio, nell’evitare polemiche inutili.

“Ci sono troppi idioti a cui tenere un’arma in pugno dà alla testa…” chiosa lei, sarcastica. 

Gli è stata accanto, nei passi verso la stanza da letto. Dopo i saluti di rito, i ringraziamenti, ci vediamo domani.

Il corpo accanto al suo.

Pensava di aver accumulato un po’ di esperienza, a vederlo armeggiare in casa, ma è indicibile ciò che ha provato quel pomeriggio, quella sera. La sensazione tagliente del tempo che non si consumava.

 

Pareva una tortura, assistere ai movimenti incerti. Vedere, e desiderare poter distogliere gli occhi, le mani di lui cercare, a tentoni, nei gesti che prima erano consueti e che, con la vista che pure scendeva, comunque risultavano sicuri. Trasalire, agitata, e cercare di nasconderlo, ad ogni minimo urto, ostacolo, imprevisto. Ripensare a quando si è alzata e, standogli accanto, piano gli ha indicato dov’erano le posate, i piatti, la mano sopra la sua, sentire il viso così vicino al suo. E lui, che le aveva sorriso tranquillizzante, “Non è niente… tra poco passa...” poi, aveva inarcato la testa verso di lei, come a domandare una carezza. “Mi piace il tuo odore…”, le aveva sussurrato, abbandonandolesi contro. Mentre lei l’aveva stretto a sé, le braccia intrecciate. A sentire il suo calore. La sua presenza. In un brivido. Di gelo e passione.

Forse non sarà più lo stesso…

È strano osservarlo, senza neppure volerlo, sedersi sul letto in un modo in cui, prima, mai l’aveva fatto. O, forse, solo non se ne era accorta. Vedergli scorrere la mano sulla stoffa, a cercare le coordinate. Il comodino.

“Attento…” premurosa, ché non urti la candela. Poi, d’istinto, la spegne. Improvvisamente.

Gli scivola accanto. “Ora siamo al buio”, sussurra, in un respiro, la mano che scorre tra i suoi capelli, sul suo viso. A delineargli le labbra. Schiuderle. E già brucia. L’altra, più in basso.

Gli si preme contro.

Lo sente, caldo. Ogni punto, la sua pelle.

Scorrono attorno, le dita. Indugiano…

Si fa roco, il respiro.

Gli pare di impazzire, già al contatto coi seni, il ventre. Ogni volta.

E desiderare le mani di lui, e ricondurle a sé. Perché la sfiorino. La percorrano. Perché loro due non siano solo quel buio, quell’ansia sottile che oggi li divora. Perché si amano, loro, di un bene infinito, dell’affetto incondizionato che li unisce. Perché anche in quell’amore, in quei gesti, ritrovano la loro unione. Il loro legame. Profondo. Loro stessi. Tutto.

E vuole annullare, nell’avvolgerlo, in quel desiderio che pare non trovare scampo, e cresce; nelle braccia di lui, forti, che la serrano, e labbra e dita, a giocare di respiri sui seni, tesi; farlo con lentezza, ogni singolo attimo, ogni gesto; e averlo in sé non basta, serrarlo, volerlo, e s’inarca, di un piacere struggente e labile, la tristezza come d’averlo già perduto e desiderare poterlo avere ancora; tutta la paura, tutto il nero che sembrano pulsare, stanotte, sempre.

 

È l’alba, quando la luce, dalle persiane accostate, la sveglia.

Un calore, un tocco lieve, sul ventre.

Socchiude gli occhi. Sorpresa.

È su di sé, che lo trova.

Che pare contemplarla, commosso. Proteggerla.

Si accomoda piano, tra le sue braccia. Pigramente. Prova imbarazzo, per quella mano. E dolcezza. Infinita.

Una carezza, a sfiorargli il viso, intenerita. “Ciao…”

“Sei bellissima…”

 

 

Grazie, davvero, alle mie proof-reader. E' bello scambiare pareri con loro.

 

Laura, autunno-inverno 2005, gennaio-ottobre 2006, Pubblicazione sul sito Little Corner dell'ottobre 2006.

Continua...

Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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[1] Il negozio storico si trova in rue Rambuteau, 20, Châtelet Les Halles.

[2] X A. A Volterra. Ai nostri ricordi. All’effimera Ombra della sera.

[3] 11-8-06.

[4] Omaggio a Luana.