Alternate BK's Night

 Parte IV

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Nota: L’idea di questo racconto ce l’ho da quando, nell’autunno 1999, iniziai BK’s Night. Doveva trattarsi di uno spin-off da una frase pronunciata da André a p. 4 del mio file, al suo risveglio dopo il ferimento.

Quando ho ripreso in mano l’idea per scriverlo effettivamente, ho deciso di associarlo ad altre due suggestioni che avevo, anch’esse, in mente da anni, una cronologicamente collegata all’epoca in cui si svolge BK, l’altra ad un periodo successivo. Questa associazione ha comportato che, per far collimare le tre idee, io abbia dovuto spostare la scena che derivava dal BK originario all’anno successivo, poco prima della rivolta Réveillon.

Si tratta di un racconto che, comunque, riprende alcuni temi che mi interessano. Preferisco non anticiparli, se non quello, appunto, dei problemi che incontra André dopo il ferimento da parte del Cavaliere nero, e che si incarna nel titolo.

 

Nel nido della notte, con un braccio la cinge. Delicato. Attorno al ventre.

E lei si irrigidisce. Quel peso lieve le sembra una morsa che non la lascia respirare. Che la blocca.

Una gabbia d’amore che blocca il respiro e la soffoca.

 

Non è facile abbandonarsi al sonno, dopo l’aggressione. Sente ancora la violenza addosso. E soprattutto la paura di perdere lui. Di non poterlo vedere mai più. Per una decisione sbagliata. Un itinerario imprevisto. Una minima variazione nel corso degli eventi.

Ora, è lei che lo serra più forte. Come se potesse servire a rassicurarla che lui non andrà via. Non la lascerà sola. Mentre il respiro annega in una sensazione di ansia, paura e rabbia.

 

Si sente strana. Come sospesa sul mondo.

Cammina per i corridoi della caserma, e le sembra di essere distante da tutto. Anche nel tempo. Anche dalle voci, che la raggiungono e le richiedono attenzione in immagini non definite.

È difficile accettare quella nuova realtà. Pensare di aver accettato il fatto che stia accadendo proprio a lei.

Se pensa che è con lui, sì, questo l’aiuta. Conferisce alle sensazioni un aspetto diverso. Meno inaccettabile. Se pensa a com’è tra loro, scambi, sguardi, amore, affetto, allora può essere.

Ma è come dover cambiare natura, quasi improvvisamente, dopo una vita intera. E confrontarsi con chi le rimanda un’immagine fissa di lei. Rassicurante – e per chi, poi? -. Ferma, statica, stabile, nella sua diversità da sempre.

Lui è tranquillo come al solito. Fa le cose di sempre – sempre è una parola grossa, riflette, quando una casa propria permette, da relativamente poco tempo, nuove abitudini e, soprattutto, nuova e ampia libertà -, quando è libero legge molto, totalmente concentrato, e lei sente una pena immensa quando, in occhiate fugaci, scorge lo sguardo brillare veloce sulle righe, le dita poggiate sulla carta. A volte, lo vede armeggiare con fogli, serio, preso. Forse lo trova un po’ più protettivo, ma, riflette, probabilmente lo era già da prima, e si era solo trattenuto per non influenzarla. Non le dispiace averlo intorno, dolce, che la coccola. Che le dimostra che è davvero importante, nella sua vita. Detesta solo che succeda per quella particolare ragione – almeno secondo lei: in effetti non ha investigato sulle ragioni di lui -. E per il fatto che si sia decisa. Condannata, come dice lei.

Non riesce ad essere felice. Semmai, ora che una decisione è presa, prova un leggero senso di sollievo. Eppure, ogni tanto si lascia travolgere da lui, come fosse un gioco, e allora riesce a dimenticare. A sentirsi meno peggio.

 

Eppure, a volte la prende lo scoramento. L’angoscia.

“Come farò”, si domanda, spaventata. “Come potrò riuscirci?” Ha paura, è disperata. È qualcosa che aveva sempre considerato alieno dal corso della propria esistenza.

 Lo nota, André, era una delle reazioni che temeva, e cerca di starle accanto, di non farla sentire sola. “Ti prego, non avere paura… affronteremo tutto insieme, se vorrai.” La stringe forte, da dietro, mentre, accorato, pronuncia queste parole. E lei sembra farsi minuscola, cercare rifugio in lui, tra le sue braccia. Con una tenerezza, una pena infinite, le dice “passerà… sarà bellissimo”, le lacrime che scivolano sulla sua spalla.

È solo l’equilibrio che trova in André, in certi momenti, a darle la forza di non crollare.

Di andare avanti.

 

A volte, la stanchezza la prende a tradimento. Comincia a fare caldo. La schiena le fa male, a volte non ha forze. Per fortuna sono attimi.

 

Ha pensato a Rosalie, quando si è domandata a chi rivolgersi, per trovare una persona affidabile che potesse curare la casa, seguire la gatta quando loro non ci sono, e, magari, insegnare ad André a cucinare, chissà, potrebbe trovare la cosa costruttiva e lei coglierebbe due piccioni con una fava: risolverebbe l’annoso problema dell’alimentazione senza dipendere da altri e lui si sentirebbe più stimolato – anche se questa idea le procura disagio. E dolore.

Quando, però, Rosalie le ha proposto sua suocera, Oscar non è stata entusiasta. Non l’ha detto, ma sperava di coinvolgere lei, una persona fine, coltivata, educata. Quando ha incontrato la signora, poi, si è sinceramente preoccupata.

“E voi che siete?” Le ha chiesto, rude.

Oscar si è trattenuta a stento, mentre quella la squadrava, sospettosa e con aria di profonda disapprovazione.

“Comandante di reggimento”, ha risposto, ben sapendo che la domanda voleva significare altro.

Sfregandosi le mani rossicce e due braccia enormi dentro uno straccio, che ad Oscar, che pure non se ne intende, è parso vagamente lercio, ammicca verso di lei: “Vi vestite sempre così?”

Oscar le spalanca in faccia due occhi stravolti, incredula che si possa essere così turpi e ignoranti. Non le risponde, ma crede di capire perché Bernard vada dicendo in giro di essere orfano e, per giunta, di una bellissima ragazza sedotta da un nobile. Altro che bellissima, si è detta, di fronte a quella matrona terrificante, di cui si stenta a credere che Bernard possa effettivamente essere figlio. E si è domandata chi diavolo volesse poter sedurre una tipa simile.

“Ma l’ha adottato?”, ha domandato, piano, a Rosalie, chinandosi verso di lei.

La quale, con la massima naturalezza, semmai solo imbarazzata dal sentirla così vicina a lei, ha risposto “No, no…”

“E che vi serve?” Ha proseguito quella, sempre squadrandola.

“Qualcuno che si occupi della mia casa…”

“E non potete farlo da sola?” La guarda con ribrezzo, ora, scandalizzata da una donna fuori dai suoi schemi.

Aggrotta le sopracciglia, si raddrizza su tutta la sua statura.[1] “Evidentemente no…”

“E perché?”

“Perché posso permettermi che qualcuno lo faccia per me. Amo dedicare il mio tempo a cose più costruttive. E, in generale, ho altro da fare…”

Nessuna risposta dal donnone, ma un gesto di scherno. Fanno appena in tempo ad evitare il rumoroso espettorare che si stampa sulle assi del pianerottolo, mentre Oscar, che soffoca un’ondata di nausea, tira per un braccio Rosalie, lancia occhiate, fa cenni.

E, così, Oscar si è ritrovata a considerare un altro degli innumerevoli pregi del Grandier - l’essere inequivocabilmente e radicalmente orfano -, e ha glissato con la signora, al grido di “Grazie, terrò presente.”

 

Già per le scale, la risoluzione le si è profilata nitida, chiara nella mente. Di più: necessaria. Inevitabile. Appena fuori dal portone, ha preso da parte Rosalie. Placcata contro il muro, tenuta per le braccia – possibilmente evitando che le svenga lì per l’emozione di stare tra le braccia della sua eroina -. E prima che possa sfuggirle. È il momento della verità: “Non puoi farmi questo… lasciarmi in mano a quella… quella…”, ha esordito, senza mezzi termini. E non scherzava.

L’ha guardata perplessa, Rosalie. Non che non la capisca, fa presente, ma non ha davvero modo. Non ce la fa, tra il lavoro, la politica, casa sua…

“Devi occupartene tu.” Perentoria. “Dimmi quanto occorre.”

E, vincendo, con i suoi migliori argomenti, e sentendosi vagamente ignobile ed approfittatrice, le ritrosie e i dubbi della ragazza, le ha cacciato in mano una somma di denaro. “Decidi tu il prezzo. Quello che riterrai giusto, ma non farmi questo! Almeno finché non ne trovo un’altra. Anzi, se me la cerchi tu, di tua fiducia, se la trovi…” lascia cadere lì, sapendo che Rosalie mai la lascerebbe in mani altrui.

E come rifiutare qualcosa ad Oscar? Lo sa benissimo, Oscar. Che ha giocato su questo, servendosene spudoratamente. E lo sa anche Rosalie, di non avere scampo. Non che le sia accaduto spesso che qualcuno la pregasse di accettare un lavoro – tranne quell’increscioso incidente con Mirabeau -, ma farsi pagare da Oscar la fa sentire a disagio. E, tuttavia, non può permettersi di farlo gratis. Preferirebbe, è chiaro, non avere questioni di soldi in ballo con lei.

È sempre più perplessa, ma in fondo la capisce. Oscar è una persona discreta, riservata, e vedersi per la casa quella che pare un mantice umano,[2] urla anziché parlare, è pettegola, saccente, ignorante, oltre che ruvida, non può certo farle piacere o darle un aiuto. Sarebbe solo un problema.

E, poi, preferisce essere lei. La conosce. Ne ha rispetto. Meglio lei che un estraneo.

E, così, ha accettato…

Non dispiace neppure ad Oscar, in fondo. Spera solo che la ragazza non si attacchi ulteriormente a lei. Sa che è affidabile e solida, chissà, magari spera anche che semmai l’aiuti dopo - con calma e discrezione, si dice subito - non vuole intrusioni nella sua vita privata: a volte vorrebbe fuggire via, lontano, e lasciarsi tutto indietro - ma sicuramente ne capisce più di lei -, ma per ora non le dice niente, temendo la sua proverbiale, sollecita invadenza.

Le ha affidato la gatta, quando loro non ci sono e la sua gestione, anche se ha notato la riluttanza di chi non si è potuto permettere sfizi e capricci e ritiene che i felini servano solo a cacciare i topi – “anche”, ha puntualizzato Oscar, sperando di convertirla ma disperando di riuscire nell’impresa – e non vadano sfamati a parte, e sontuosamente, né fatti oggetto di affetto e coccole. Ma l’ha convinta, ed è questo che conta. Sa che per lei è importante e lo farà. Si sono accordate che farà trovare pronto e sistemato, per il loro rientro. E casa vuota, s’intende. Ci è anche rimasta un po’ male, d’altronde quella è comunque una manifestazione di fiducia, da parte di Oscar.

 

“Potresti provare a spiegare ad André qualcosa di cucina… forse potreste cercare un libro”, le ha suggerito.

Stralunata, non che non s’aspettasse qualcosa di simile, Rosalie non sa bene come prestarsi al compito. Ma stare con Oscar ha accresciuto le sue risorse, così si è fatta un giro in libreria, con André, e hanno preso una copia del famoso volume del Menon,[3] scritta ben in grande – si è raccomandata Oscar, perché, ha spiegato, non vuole che André stanchi la vista, ma desidera che si tenga occupato. Rosalie non ha risposto. Ma ha capito benissimo. È devota, troppo affettuosa, ma non è stupida.

“Non hai mai cucinato… come faremo…” si preoccupa lei.

“E come avrei trovato il tempo”, quasi si giustifica lui. “Ma non c’è un libro per uomini…” domanda, perplesso di fronte al cuisinière del titolo.

“André”, lo riprende Rosalie, “gli uomini fanno i cuochi. Ad alto livello. Pagati. Esistono libri per cuochi. Di alta cucina. Le donne fanno le sguattere, le mogli, e questo è un libro per donne di casa...” chiosa, non saprebbe dire, André, se con rassegnazione o cinismo.

Ma poi si ritrova a considerare che, in fondo, se lei fa un lavoro da uomo, lui… e sorride, divertito da quella commedia degli equivoci.

 

Non è male stare lì, con lui, curioso e creativo, insegnargli, paziente. Un po’ meno pulire i vari inevitabili schizzi. La scienza ha sempre richiesto le sue vittime. Ma lei comincia a meditare che, forse, è il caso di dare al Grandier anche lezioni di pulizia della casa. Per il bene suo e della strana coppia. Si divertono, hanno un sacco di ricordi in comune e, ora che il peggio sembra passato, ora che entrambi sembrano aver trovato un po’ di stabilità, ripensare al passato fa meno male.

 

 

Diluvia.

La pioggia batte insistente sui vetri. L’acqua scivola giù, avvolge i rumori. Li sovrasta, scorrendo.

È così dalla mattina.

È rimasta rannicchiata in quell’angolo per ore. Le mani a nascondere il viso. E le lacrime. Piena di paura. A domandarsi come farà. Come potrà riuscirci.[4]

Sente il pavimento e il muro, freddi, contro il corpo. Ha i brividi. Eppure non riesce a muoversi. Come inchiodata. Senza la forza, la volontà, il coraggio di alzarsi. Di affrontare la vita. Il nemico.

Ormai è buio, fuori, si rende conto, in un’occhiata di desolazione.

Non se la sente. Ha una paura fottuta. Pronta a riemergere, quando contava di averla domata.

Di non deluderlo. Di essere coraggiosa.

Ma non ce la fa. Si sente malissimo, all’idea di restare inchiodata per dimostrare qualcosa a lui. A se stessa. Non capisce neanche cosa vuole fare. Solo la paura, quella sensazione di non riuscire più a sopportare quello che sta accadendo. L’unico conforto delle lacrime.

La gatta è rimasta un po’ lì, accanto a lei, poi, quando ha visto che non reagiva alle coccole, triste se ne è andata.

È un’egoista? Pensa solo a se stessa? È un male esserlo? Sono mille pensieri, quelli che si intrecciano, con altrettante voci, urlate, sommesse, importune, suadenti, nella mente. Il cuore non rallenta i battiti veloci, ma a volte pare fermarsi, soffocato nel petto.

La paura non basta, per sé. È anche per lui. Si dice che, se lui non stesse così, forse sarebbe più semplice tutto quanto. Meno pressioni. Meno impressioni di ricatto. Ma sa che è falso. Sa che lui non ha attuato alcuna forma di coercizione. Sa che è tutto nella sua testa. E non ce la fa a reagire.

Non si riscuote neppure quando sente il rumore della chiave nella serratura. I passi. Soliti. Che conosce. Si tappa le orecchie, per non sentire la voce di lui, che, lo sa, ora si abbasserà a salutare la gatta, grattatina sulla testa e coccole, e poi noterà che lei dovrebbe esserci, il mantello abbandonato fuori posto.

Lasciami qui, pensa. Prega. Lasciami in pace, André.

Io non voglio vedere nessuno. Voglio scomparire. Dimenticare tutto.

Lasciami in pace e vai via…

 

È scivolata via prima che la trovasse. Corsa a nascondere i segni della crisi. Nell’oscurità della camera. Dove sa che lui potrebbe non notarli. Si sente perfida. Ferita. Sola. Senza scampo.

Non ce la fa. Sta facendo violenza a se stessa.

Non si gira a salutarlo, quando lui la cerca. Resta rigida, nell’abbraccio di lui. I capelli umidi che la bagnano. In un altro momento, sarebbe preoccupata per lui, gli direbbe di asciugarsi. Invece risponde a monosillabi, tesa. Come se avesse un motivo di rancore con lui. E forse è così.

Forse dovrebbe sottrarsi. Uscire. Sparire lei.

 

“Che cosa c’è?” Si è seduto accanto a lei, una carezza. La voce premurosa. Preoccupata.

Lo guarda gelida. E per non fargli altro male, sfugge. Lasciandolo lì, desolato.

 

“Oscar, ti prego…”

Ha un’aria distrutta, seduta lì, sola. Le braccia abbandonate.

Piega il materasso sotto il peso. Lo sente accanto a sé. Gira la testa dall’altra parte, infastidita.

Stasera sembra alla ricerca dell’infelicità, in cui annegarsi. Macerare.

Le si avvicina, in un bacio timido. “Amore…”

E lei già si sente peggio. Sopraffatta da rabbia e sensi di colpa. Frustrazione e tenerezza.

Come fa? Come fa ad essere così, lui? Così tranquillo, nonostante tutto?

“Oscar, ti prego…” ripete. Si appoggia accanto a lei.

È tutta la sera che è strana. Si è come nascosta sotto le coperte. Sembra volergli opporre tutta la sua forza. Annientarlo.

Eppure lo sente, lui, che non è così. Che è un dolore tremendo quello che le ruba la serenità. Crede di conoscere il modo in cui lei può sentirsi violata. Costretta.

“Credo di sapere come ti senti…”

No che non lo sai, stronzo!

“Cosa vuoi che facciamo…”

“Cosa vuoi che facciamo?” Esplode. Furiosa. “Niente! È semplice, per te!” Si alza di scatto. Fa in tempo a stringerle una mano mentre sfugge verso la porta.

La guarda. Sembra rattristato.

“No, Oscar, non è semplice.” Il tono serio. “Per nessuno di noi due.”

Si libera dalla stretta di lui. Vuole solo andare via, lontano. Sparire.

Urta una sedia, lo spigolo del tavolo. Sfugge fuori, velocissima, nella sera.

“Aspetta! Piove…”

Via, i passi nell’acqua che in rivoli[5] annega le strade, l’acqua che gela le scarpe e le scivola addosso. Via, dove sa che lui non può trovarla. Lui che quasi non vede… non vede… non vede… non vuole più pensarci, basta! Corre. Senza fermarsi. Sfinendosi. Nella mente quelle parole assurde che si ripetono, infinite, disturbanti. Dolorose. Gli scarsi passanti che sfidano il maltempo, irrigiditi, che la guardano curiosi. Sorpresi. Come leggermente disturbati dall’anomalia nell’aspetto e nel succedersi consueto delle cose. La corsa rispetto ai loro passi. La tensione rispetto alla loro quiete.

Svolta veloce un angolo, raggiunge la spalletta del ponte. Resta lì, le mani appoggiate alla pietra, a riprendere fiato, i capelli fradici che ondeggiano in avanti, seguendo il movimento del suo corpo, senza voltarsi. Almeno del fatto che non riuscirà a trovarla è sicura. Una certezza, nella vita… almeno una. Ironizza.

Se solo riuscisse a calmarsi. A lasciar passare questo momento nero…

Si asciuga le lacrime, le sente come stupita sulla pelle della mano, ora, mescolarsi tiepide alla pioggia che la avvolge e le gela addosso.

 

Si stringe in un brivido. Mentre un mantello si posa attorno alle sue spalle.

Ricorda un altro sguardo. Sano, allora. Altra pioggia. Un sorriso lieve, fiducioso. Il mantello che, caldo del contatto col corpo di lui, l’aveva avvolta. Un contatto infinitesimale, tra loro. Braccio. Fianco. Gamba. Era stato allora, si domanda, che era cominciato? Era stato allora, si perde nel ricordo, che aveva iniziato ad aprirsi a lui? A lasciare che lui l’accogliesse?

“Pensavi non ti avrei trovato, vero?” Risentito, dietro di lei. Quanto male vuoi farti? Quanto vuoi farmene? A che punto dovremo arrivare, perché tu sia soddisfatta di poter soffrire indisturbata? Perché tu arrivi a rimpiangere quello che hai buttato via?

“Sembra più che altro che l’abbia sperato…” ammette. Non ha più voglia di lottare. Di accanirsi. Di fargli del male. Di farsene. Di gente che ce l’ha con lei o sfoga nei suoi confronti le proprie frustrazioni ne ha già abbastanza. Non è il caso di applicare il fai da te anche in questo caso.

Lui ha un sorriso. Se riesce a fare una battuta, allora, forse sta passando.

Si stringe il mantello addosso e incontra le mani di lui. Fredde. Non le scaccia. “Inutilmente…” continua il discorso di prima. Ma sembra riferirsi anche a loro due. Gli si appoggia contro, come sfinita. Serra le dita sulle mani. “Finché non sarai stanco di rincorrermi…”

“O finché sarò in grado di farlo…” rattristato. Serio.

“Mi dispiace”, china la testa, le lacrime ricominciano a scorrere. Quanto ancora potrà vedere, si domanda.

“Donna crudele”, cerca di buttarla sullo scherzo, “e se fossi caduto nella Senna e fossi annegato?” Cerca una reazione. Un appiglio. Poi, si vedrà. Purché smetta di essere così triste.

“Ma figurati…” Un’ombra di calore, nella voce, tra i singhiozzi. “Galleggi benissimo”, dandogli implicitamente dello stronzo.

“Travolto da un cavallo?”

“Cretino, ci senti benissimo…”

“Sì, ma se sono preoccupato di trovare te, non posso fare attenzione a tutti i rumori…”

Si irrigidisce, lei. È la prima volta che accenna così apertamente ai problemi che ha.

“Scusami…”

Sente meno dolore, dopo la fuga. Fare del male a qualcuno distrae dall’accanirsi a farlo a se stessi. Impegnare il corpo, a volte, distoglie la mente. Lasciarsi consolare da lui aiuta. Si sente un po’ più distante, da prima. Un po’ meno peggio.

“Andiamo a casa…” le dice piano, il viso chino su di lei, mentre la cinge per le spalle, protettivo.

 

La casa, vuota, dava una sensazione di abbandono, quando sono rientrati. Non vuole provare di nuovo una sensazione simile. Si è spaventata, alla consapevolezza degli effetti di quello che può fare. Non è quello, che voleva. Non è distruggere loro due. La loro realtà. Le loro vite. No.

Sono rimasti a lungo seduti, nel buio, tenendosi per mano, a parlare piano. Illuminati solo dalle fiamme del camino. Nella notte.

Sono state parole sommesse e vere. Non ha voluto nascondersi dietro la cautela, lui. Dietro la paura di ferirla. Le ha parlato chiaro. Un’analisi lucida della situazione. Di quelle che ritiene siano le sue paure. Il suo bisogno di autodistruggersi. Di quella che è la loro condizione. Non quella che a lei pare. Quella che è. Del loro legame. Di lui. Delle sue paure.

“Mi fa paura l’idea di svegliarmi, e non trovarti. Non trovarti più…” guarda lontano. “Di aprire gli occhi e non vedere… ogni mattina…”

Non si è nascosto. Ha risposto, aprendola al suo abisso. La vuole ancora, dopo aver conosciuto l’inferno che ha dentro. Sa di poterlo sconfiggere. Sa di poterla far vivere. Perché, anche se Oscar non se ne rende conto, lei vuole vivere. Ne ha solo paura.

 

La solleva piano, silenzioso.

Attraversa, nel buio, la casa. La posa, delicato, sul letto, coprendola.

Piove ancora, pensa, mentre resta lì, accanto a lei, scostandole piano i capelli dal viso, nell’immensità dell’alba.

 

C’è più animazione, a quell’ora, nelle vie. Sfreccia, veloce, superando vetrine, negozi, mentre la gente si attarda. Si sente strana, rispetto a loro. Si è sempre sentita diversa. Poi, è un attimo, soffermarsi a notare di sfuggita la propria immagine riflessa, stupirsi. Vedersi dall’esterno. E qualcosa che la colpisce, dentro, come un fulmine. Nostro…

Quasi non osa respirare. Non ci posso credere… come una rivelazione. Un bambino nostro… quasi si commuove, al pensiero, … nato da me e da lui… E resta lì, sorpresa, annichilita, emozionata, a domandarsi come sarà…

 

Rientra in casa con l’aria di chi è stato investito da un uragano. Svagata, stranita.

Incontra gli occhioni verdi della micia, un “Mao” di saluto, lunga e ampia carezza sul manto, ronron grato, completato da smusata sulla gamba e riempimento della ciotola. Sempre. E acqua fresca per la gatta.

È stanca, come sulle nuvole.

Si siede a terra, nel suo solito posto, le mani abbandonate in grembo, la testa all’indietro. Il nostro bambino… il nostro. Mentre le lacrime si liberano e lei neanche le asciuga. Resta lì, sente solo che ora è meno dura.

La raggiunge, dopo un po’, la felina. Si piazza lì accanto. Il musetto sulla gamba, delicatissima.

Socchiude gli occhi, la mano scende a lei, e il ronron riprende, sommesso.

Le sorride. “Sai che tra un po’ avremo un cucciolino, qui…” gioca con le dita sul manto. “Chissà cosa ti sembrerà… sarà più piccolo di te…” poi, si sofferma a considerare che chissà quante ne ha viste, lei, nella vita, e che, probabilmente, gli unici sprovveduti in fatto di cuccioli sono loro due.

 

La trova così, abbandonata contro il muro. Prova una tenerezza infinita, nell’avvicinarsi. Gratitudine, nel poterla ancora vedere. Le scosta piano i capelli, e le tracce si notano ancora.

Uno sguardo interrogativo incrocia l’altro verde, felino. Si inginocchia, in una carezza “Cos’è successo…”, domanda, piano, e gli sembra che quegli occhi verdi possano parlare.

Poi, piano, la solleva.

 

La mette a letto, delicato. Sa quanto sia affaticata, ultimamente. E sa anche che ora le è più facile stancarsi. Non ha smesso di fare niente, al lavoro dà sempre il massimo, e ora c’è anche l’impegno di una casa loro. È stato un periodo pesantissimo, si rende conto. E vorrebbe non averla coinvolta, eppure, è orgoglioso di lei, e felice. Egoisticamente felice. Resta lì, accanto a lei, a godersi ogni attimo in cui ancora riesce a vederla. Controlla, ora che lei dorme, e lo fa ogni volta, quando spera lei non lo noti, i cambiamenti del suo corpo, la linea più piena del seno, sotto la camicia, più morbida del ventre, che tende un po’ i calzoni ma la cintura nasconde bene. Prova un miscuglio strano di tenerezza e ardore. Starebbe ore ad accarezzarla e coccolarla, e altrettante a scoparsela, tanto la desidera. È incredibile pensare che stia succedendo a loro due. Che stiano facendo insieme questa cosa. Che, dentro di lei, ora, stia crescendo il loro bambino. È straordinario, e si commuove all’idea. Ogni volta. Gli viene da ridere, se lei si sveglia, ora, e lo trova lì, come uno scemo, a piangere con l’aria ebete.

Meglio lasciarla tranquilla, e andare a sistemare, di là, c’è la cena da preparare. O, forse, approfittarne per spogliarla, con la scusa di metterla a letto, e convincerla a spassarsela un po’. Se ne ha le forze. O lasciarla dormire ancora – si sente magnanimo -, cucinare, poi, al risveglio, attenderla al varco, pre o post cena. Si sente sommamente fortunato, a godersi il privilegio di lambiccarsi dietro questi epocali interrogativi, mentre, piano, lascia la stanza e lei, sorridendo, e asciugando silenzioso le lacrime.

 

Laura, autunno-inverno 2005, gennaio-aprile 2006, maggio 2006, Pubblicazione sul sito Little Corner del maggio 2006.

Continua...

Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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[1] Citazione dalla Migliavacca…

[2] Citazione da CAMILLERI, L’odore della notte, Sellerio, 2000.

[3] La Cuisinière bourgeoise, la cui prima edizione risale al 1746, fu un vero best-seller tra i libri di ricette francesi del Settecento. Il volume fu la prima racolta di ricette espressamente indirizzato alle donne in quanto, a differenza che nelle élite, dove, solo nel Settecento la presenza femminile superò di gran lunga quella maschile, nelle classi medie la preparazione del cibo era compito loro. Prima di esso si erano viste solo opere di cuochi destinate a cuochi.

[4] Appunto sms 17-3-06.

[5] Grazie a Luana che mi ha aiutato a scegliere tra le due espressioni “nell’acqua che in rivoli/nei rivoli d’acqua” tra le quali ero incerta.