Il monastero

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Una lunga corsa a cavallo contro il vento leggero del tramonto è stata la mia dichiarazione d’amore. Lanciata contro un nemico invisibile. Mormorando un nome che rimane contro il bavero della giacca. Ho il diritto di scappare contro il sole che sta tramontando. Il diritto forse di sentire gli occhi che bruciano. Ho il dovere di tornare a casa, dove mi aspettano per la cena tre uomini. Mio padre a capotavola. André vicino alla finestra in piedi. Fersen, l’ospite sorridente che guarda il vino nei bicchieri. Una dama avrebbe il diritto di farli aspettare a suo gusto. Ma ho il diritto di aspettare che il sole sia scomparso dietro le alture. Ho soltanto il diritto di aspettare che la stagione abbia ragione della piana gelata. Il sole scende lentamente ma è scomparso in qualche attimo. Devo tornare. L’amore sarà come questo tramonto? Come l’inverno nascosto lungo le pietre della strada? Brillerà senza forze per minuti interminabili come questo sole di dicembre? Tremerà crudelmente rimanendo immobile tra le foschie del pomeriggio? Si lascerà guardare ancora un momento? Scomparirà d’un tratto mangiato dalla terra?

È quasi buio. Esco dalle scuderie. Mi hanno detto che ero un ragazzo. Il sentiero scricchiola sotto gli stivali. Ho un nome da uomo. Una divisa da comandante. Il roseto di mia madre aspetta mesi più indulgenti. Sono cresciuta qui: un giardino all’italiana, a tavola le ambizioni di una piccola nobiltà di provincia. Vedo le finestre illuminate, è come se sentissi il rumore dei bicchieri, del cristallo. Si gela. Forse avrei voluto una vita diversa. Mi avvicino lentamente al portone. Poso la mano sulla maniglia che riluce fiocamente nel buio. Guardo le dita nel guanto bianco, come se fosse la mano di qualcun altro. Per mio padre sono stata la grande occasione: l’ultima occasione di una vita non difficile, ma deludente in segreto. Mi appoggio alla maniglia, il portone pesante scivola in avanti con una strana leggerezza. Il mio cuore gonfio di coraggio e dolore: sembra cadere nella oscurità dell’ingresso. Sento le loro voci di uomini. La mia voce è invece un piccolo soffio senza risorse, inghiottito dal desiderio di piangere. Avrei voluto una vita diversa, ma non so se esiste.

La nonna si agita vicino a me sorridendo. Mi è venuta incontro nel corridoio, come ogni sera in questi ultimi mille anni. Non rispondo alle sue domande. Ma a lei è una nonna: le risposte le interessano soltanto fino a un certo punto. Un cameriere mi passa accanto con un vassoio. Seguo il suono delle loro voci come se non conoscessi a memoria questa casa. La soglia, eccomi, l’odio crepita sul mio dolore. Tutti e tre in piedi per accogliermi, il piccolo coro dei saluti dura qualche attimo. Lo sguardo color cenere di mio padre mi trafigge con bonomia; il mio ritardo non l’ha distolto dal buonumore di una giornata riuscita. Scherza levando il bicchiere. Fersen non lo guarderò. Ma invece sì: lo guardo, va sempre a finire così. Sorride, con aria interdetta. Parla anche lui, muovendo le mani nell’aria riscaldata dalle pietanze, dai vini, dal fuoco. Sento nei miei occhi levarsi una coltre opaca, contro cui lacrime respinte si nascondono, si ghiacciano. Scusami, André: come sempre ti lascio alla fine, e tocca di nuovo a te questo sguardo fatto per non vedere niente. E infatti non ti vedo. Ma so che non parli, non ti muovi, che non vuoi dirmi nulla di particolare. Scusami. Stasera il mio cuore non basta per capire anche questo: che mi ama l’unico amico che avevo.

 

Cavalchiamo vicini, come ogni giorno. Ne ho abbastanza: di questo canale nebbioso e della luce dell’alba; anche di te.

“Hai dormito male, Oscar?”.

Non mi giro neanche a guardarti.

“No”.

“Strano, si direbbe invece che…”.

“Non ho dormito”.

Perché dovrei nascondertelo? Non ho niente da perdere. E tu stai zitto invece di mandarmi al diavolo.

Un canneto deserto, un piccolo ponte; ogni giorno le stesse cose. Era questa la vita, padre? Parlavano di questo le leggende di cui mi leggevi? Di nuvole basse, stagni ghiacciati? No. Non mi sembra. Parlavano di eroi e di spade pesanti come rocce. Di un nemico sconosciuto inseguito fino in capo al mondo. Si vinceva, o si moriva per ferite profonde; però nessuno piangeva e l’amore era un premio, non questa specie di desiderio senza fondo, senza pareti, senza nessuna speranza.

“A corto di idee?”.

“Cosa?…”.

“Non hai l’aria molto loquace, oggi, Oscar”.

Mi giro a guardarti perché non so cosa rispondere.

“Io…”.

“Ancora Fersen? Dovresti… Sai già come stanno le cose”.

“Stai zitto. Lasciami in pace”.

Stai zitto. Ti odio, cosa credi?

 

Ho preso gli ordini. Dal re. Dai generali. Un re che parla docilmente davanti alle medaglie dei suoi generali; medaglie conquistate sotto un altro re, sembrano passati i secoli.

Ho accompagnato la regina alla passeggiata: vestita di ermellino e di velluto chiaro, pallida e stupenda all’inizio dell’inverno. Mi chiede consigli che non so dare; pone domande che sempre di più non mi sembrano esattamente quelle giuste; forse basterebbe spostare una parola qua e là ogni tanto. Non so. Intanto qui vicino da qualche parte, forse dietro a una finestra nascosta da un riflesso, Fersen la guarda e si innamora. Ogni giorno. La regina mi parla, giriamo lentamente intorno alla fontana; durante la notte l’acqua ha ghiacciato lungo le curve di pietra e ai piedi delle statue.

André mi aspetta al solito posto. Lo raggiungo mentre suona mezzogiorno.

“Partiamo. Per il monastero di Bièvres. Sopralluogo per la visita delle loro Maestà il giorno di Natale”.

“Preparo i cavalli”.

“Fai avvertire mio padre”.

Tu sei quello che allaccia le cinghie e prepara i cavalli. Mi porgi il mantello da viaggio. Accomodi la legna nel camino. Molte volte non parli. Tu sei quello che aspetta al solito posto. Questa tua pazienza mi è odiosa. E tu lo sai, ma non cambi. Tu sei quello che china lo sguardo e lo rialza in segreto nell’ombra del salone. In effetti non ti lasci cambiare da niente. Da nessuno. Io invece sì. Mi hanno dato un nome da uomo e mi hanno appuntato le medaglie sul petto. E adesso, che mi sono innamorata di Fersen, che amo Fersen: adesso sono cambiata un’altra volta; piango in segreto, non dormo più, come succede nei romanzi per le popolane. Tu invece: niente medaglie e niente lacrime.

 

Cavalchiamo vicini; di nuovo. Non mi ricordo di essere mai stata triste come oggi. Il sole è tramontato, la neve cade e non è neanche ancora sera. Un inverno temibile, quest’anno.

“Oscar”.

“Cosa c’è?”.

“Non devi soffrire”.

Cerco di ridere, di deriderlo da sotto il mantello. Per offenderlo, perché stia zitto.

“Non soffrire”.

“Ma come ti permetti? E poi tu, che ne sai?”.

Ammettiamolo: frasi fatte.

“Ne so comunque più di te”.

Il suo tono un po’ giocoso. Che coraggio!

Che coraggio.

 

Si muore di freddo. Abbiamo cavalcato verso Sud-Ovest per ore, spinti dal vento verso il cuore pietroso e gelido della Francia. Si sale, si lascia la strada principale. Ancora neve, ancora buio. Tutto così per ore, fino al monastero, un’ombra massiccia e squadrata, fiocamente segnata da fiaccole ai lati. I monaci ci accolgono senza troppe cerimonie; ci danno da bere qualcosa di caldo, credono che siamo due uomini.

“Pensavo che ci avrebbero dato una delle loro celle… E sarebbe comunque stato meglio di questo!… Si direbbe una stalla, no?”.

Stai zitto.

“Per fortuna che il Re sarà alloggiato nella locanda a valle!…”.

Zitto.

“Anzi, avremmo dovuto fermarci anche noi laggiù…”.

Per favore.

“Non so tu, ma io non mi sento abbastanza talentuoso per l’ascetismo e la penitenza, soprattutto senza un bel fuoco nel camino!… E tu? Eh, Oscar?…”.

Ridi. E io non rispondo. Dovrai rinunciare.

Ci siamo coricati sul fieno come due soldati di grado diverso che il nemico tiene prigionieri insieme. Ci siamo distesi coprendoci con i mantelli, tremando per il freddo. È vero che non è meglio di una stalla, questo stanzone destinato ai forestieri. Abbiano acceso un piccolo fuoco da un lato, con qualche mattone intorno, ma non serve a molto. Ti sei coricato sul fieno badando a lasciarmi l’angolo più riparato, contro il muro maestro, dove l’aria ghiacciata che si insinua dalle finestrelle mal serrate non arriva quasi. Mi hai passato una coperta, chinando rispettosamente la testa, con il tuo sorriso della sera.

“Buonanotte, Oscar”.

Il tuo sorrisetto del congedo. Che oggi, te lo assicuro, non mi fa niente: rotola contro il mio cuore come una monetina, dà un piccolo colpo argenteo, gira su se stesso, trema, rimane poco più in là nel silenzio.

“Puoi spegnere la candela”.

Mi sono già girata. Aspetto. Si sente il vento da fuori. Ho il viso ghiacciato, tiro il mantello fino alla fronte. Forse ha smesso di nevicare. Sarà una faticaccia il ritorno, domani. Stringo un lembo della coperta. Aspetto che lui si addormenti. Aspetto di carezzare il dolore per conto mio. Non sento più niente, neanche il suo respiro là dietro da qualche parte. Stai dormendo? Mi lasci finalmente in pace?

 

Passano i minuti. Stringo gli occhi, li chiudo di più, li premo contro le mani sotto la coperta. Vedo Fersen. Le sua camicie, belle come le mie. Le sue mani sulla tovaglia. Quando mi sorride. Con fiducia. In divisa. Divertito. E mi parla, mi parla tutto il tempo. Come se mi dovesse qualcosa. Mi guarda tutto il tempo. Senza avere niente. Per me.

Ma perché io? Padre, era questa la mia vita? Questo freddo. Questa coperta. Io che mi aggrappo a me stessa scaldando col fiato i polsi. Veramente non c’è nessuno per me, padre? Ho un nome da uomo e nessuno lo mormora. Nessuno mi chiama. Nessuno mi ascolta. Fersen non è qua ad ascoltare che lo amo. Che anch’io, padre, io amo. Che è come se bruciassi sotto questa coperta da viaggio. Ma davvero l’amore sarà sempre così, come questo momento? Sarà come l’inverno che preme dietro questo muro di pietre? Come un recinto di candele spente? E io qua in mezzo, bruciata, come una morta?

Ti amo. Ti amo. Amore mio. Dove sei? Sai che ti amo?

E questa A mi spacca la bocca, mi soffoca. Il mio petto si frantuma e si frantuma. Soffoco! A testa china. Con le ginocchia schiacciate una contro l’altra. No, per favore! Soffoco. Aiuto! Come se cadessi. Al fondo le parole si mischiano. Il dolore si scioglie negli occhi, contro le mie dita. Il pianto si scioglie nel fiato conto i polsi. Ecco, le lacrime. Dio mio, un’altra notte così, per impazzire.

 

Mi sveglio. La coperta è ricaduta dal mio viso. Vedo qualche ombra, il fuoco non si è ancora spento. Mi bruciano gli occhi. Mi alzo a sedere. È ridicolo dormire sulla paglia. Sento un rumore, mi giro. André è vicino alle braci, ci getta dei ciuffi di fieno o qualcosa del genere. Non si volta. Non ti sei voltato, ma sicuramente hai sentito che mi muovevo. Forse… Mi ha sentito anche prima? Devo… Sì, devo aver pianto forte, forse ho detto parole. Ho gridato? Tu stai in quell’angolo di debole luce, di spalle, e non mi dici niente. Non ti giri, come se io stessi dormendo sotto la coperta da viaggio e tu stessi tranquillamente alimentando il fuoco. E in fondo, non era così, non eravamo proprio così noi due, fino a qualche tempo fa?

“Sei sveglia?”.

Ti sei girato mentre ti guardavo senza più vederti.

“Sì”.

“Vieni un po’ qua a scaldarti. Così poi dormirai meglio… Non è ancora mattina”.

“Va bene”.

Scrollo di dosso la coperta, tengo il mantello e me lo stringo sulle spalle. Faccio qualche passo. È ridicolo dormire sulla paglia, con gli stivali, perché fa troppo freddo per toglierli. Mi siedo a terra davanti alla fiamma, vicino a te che sei tornato a occuparti delle braci. Sei chino, non ti guardo. Guardo le ombre sul muro.

“Mi sa proprio che ti meritavi qualcosa di meglio, Comandante! Sono dei santi, questi monaci, per sopravvivere quassù!…”.

Stai scherzando. E io devo avere gli occhi lucidi, la faccia rossa. Devi avermi sentito piangere, gridare.

“Io… Sì… Forse sì”.

Mi giro a guardarti con un sorriso debole. Molto debole. È appena un sorriso. Ti giri anche tu.

 

E ancora una volta. Anche se soltanto alla luce insicura di questo fuocherello di fortuna. Hai ragione che bisogna essere dei santi per avere voglia di vivere qui. Anche se siamo circondati da ombre e non è poi mica detto che fuori non nevica più. E non è ancora mattina. E domani il ritorno sarà una faticaccia. E devi avermi sentito piangere. Forse ho anche gridato. Perché sai, stavo soffocando. Non ce la facevo più. Ogni sera è così. E non ho capito quando finirà. Hai ragione, che non ne so poi molto, in fin dei conti. E non ce la faccio più. E ancora una volta. Non so come. Ecco, un’altra cosa che non so. Anche se ci conosciamo da una vita e sei l’unico amico che avevo. E ti ho guardato mille volte. Ti ho preso in giro. Ti ho sorriso e tu mi davi la buonanotte. Ti ho salvato la vita. Ti ho passato le redini del mio cavallo. Ti ho chiesto qualcosa. Ti ho risposto in fretta. Abbiamo cavalcato vicini: verso casa, verso Versailles. Un canneto deserto, un piccolo ponte; ogni giorno le stesse cose. Eppure ancora non so come fai, tu. A non soffrire. Perché adesso ancora una volta ho visto, André: che non avevi mica pianto, tu. Che non hai pianto stanotte. Che tu non piangi. E io non so come fai, tu. Ad amare. Tu. Che mi ami. Lo so che mi ami. Che mi hai sentito gridare e piangere da sotto una coperta. Con la testa tutta sotto la coperta. Come fai? Perché io non ti amo. Tu come fai a resistere? Senza lacrime, senza medaglie?

Ma ecco: stai di nuovo guardando il fuoco. E io sto di nuovo guardando le ombre sul muro.

Come fai? Un giorno te lo chiederò e tu me lo dirai. Ma non oggi, non stanotte, e non qui.

 

Grazia, 11-3-2005 Pubblicazione sul sito Little Corner dell'aprile 2005

 

mail to: grace88@libero.it

 

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