Alternate BK's Night

 Parte II

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Nota: L’idea di questo racconto ce l’ho da quando, nell’autunno 1999, iniziai BK’s Night. Doveva trattarsi di uno spin-off da una frase pronunciata da André a p. 4 del mio file, al suo risveglio dopo il ferimento.

Quando ho ripreso in mano l’idea per scriverlo effettivamente, ho deciso di associarlo ad altre due suggestioni che avevo, anch’esse, in mente da anni, una cronologicamente collegata all’epoca in cui si svolge BK, l’altra ad un periodo successivo. Questa associazione ha comportato che, per far collimare le tre idee, io abbia dovuto spostare la scena che derivava dal BK originario all’anno successivo, poco prima della rivolta Réveillon.

Si tratta di un racconto che, comunque, riprende alcuni temi che mi interessano. Preferisco non anticiparli, se non quello, appunto, dei problemi che incontra André dopo il ferimento da parte del Cavaliere nero, e che si incarna nel titolo.

 

Sta seduto, così, al tavolo e la nonna lo guarda che sembra triste. E anche Oscar è strana. Non spiccica una parola da giorni e ora si è portata in camera il tea senza biscotti. Non sarà che avranno combinato un guaio, questi due incoscienti, che io lo so che le fasce che lavo per Oscar sono solo striate da mesi… dio ce ne scampi, che farebbe la mia bambina? E chi lo tiene, il padrone…

Forse con la nonna potrebbe parlare. Certo, gliene darebbe di santa ragione, per quello che ha combinato – anche se non era solo -, ma almeno lo aiuterebbe a portare quel peso. Non è solo quello che Oscar deciderà di fare, perché riesce a comprendere il punto di vista di lei, le sue paure, i suoi dubbi. E’ anche che lui stesso da una parte è saldo e determinato, ma, dall’altra, non è sicuro di quello che sta per fare, della responsabilità di chiedere delle scelte ad Oscar, di decidere per sé, e anche, di fatto, per Oscar e per loro figlio. Perché è un estremo atto di egoismo desiderare e peggio desiderare che le cose vadano come si vorrebbe soltanto noi, volere una persona accanto a noi e poi non considerare se sapremo essere all’altezza di quell’amore o delle sue aspettative – e non solo delle nostre -, così come lo è chiedere ad una ragazza di far nascere nostro figlio, peggio poi se la ragazza ha vissuto per una vita intera senza questa idea, e ad un bambino imporre una vita che non ha chiesto e che presto si risolverà nella consapevolezza di dover morire, di dover perdere quelli che ama, di non avere comunque scampo… E, peggio ancora, se si sta per diventare ciechi e non si sa davvero cosa ci riserverà il futuro. O, forse, è l’unico atto di folle orgoglio concesso all’essere umano, questa speranza di futuro.

In fondo, la vita è una gran fregatura, e il fatto stesso di ritrovarsi nato non lo autorizza ad imporre la stessa condizione a qualcun altro.

E’ incerto se provare a parlarle. Ma se lo facesse la tregua per Oscar soprattutto sarebbe finita. Decide di tacere, sarà lei, semmai, a fare un passo. Certo che alla nonna non dispiacerebbe un nipotino… chissà se ci pensa mai.

 

Cammina furiosa per i corridoi, mentre lame di luce si alternano a zone d’ombra e il pulviscolo le riempie. In certi momenti si scopre ad aver paura che un movimento sbagliato potrebbe fare del male al bambino. In altri quasi desidera che un evento sfortunato quanto imprevedibile ed atteso metta fine al tutto e la liberi, senza che debba farlo lei. E’ così stanca… si sente da schifo.

Vorrebbe prendere a schiaffi André e che in quello sfogo antico tutto potesse terminare.

Ha paura. Paura dei gesti che prima compiva normalmente. E di quelli di lui. Si sente vulnerabile, e forte, schiacciata e come se detenesse un potere. Ma dove s’è cacciato?

Sale veloce e leggera le scale fino alla torre.

Lo squadra, esasperata, dai gradini dietro l’angolo. Eccolo là

Poi, quando lo vede, sente una pena infinita. E una stretta al cuore. Ma cosa fai…

Lui è seduto a terra, la testa tra le mani, e fissa il vuoto, muto. Un’espressione indecifrabile. Dopo, lentamente, come incredulo, si porta le mani davanti agli occhi, sbarrati. Le muove, aggrotta le sopracciglia. Scuote la testa, se la prende tra le mani, di nuovo, in un gesto disperato.

Lei resta immobile, gelata, a cercare di fare i conti con se stessa -- se ha capito male o se quello che vede significa quello che pensa. Poi quasi teme di far rumore, nel respiro che le invade il cuore e che trattiene tra le labbra.

In un attimo gli è accanto, inginocchiata. Gli prende le mani.

Lui alza la testa stupito, uno sguardo vuoto, sospeso.

“Che cosa succede, André…” Si gira verso di lei solo quando sente la voce. Cercando di correggere lo sguardo…

Le trema la voce. “Tu non ci vedi…” Lo scuote per le spalle. “Tu non ci vedi più, vero?”

Stringe gli occhi… ti prego, fa’ che passi… Le mani corrono verso il viso di lei, a cercarne i contorni. A lei si serra il cuore.

“No, no, stai tranquilla, Oscar… è passato… è solo stanchezza…”

Le circonda le spalle. “Non è niente…” e la attrae a sé. “Ora, vieni qui e resta vicino a me”, la stringe più forte, “e promettimi che non mi lascerai”.

Oscar prova un brivido a quelle parole. Dal basso osserva il viso di lui, la linea della mandibola, le ciglia lunghe, lo sguardo lontano, il collo. Si abbandona contro di lui, i capelli che gli spiovono sul petto.

Lui sospira, come soddisfatto, come se gli bastasse averla accanto, così, semplicemente, per essere appagato. Ma le dita sono gelate e un rivolo di sudore scivola freddo dalla fronte. E così la serra più stretta a sé.

 

Quando scendono, si rende conto di guardare quelle mura e quelle stanze con una distanza che prima non aveva mai provato. Come se fosse passata una vita intera in pochi momenti. E’ davvero il tempo di andarsene…

E di osservare, ora, con occhi diversi i movimenti di André. Come se quello che prima non aveva saputo riconoscere, ora balzasse all’evidenza senza nessuno sforzo.

Un respiro trattenuto. Un peso enorme, dentro. Si domanda come abbia potuto non rendersi conto di cosa gli stava succedendo: a guardarlo, con questa consapevolezza, adesso, è chiarissimo quanti sforzi faccia per tentare di non far notare niente, ma come muova le mani, a precederlo, la postura, lo sguardo che sembra lontano, la lentezza. E le ritornano in mente, in un attimo, mille particolari che aveva archiviato senza dare loro peso, ma che finiscono per assumere un senso ben preciso.

È chiaro, lui ha negato, testardo incosciente, e maneggia armi, continua a fare come niente fosse, ma ora lo sa… e prova una pena infinita, un dolore sordo, e rabbia e senso di colpa. Perché è dovuto succedere proprio a lui? Che non lo merita. È piena di paura. Ha il respiro tagliato. I pensieri si affastellano, il sudore gela, le mani tremano. Come si sarà sentito, quando l’avrà capito? Come sarà riuscito a fare i conti con quella realtà… come avrà vissuto, passo passo, a contatto col buio, con le cose che sfumavano? Con la paura… Avrà sperato che passasse, che si trattasse di un peggioramento transitorio? E, poi, fare i conti con la realtà. Accettarla. Una mano corre a lui. Gli stringe la sua. Un contatto. Un gesto di calore umano. Lui si volta, e le sorride. E ricambia la stretta. E la trattiene tra le dita.

Si domanda come starà, lui, quando sarà completamente cieco… ed è terribile anche solo il pensiero di quell’idea. Il concepire di doversi porre quella domanda. Che vita farà? E come faranno, loro due? Come cambierà, tra loro? Come sarà, dover accettare quella menomazione, in due? Da una parte, è terrorizzata, perché, nel suo profondo egoismo, si rende conto che molte cose, che finora si era accollato lui, peseranno su di lei e un figlio non è certo una responsabilità da poco, in una situazione del genere. Dall’altra, ora capisce perché lui vorrebbe un’oasi di normalità, in una condizione che gli sta sfuggendo di mano e che presto lo ridurrà a dipendere dagli altri. La sua sfida. Che qualcuno ancora possa riporre fiducia in lui, nonostante tutto.

Ma è giusto non fare un figlio per paura o farlo nascere per pietà o sfida?

André si muove lentamente, il passo rigido, il busto eretto, la mano destra che impercettibilmente scorre lungo le pareti, anche se cerca di nasconderla. Le fa paura vederlo così. “è buio”, si giustifica lui, intuendo quel disagio silenzioso.

Scendono in silenzio. Tenendosi per mano.

Quando le scale sembrano non poter finire mai.

E lei, che non ce la fa più a vederlo così, gli si fa più vicina, gli cinge la vita, a guidarlo, le dita intrecciate al braccio con cui lui, grato, l’ha stretta più forte a sé.

 

Accende, nella sua stanza, tutte le candele della notte.

Lei si guarda intorno come spaesata. “La troveremo una casa che abbia una camera da letto col caminetto?” mentre si china a sistemare le braci e resta lì a cercare di scaldarsi le mani e il cuore.

Mentre lui, pallido, sembra più solo nella notte.

 

La può vedere, ora, alla luce delle fiamme. Stringe gli occhi per mettere meglio a fuoco, ma la vede. E la percorre con le mani.

L’ha fatta stendere, le ha tolto, come in una cerimonia, piano, i vestiti, mentre lei quasi tratteneva il respiro.

E’ rimasto lì, steso accanto a lei, a guardarla, intenso. Come per imprimersela in mente. A respirare in silenzio insieme a lei.

“E’ vero, è diverso”, le sussurra, pensoso, piano, percorrendole un seno, mentre la fa gemere. “Avrei dovuto accorgermene…” in un sorriso dolce e lontano. Sente le dita di lui serrarla. E, nonostante, tutto, un disagio di piacere crescere. E pena per lui. E per se stessa.

E’ quasi infastidita. Abbassa lo sguardo, André ha ragione… si sente triste e vinta. Eppure è bello, sembra scolpito, quel seno, tra le sue dita.

“E anche qui…”, le carezza piano e caldo il ventre, che ora si nota appena un po’, posandoci leggero la testa. Oscar si sente morire. A quel contatto. Ai capelli di lui addosso. “E’ così bello, poterti guardare.” Al respiro ed alle parole dalle labbra di lui, che le sfiorano la pelle e a quelle parole, che la uccidono. “Immaginare come sarai…” Un tuffo di pena al cuore, e un brivido di eccitazione bruciante. Com’è possibile che due sensazioni così contrastanti convivano in un unico attimo… Le pare di sentire scorrere le lacrime di lui, su di lei. Gli circonda la testa in un abbraccio silenzioso, mentre, il viso di lato, lascia che anche le sue lacrime scorrano e la liberino un po’ di quel peso, e di tutte le paure, per lui, perché ora lo sa, e per sé. Spera che lui non se ne accorga, che resti così, a farla sentire unica e disperata.

E’ notte fonda quando, lento, si stacca da lei, che sembra addormentata.

E nella notte, la prende, e la fa sua. Senza più limiti. Senza più remore. E così è anche per lei, che lo spinge dentro di sé fino a desiderarlo all’infinito, attraendolo e prendendolo fino in fondo, ora, sempre, soffocando a stento le grida di un piacere disperato e totale. Se devono portare su di sé le colpe del mondo, se devono scontare l’amore rubato dei loro incontri, allora, almeno, questo.

 

L’alba li coglie in un abbraccio disperato.

 

 

La stanza non è grande, nella penombra interrotta dalla luce che filtra dalle finestre, ma si scalderà prima. Ne hanno viste di case, topaie, palazzetti, camere ammassate, alloggi di fortuna. E’ incredibile cosa la gente cerchi di affittare o vendere. E i disperati abboccano… o, meglio, non hanno scelta. Siamo disperati, noi, che ci scambiamo sguardi d’intesa ed espressioni divertite, noi che di una casa abbiamo bisogno davvero, ma possiamo permetterci qualcosa di più e di ridere di quello che per altri è il non plus ultra? Noi che siamo attesi al varco – pochi mesi, e non avremo scampo -, mentre, mano nella mano, come due scemi ci guardiamo attorno e ci concediamo questo piccolo sogno?

Si lascia attorno uno sguardo, bella, triste e riluttante. In fondo, ha già deciso sulla casa. Le è bastato scambiare un’occhiata con lui. “Ma sì, va bene…”

 

E’ così che adottano quella casa, ma, più che altro, l’enorme gatto appollaiato davanti alla porta. “Era del precedente proprietario”, spiegano loro, “e, da quando è morto, non ne vuole sapere di andarsene…”

Oscar e André si inginocchiano, stupiti di trovarsi così vicini in pubblico – non succede quasi mai e non in quel modo -, vicino al micio, che si scopre essere una lei, e che a sua volta li adotta immediatamente, in un mare grato di fusa. Mentre, inteneriti, col cuore avvolto dalla pena, si domandano con sgomento quanto tempo abbia dovuto passare da sola la gatta, e di come si sia sentita, senza più chi si occupava di lei. Sentono di volerla proteggere. Ripagare. Perché la vita è ingiusta anche con chi è così indifeso.

Escono di corsa, non conoscono il quartiere, e cercano un negozio, per portarle da mangiare. Li ha guardati negli occhi, quando si sono allontanati da lei. Come in una domanda muta. Come nella delusione di trovarsi di nuovo sola. Abbandonata. Sono tornati un attimo indietro, ancora una carezza, una grattatina tra le orecchie. “Torniamo subito, dai…”

È la prima volta che camminano insieme per quelle rue, osservando, curiosi e luminosi, ogni particolare, una pietra, un’insegna, una vetrina, carabattole esposte che oggi sembrano brillare. Se vivranno lì, tanto vale conoscere il luogo.

Li squadra, la macellaia. Senza nascondere perplessità e curiosità di fronte a due visi nuovi e dall’aspetto poco popolare. Con disapprovazione accoglie la richiesta di un taglio di carne affettato in un certo modo. Con disgusto la spiegazione “è per la nostra gatta” che quella strana tipa, mentre quell’altro se ne sta silenzioso e bello, allega.

Tornano, quasi di corsa.

Sarebbe bellissimo soffermarsi a scoprire un po’ di più della zona, e la giornata è splendida. Ma la nuova coinquilina impera già su di loro, conquistati.

 

È una casa che a loro piace, camini in ogni ambiente, perfino una stufa, uno studio spazioso, una sala da bagno attrezzata. E infissi abbastanza nuovi.

Si sarebbero detti abitanti delle mansarde, un tempo. Ma ora Oscar ha insistito sul piano terra, perché lui non rischi di farsi male, per le scale. Vuole che viva in un posto in cui possa muoversi in maniera agevole, quando le cose, è un’idea improvvisa, in un brivido, cambieranno.

Non ci pensa solo quando il cuore le sobbalza nel petto e prova una fitta. È un’idea costante, che non l’abbandona mai. Non sta neanche imparando volontariamente a farci i conti, è lì, presente, e si chiede, costernata e piena di dolore e commozione, se sia stato, se sia, ancora, così anche per lui.

Sente la mano di lui che la stringe. E la riporta alla realtà.

“Guarda”, le indica quel bel cortiletto interno, perfetto per la gatta, rigoglioso, decisamente incolto, con un pozzo nel mezzo, e il secchio, staccato, poggiato appena di lato all’ingresso.

Osserva il viso disteso di lui, e gli si appoggia un po’ contro, stringendogli la mano, nascosta dai mantelli, mentre pensa che lui è straordinario. E, a volte, si domanda per quale coincidenza, strana, fortunata, meravigliosa, l’abbia incontrato nella sua vita. Lui, che le ricambia la stretta, e si volta a contemplarla con dolcezza, come se fosse il bene più prezioso al mondo.

E, mente osservano la gatta dedicarsi con metodica attenzione al cibo, un po’ in disparte da loro, fissano i termini dell’accordo.

“Ci occorre subito”, hanno spiegato. E, per un piccolo sovrapprezzo, il mediatore si occuperà personalmente, ha assicurato, fino al loro arrivo, della sontuosa felina dagli occhi verdi.

 

 

Sono tornati in caserma. Dopo qualche giorno di licenza.

Giorni in cui hanno cercato di prendere coscienza della situazione. E trovato casa, anche.

Sono giorni strani.

Mentre, insieme, in istanti infiniti e rubati, Oscar, con l’ansia che le serra la gola, per il bambino, che non accetta, e per lui, per quello che lo attende, che li attende, André più disteso, corrono, in momenti che, nel ricordo, voleranno struggenti, a cercare di mettere insieme un abbozzo di casa, di mobili indispensabili. Stoviglie. Spuntando elenchi improbabili compilati da due esseri ignari, mentre, con aria professionale, valutano, indecisi, questo o quel coltello, e, perplessi, una pentola, una brocca. E, alla fine, André ammette fiero che le cose scelte da Oscar sono le più belle. E le più costose… e lei, dopo un primo moto d’orgoglio infantile, si scopre la gola serrata in una morsa, perché è solo questione di tempo, ma lui non potrà più vederle, quelle cose. E, così, lo guarda, come per imprimerselo nella mente. Come se potesse esorcizzare il terrore di perderlo. Come se dovesse essere lei a perdere la vista. Di lui. Di quello che lui è. E che fa di lei quella che è.

Mentre si scoprono, sorridendo di sé e del loro entusiasmo, entrambi a considerare che non ha senso riempire tutto e subito, meglio comprare solo cose di cui sono convinti. E André osserva divertito Oscar spiegare a sua madre che vorrebbe, nell’alloggio che si è presa (dato che è abbastanza attempata per vivere per conto proprio), questo e quel mobile, da casa, tanto, aggiunge sarcastica, fra qualche decennio lo avrebbe lo stesso… mentre la signora, che qualcosa deve aver capito e, forse, segretamente approva, glissa, ricordandole la sua parentela coi banchieri Laborde, e mette mano al suo patrimonio personale, perché, sostiene, non ha senso che un figlio aspetti che siano morti i genitori per avere qualcosa, e perché, aggiunge, preferisce che Oscar tenga il suo denaro per le emergenze. Su quali debbano essere, tace. Ma, per quello che può, vuole aiutarla.

Sono piccoli tasselli, che vanno a concorrere.

La paura che gela, l’affetto e i gesti inattesi, che scaldano il cuore.

Un Alain indecifrabile, che ha caldamente consigliato un letto ampio e comodo. E magari anche un divanetto.

Nanny, esperta e pratica, secondo la quale sfilze di utensili ignoti ai più e pentole di ogni genere sono indispensabili, e che tira fuori la scorta delle cucine, e la gira silenziosamente ai ragazzi.

La signora, mondana, che ha dichiarato, ai due, attoniti, che per mettere su casa occorrono senz’altro un guardaroba fornito, una biblioteca ampia - e non solo di classici - e, ovviamente, due cuori, e che fa arrivare qualche cassapanca di teli e lenzuola. E stoviglie alsaziane piene d’allegria, e coppe bretoni, raccolte in chissà quali viaggi, di materiali sempre più nuovi e moderni.

Lei che, senza conoscerlo ancora bene, ma osservando con curiosità ogni angolo, e cercando di memorizzarlo, vaga con lui per quel quartiere che le è nuovo, fissando dei punti di riferimento nella mente e tentando di ricordare le zone strategiche, negozi, speziali, e consulta, ogni tanto, la piccola mappa, un appunto, che ha tracciato su un foglio. Per scoprire solo più avanti, sorridendo, di quanto si fosse sbagliata, nell’appuntare il dedalo di vie e passaggi, al confronto con la pianta vera di quella zona.

Ed annotare, con una pena infinita, che non sarebbe così, normalmente. Che si affiderebbe a lui. Come ha sempre fatto. Ma ora è diverso, pensa, mentre gli stringe più forte la mano e preme col corpo contro di lui, che, piacevolmente sorpreso, si volta a guardarla, tra i capelli. E lei pensa che è bellissimo. Che ha paura. Che quello sguardo sarà vuoto. Che non vuole quella cosa, dentro, e che dovrà fare scelte che non avrebbe mai voluto fare. Ma che averlo vicino è straordinario, più di tutto.

 

Sono tante cose.

 

Sorprendersi, nello scendere, carica di pacchi, le scale di quella che è stata la sua casa, mentre il parco si apre ai suoi occhi, di non provare dolore o distacco. Di sentire invece come un impulso prepotente a proseguire, senza rimpianti. Mentre, stanchissima, poggia per un attimo i carichi ed è solo la forza di volontà a farglieli sollevare, di nuovo, per cercare di fare più in fretta, perché sia più presto possibile che si avveri quell’idea di vivere finalmente con lui. Ci sono ancora tante cose da portare… Ripensa a quando hanno riunito le cose di ciascuno. Scelto cosa portare. Molto poco. E al tanto che hanno preferito lasciarsi indietro. Ai ricordi, spesso di entrambi, che si intrecciavano dietro ogni oggetto, quando si prova un brivido, dentro, a ripensare a quello che è stato e che non torna, anche se si è insieme e questo addolcisce tutto. Se non avessero davanti una prospettiva, considera, non sarebbero pervasi da quel senso di aspettativa, e impacchettare il passato e lasciare un luogo avrebbero un sapore diverso. E quella prospettiva, si sorprende, neanche esisteva, prima che lui la formulasse. Non l’avevano presa in considerazione. Dopo, invece, è diventata un obiettivo. Qualcosa di concreto, nel ricercarne la realizzazione. In fondo, è stato sempre lui a fare i passi della loro unione, pensa, con una dolcezza che le riempie il cuore. E gratitudine. Poi, in un attimo, il filo dei pensieri interrotto da una voce calda, che la fa volare. “Eccoti qui”, le sfreccia di fianco, magicamente aggiungendo ai suoi buona parte dei pesi di lei, che finalmente può respirare di sollievo. E resta a guardarlo, i capelli scuri e lunghi che ondeggiano, l’andatura piena di entusiasmo e volontà, diretto, verso il futuro.

Annotare l’oltraggio subito negli occhi di suo padre, mentre, senza guardarla, ma seguendo André con uno sguardo ostile, appunta: “Mi ha detto tua madre che andate a vivere per conto vostro.”

E lei non sa cosa rispondere, quelle parole dicono tutto e niente, e pensa solo che non c’era bisogno che glielo dicesse la moglie, lo sanno tutti che sta andando via.

“Tu convivi more uxorio”, elargisce, impietoso, la condanna.

Non parla direttamente. Non dice chi. La sua solita tattica.

Mentre lei si trova ad obiettare “Vi sbagliate”, sapendo di avere perfettamente ragione e che se lui se ne rendesse conto sarebbe peggio. Meglio che continui a pensare di averla solo profondamente offesa.

 

Sono tante, piccole cose. Alcune che scaldano il cuore. Altre che gelano. E loro due, a farsi forza a vicenda. A crederci. Perché certe cose si fanno solo credendoci. Profondamente. È lì che il gioco cambia.

 

Ma Oscar ha paura di restare intrappolata nei suoi pensieri. O nelle speranze di lui. E per ora non vuole staccare. è spaesata, ha la testa altrove, ma non sa davvero che altro fare. Il lavoro è un rifugio.

 

Alain l’ha incrociata nel corridoio e l’ha guardata, con irriverenza. “Siete più bella”, le ha detto piano.

Lei si è sentita come scoperta. L’ha squadrato, torva.

“State tranquilla. André non ha detto niente…” le sussurra. “Ma ho visto come vi guardava, dopo che vi siete sentita male…”

Lei rimane di sasso.

“E, poi, davvero, siete più bella…” e se ne va, ridendo, le mani in tasca., lasciandola lì con un diavolo per capello, che deve occuparsi di quella assurda storia di fucili venduti, ha dovuto incontrare più volte Bouillé e ancora non sa come andrà a finire.

E’ assurdo, pensa. Lei, donna e, peggio, incinta, passa indenne la giustizia militare grazie ad un salvacondotto sovrano. Forse non meriterebbe il grado che ha e magari non è neppure in grado di fare bene quel mestiere. E quel ragazzo, che si sarà arruolato per disperazione e non, come lei, per orgoglio di famiglia, quel ragazzo che magari delle armi ha paura, e deve usarle, deve vendere il fucile, l’uniforme, le scarpe, perché non ha soldi per campare la famiglia. Si sente un essere inutile. Un parassita.

Il testimone inutile di una vita ingiusta con troppi.

E le sensazioni si mescolano, in un turbine difficile da spiegare.

 

Lo tiene per mano, precedendolo, mentre passano in rassegna il loro piccolo regno.

Alquanto spoglio, ancora, per la verità. Ma non male.

E caldo. Si domanda come sarà, dopo. Un po’ di curiosità. E un po’ d’angoscia.

Ha paura, perché teme che lui voglia coinvolgerla emotivamente. Incastrarla in quella casa-sogno, a realizzare un’idea di coppia con accessorio – e non si tratta della gatta - che lei non contemplava e che non si sente pronta ad accettare.

Ha così bisogno di lui, ancora! Non è stanca di ogni momento che passano insieme. Non le sembrano mai abbastanza… non vuole che nessuno disturbi i loro momenti insieme.

Lo squadra con sospetto, a volte. E con dolore.

Mentre, senza dare mai segni di stanchezza, carica la legna del camino. E della stufa.

Mentre segue con pazienza la gatta, che, con intuito tutto felino, con lui si annuncia con sonori miagolii e non gli va mai tra i piedi, ma si struscia piano alle sue gambe, perché capisca che è lì, accanto.

Lo guarda con amore, quando si volta, veloce, a segnalargli, “Attento, lì per terra c’è un cuscino”, e lui, innamorato perso, grato per quell’attenzione insperata, si volge a lei e, immancabilmente, impatta nei segnali sparsi della loro convivente felina, che talvolta non vede, mentre lei accorre, adorante, unica, “Stai bene, amore?” e lo aiuta a tirarsi su. O quando gli indica un libro dimenticato a terra, o una bottiglia – con loro due in giro, non si può mai sapere…

Lo fissa, intensa, con ardore, quando lo sguardo ancora appassionato di lui la percorre, lì, davanti al camino, mentre le fiamme crepitano e li scaldano, e lui sembra non averne mai abbastanza. Di lei, del suo corpo. Di affondare le labbra e il viso tra i suoi capelli. Di raccontargliene l’odore. E della sua pelle, quando la sfiora, lieve, poi intenso. E si domanda per quale miracolo lei lo abbia accettato. Accolto. Voluto.

 

Abita di loro due ogni angolo della casa.

 

E ogni tanto gli sguardi si soffermano su una montagna di pelo multicolore, un’enorme gatta europea che, placida, la coda a creare mille piccole esse di piacere, osserva le fiamme crepitare e, talvolta, fissando uno di loro due negli occhi – più spesso lei – si domanda come l’abbia associata alla funzione di nutrice -, sembra parlare, cantare il suo affetto, il suo appagamento, la semplicità del volersi bene.

 

Sta lì, inginocchiato accanto a lei, a grattarla tra le orecchie, André.

“La gatta con la pancia intorno”, dice, guardandola con un affetto infinito, e che non avrebbe immaginato in lui. E, mentre, annotando che si è alzato nel cuore della notte per dare da mangiare alla sovrana della loro vita a due, sua maestà felina, pensa di sfuggita – e subito censura – che sarebbe un buon padre, Oscar soffoca la scomoda intuizione e si impone di fare finta di niente.

Perché nessuno, per nessuna ragione, deve poter decidere del suo corpo. Di lei.

L’estrema forma di autodifesa.

 

Sfiora delicata il suo viso con la mano, scostandogli i capelli dalla cicatrice, in quella stanza che le appare nuova, di colori, forme, odori. Di come la luce vi faccia capolino, piano, all’alba. E lentamente si colori di rosa, all’imbrunire, quando il cielo sembra illuminarsi, nel farsi scuro.

È addormentato. L’espressione distesa. Sembra un bambino, riflette. L’ha notato spesso, quando dorme. Ma anche nella purezza delle sue espressioni di sorpresa, di gioia, di fronte a piccole cose. Nell’entusiasmo nella sua voce, ogni volta che parla con lei. In quel suo reclinare all’indietro la testa, in un sorriso sornione e appagato, mentre cerca le sue coccole. In come sa abbandonarsi, in un abbraccio. Affidarsi completamente a lei – mentre lei ha paura di abbandonarsi e qualcosa resta vigile, sempre -. Come se dentro non conoscesse la cattiveria, quello che sporca gli altri. Non il dolore, no – è una cosa diversa, riflette -, quello l’ha provato, e ne ha fatto una ricchezza - ma la negatività -.

Non è da tutti uscire con più umanità dalle esperienze negative. Non dimenticare l’umanità. Non cedere all’asprezza, all’invidia, al risentimento. Lui, nonostante tutto, sembra passare indenne su quello che gli capita. Lo ricorda così, fin da piccolo. Ed è sempre stato, in qualche modo, un senso di sicurezza, per lei, qualcosa di saldo, unico.

È così delicato, il corpo umano. Mentre il dito percorre, senza sfiorarla, la ferita pallida. Basta un urto, un taglio, e tutto può essere compromesso, definitivamente. Quanto dura il tempo che basta per cambiarti la vita? Un attimo? Manciate di secondi? Eppure, quando ha vissuto quella scena, è stato come al rallentatore. Come si protraesse, infinitamente ripetendosi, nella linea degli eventi. Ogni azione l’ha rivista, sezionata, già mentre era appena accaduta. È quello, che chiamano trauma, si domanda? Quella cicatrice, ora, si nota meno. È giusto una linea, da lontano. Da vicino, no. E non ha voglia neanche di pensarci. Eppure, per quella linea di pelle più chiara, quanto dolore ha provato, lui? Ricorda, e la pena le serra il cuore, quando non stava neppure in piedi per il dolore. Rivederlo abbandonato nel letto è tutt’uno con la rabbia e la pena. E quante rinunce dovrà sopportare, ancora?

Si serra a lui, piano, per non svegliarlo, e forte. Mentre lui si sistema meglio tra le sue braccia, soddisfatto. Non sa comunicare, come lui, forza, negli abbracci, nella stretta di una mano. Lui riesce a scaldarla. Lei, invece, ha paura di non riuscire a fargli comprendere tutto l’amore, il trasporto, l’affetto infinito, che si porta dentro e che quasi fanno male. Resta lì, abbracciata a lui, e vorrebbe saperlo proteggere. Da tutto. Dal dolore. Dalla vita. Anche da se stessa.

Fragile. Un occhio è fragile. Armonia di colori. Destinata a colpire una retina. Un cervello. Un cuore. Destinata a trasmettere l’essenza di una persona. Una pallottola, lanciata contro un organismo, può distruggerlo. Eppure, il corpo in altre cose è resistente. Se pensa come sopporti le nascite… e un brivido di orrore e disgusto la percorre. Cerca di non pensarci. Eppure, non se la sente. Non è per lei. E vorrebbe poterlo tenere a distanza da sé.

 

 

“Se scelgo di non averlo, mi lascerai?” All’improvviso. Uno sguardo triste e di sfida che lui quasi non riesce a vedere. Ma lo immagina, dalla voce. E non ha intenzione di raccogliere.

Sembra sentirsi immensamente sola. Anche ora. Anche adesso che la serra tra le braccia, e la sente scorrere su di sé, calda. La pelle delicata. I capelli addosso, morbidi. I suoi seni. Da impazzire.

“Oscar, io amo te.”

Si ferma, su di lui.

“Io sto bene con te. Non desidero altro.” Cerca le parole adatte per spiegare quei pensieri. Che non sono mutati, negli ultimi anni. E che probabilmente condivide anche lei. Solo che, ora, all’imprevisto, lui sta reagendo con maggiore flessibilità. Ovviamente. Data la situazione. “Non ho, quando siamo insieme, un horror vacui che tendo a cercare di colmare riproducendomi.”[1]

E bravo il Grandier! Sorride, lontana, alla scelta dei termini. Lo guarda, sotto di sé. E gli pare bellissimo.

“A volte mi sembra impossibile”, confessa, quasi timido, “che, dopo tutto quello che è successo, siamo riusciti a stare insieme…” ha uno sguardo pensoso. “Che, ancora, dopo tanti anni, stiamo così bene, insieme…” La stringe più forte.

Le percorre la schiena in una carezza calda.

“Ascolta”, la guarda. “Ora sono serio.”

Lei quasi trattiene il respiro.

“Se decidi di tenerlo, ne sarò felicissimo. Non lo rifiuterò. E non rifiuterò te, scoraggiandoti. Sarà bello. Vivremo questa cosa insieme. E lo cresceremo insieme.” Le carezza il viso. Vorrebbe intuirne meglio l’espressione.

“Se, invece, scegli di non tenerlo, io lo capirò, capirò la tua scelta, la approverò. E non ti colpevolizzerò, non ti ricatterò. Continueremo così, come adesso.” Le percorre il profilo con un dito.

Lei rimane in silenzio.

“Vorrei solo che sapessi questo…” scuote la testa. “So che è un peso enorme. Ma spero che almeno ti senta un po’ meno sola…”

 

è vero. È un peso enorme.

E si sente così sola…

 

Un ENORME grazie alle proof reader: Alessandra, Sydreana, Elisa, e, in particolare, per la disponibilità dimostratami negli ultimi due mesi, ad Assunta e a Luana, che resistono alle mie mille revisioni.

 

Laura, autunno-inverno 2005, gennaio-marzo 2006, Pubblicazione sul sito Little Corner del marzo 2006.

Continua...

Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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[1] Questo pezzo è nato per precisare meglio l’ottica di André, perché, dopo uno scambio con Luana, temevo il lettore potesse sovrapporre al mio personaggio la visione di altri, in qualche modo correlati ai miei lavori. Ne ho parlato sia con Luana, che ringrazio per lo scambio e i pensieri, sia con Assunta, che ringrazio, anche lei, sia per lo scambio, sia per le riflessioni, sia per l’idea da cui è arrivata la frase a cui mi sono ispirata.