Un finale tragico (Autobiografia di una spettatrice)

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Un finale tragico. E’ vero, sì. Sono anni che lo vedo e lo rivedo, e tutte le volte soffro. Tutte le volte il mio cuore non riesce ad accettarlo, anche se la mente sì. Ormai, dopo tanto tempo.

 

Era un giorno di ottobre, mi pare, tanti anni fa. La serie di “Lady Oscar” era andata in onda per la prima volta nella stagione precedente: io ero una spettatrice della prim’ora e avevo seguito la prima puntata a casa, con tutta la famiglia a tavola. Avevo finto di non sapere di cosa si trattasse, per darmi un tono: ma lo sapevo bene, invece, perché avevo visto la presentazione in Tv, e tenevo il telecomando saldamente in mano, nascosto sotto il tavolo. Mi aveva rapito fin da allora (e come poteva non rapirmi, del resto, André ragazzo che gridava: “Fermati, e diventa una donna, Oscar!”, dietro lei che fuggiva a cavallo, fin dal primo episodio...)

La stagione precedente, dicevo. Quella, appunto, quella iniziata intorno al desco familiare e finita con me incollata da sola al televisore del salotto che non volevo sentire neanche la parola “cena” finché non era finita l’ultima immagine, l’ultima nota della sigla dei “Cavalieri del Re”. Fu la mia prima vera ribellione adolescenziale: sfidai regole trilustri senza esitazioni.

Andai avanti di fronte a quella TV in un’altalena di sentimenti sempre più agitati, e quando finì ero quasi contenta, anche se disperata per l’interruzione della storia, perché l’avevano fatta finire con la notte del 12 luglio, con Oscar e André che hanno fatto l’amore e poi fuggono via, finalmente, e cavalcano insieme verso la vita.

Aspettai, contando i giorni (contando realmente i giorni), che arrivasse l’autunno dopo. Mi aspettavo di vedere il seguito: aspettavo altre trentasette puntate, quindi. Invece ricominciò da capo, un giorno di ottobre appunto, con la nascita di Oscar, e ricordo ancora la fortissima irritazione che provai a quel gioco crudele (così mi sembrò allora, non immaginavo che le cose stessero molto peggio) di guadagnarsi spettatori prolungando l’attesa. Attesi, quindi, pazientemente, religiosamente, imparando le parole a memoria. Finché arrivò l’episodio 38, e il 13 luglio, e alla fine di quel 13 luglio spararono ad André.

Non riuscii a dormire, quella notte, e passai il resto della giornata successiva ciondolando per casa in attesa del momento designato. Non dico che consultai l’enciclopedia medica per capire se si potesse guarire da una ferita d’arma da fuoco al cuore, ma poco ci mancò. Poi vidi il titolo, inequivocabile: “Addio, André!”, e mi sembrò mostruoso.

Non piansi durante la puntata, non ci riuscivo. Non ci riuscii neanche dopo, quando mi chiusi nella mia stanza a interrogarmi su che senso avesse, ormai, la vita senza André, e cosa ci stesse a fare Oscar ancora a questo mondo. L’avevo vista piangere disperata sul suo corpo (senza trattenersi, finalmente) e poi per le strade di Parigi recriminare sui suoi errori, dicendosi tutto quello che da mesi avrei voluto dirle io. Ma era tardi, ormai. L’avevo vista, e avevo sofferto con lei, e non mi aveva commosso affatto che avesse deciso, poi, di non deludere i suoi soldati andando alla Bastiglia. E che te ne fai, della Bastiglia senza André, Oscar? Che te ne fai della vita senza André? Era stato allora che avevo cominciato a fantasticare, a sognare almeno che fosse rimasto qualcosa... sì... un bambino, insomma... anche se era una consolazione amara, amarissima, lo stesso. Ed era banale. Ma fu in fondo la prima fantasia che feci di genere fanfiction, anche se non lo sapevo.

Poi fu colpita a morte anche Oscar, e io fui disperata e contenta, perché non c’era più posto per lei, in quel mondo. Perché in quel mondo lei non poteva vivere senza André. “14 luglio 1789” lo vidi quasi rassegnata: piansi, ecco, quando lei chiuse gli occhi e l’ultima cosa che vide fu André che le sorrideva. Conservai lo struggimento in cuore quando Alain disse a Rosalie: “Vedi, io non lo so, ma Andrè avrebbe certamente detto: le rose bianche”. Erano morti tutti e due, era accaduto. Doveva accadere, certo: non potevano vivere uno senza l’altra.

Ma neanch’io potevo vivere senza loro, ormai.

 

Non so perché mi abbia colpito così, la loro storia che adesso è un poco anche la mia: all’epoca ero una spettatrice onnivora e ingurgitavo in modo acritico ogni tipo di cartone animato venisse proposto, su qualsiasi canale. Con una certa predilezione per lo shojo, questo sì. Avevo amato molto Candy Candy, quando era stato il momento, e avevo seguito Jenny la tennista senza perdere una puntata. Mi aveva appassionato Bia, avevo visto anche Lulù, l’angelo dei fiori.

Storia vecchia, iniziata anni prima con Goldrake: avevo una predilezione per Actarus, e mi sembrava del tutto sprecato per Venusia, che – forse a causa del doppiaggio – mi ha sempre ricordato la Olivia di Braccio di Ferro. Avevo visto Jeeg Robot, cuore e acciaio, che univa i pugni e si trasformava nella testa del robot. E Mazinga, con le robottesse femmine che sparavano seni esplosivi e la cosa anche allora (seppure bambina) mi faceva un po’ ridere, per fortuna. Ma la accettavo. Invece l’alabarda spaziale era stata una fede. “Si trasforma in un razzo missile coi circuiti di mille valvole, tra le stelle sprinta e va...”, a casa avevamo anche il disco. Se è per questo ormai capivo le scritte in giapponese, quelle che significavano “continua”, in basso a destra dello schermo alla fine della puntata, e quella che significava “fine”, al termine della serie. E poi le didascalie in ideogrammi sotto i nomi dei mostri spaziali: cosa avrei dato, quelle, per sapere cosa volevano dire...

Tra robot e sentimenti avevo visto anche “Cybernella”, fanciulla cibernetica senza mamma, e “La principessa Zaffiro”, antenata di Oscar, che però non mi aveva smosso più di tanto, sebbene donna in panni maschili, un po’ per la storia infantile e un po’ per la voce. Capitan Harlock, non so perché, non mi appassionò mai: eppure a pensarci bene aveva i numeri per farlo, così silenzioso e triste. E nemmeno Gundam, che anche era pieno di storie d’amore e d’amicizia. Però se ci capitavo sopra li guardavo, beninteso: all’epoca i miei coetanei già seguivano “Happy Days”, ma io no, perché era in contemporanea con “Goldrake”.

Erano vicende che avevano una storia dentro, anche se essenziale, e una filosofia: parlavano di lotta tra bene e male, di itinerari di formazione, di sacrifici premiati e di malvagi pericolosi e puniti. A me piaceva, quell’etica, anche se non sapevo ancora cosa volesse dire, “etica”, e anche se già allora non andava di moda, da noi. È per questo che non ho mai capito i Pokemon, e tutti i cartoni che negli anni dopo – anche ora – andavano in onda su Bim Bum Bam: mi sembravano demenziali e senza messaggio. Quale persona sensata avrebbe potuto appassionarvisi, mi chiedevo? E perché non facevano più storie come quella di Oscar? Poi capii che lo spettatore-tipo dei Pokemon aveva tre anni, non tredici, e mi resi conto di tante cose.

 

Lo shojo mi conquistò quasi subito, da adolescente, e divenni appassionata sostenitrice di Candy: Iriza proprio non la potevo vedere. Ci rimasi male alla fine, quando, dopo tanta fatica, si concluse in modo “aperto”, con Terence che torna da lei ma non finiscono una nelle braccia dell’altro giurandosi eterno amore. Vabbè, pensai, possiamo sempre immaginarcelo, in fondo dovrà accadere, no? Non sapevo che nell’originale era andata anche peggio, con Terence che rimane da Susanna e Candy che si mette con Albert.

Appunto, non lo sapevo. Ed ero quasi felice.

 

Erano amori che vivevo bene, con naturalezza. In modo libertino, se vogliamo.

Ma poi iniziò “Lady Oscar”, e cambiò tutto.

 

Lady Oscar mi rapì, fin dalla prima puntata. Fu il grande amore. Monogamo e definitivo.

Dopo di Oscar niente è stato più come prima, e nessun cartone mi ha appassionato più. In quelli che guardavo cercavo solo memorie di ciò che era stato. Per il disegno? La storia? Sì, tutto questo, anche. Ma soprattutto i personaggi, forti di una forte psicologia, credibili, veri.

Ma qui siamo già alla fase razionale: quel sentimento non era così decifrabile. Il giorno che André portò via Oscar dalla rissa nella taverna, e rivelò alle stelle il suo amore in una dichiarazione toccante e muta, io cominciai a capire cosa significasse avere sentimenti che non si possono dire. E a soffrirne. Ero non molto più che bambina, ma non l’ho dimenticato. Quando glielo confessò, che l’amava, spingendola sul letto in una rabbia piena d’amore, pensai che non poteva essere diverso, che non poteva non succedere, e che doveva succedere proprio in quel modo, non in un altro. Forse anch’io m’innamorai di lui, e fu il mio primo amore. Il modello del mio primo amore.

Ci sono storie che sono veri e propri archetipi, per noi. Storie che magari non toccano gli altri nello stesso modo, ma sconvolgono la nostra vita. Un mio amico ripensò completamente la sua idea dell’amicizia tra uomo e donna dopo aver visto “Harry ti presento Sally”.

Mazzini divenne patriota dopo aver letto l’”Ortis”: altri tempi, certo, quello era Foscolo. Però lui stesso racconta che meditò a lungo il suicidio, dopo il suicidio di Jacopo.

L’incontro fatale per me è stato “Lady Oscar”.

Un cartone, ebbene sì. Un genere “minore”, se vogliamo, snobbato dagli intellettuali, soprattutto se giapponese e – dunque - per definizione, commerciale. Ma che ne sanno, loro? Di solito questi critici hanno dai 45 anni in su, non hanno vissuto il fenomeno di persona, e lo guardano da fuori. Ma altre generazioni non la pensano così. E’ lo stesso motivo per cui, anni fa, ebbero grande successo tra i trentenni le sigle dei cartoni animati rispolverate per la radio. Le cantavano gruppi dai nomi fantasiosi: I Cavalieri del re, sì. Ma anche i “Rocking horses”, gli “Ufo Robot”, ve li ricordate? Nomi colorati come i cartoni che raccontavano, prima che Cristina D’Avena uniformasse tutto riducendo le sigle che ci divertivano tanto a un’unanimità bulgara.

Quando “Lady Oscar” finì continuai a cercare nei cartoni le tracce di lei. Attesi con ansia spasmodica “Il Tulipano nero”, ma ci trovai uno spessore sottilissimo al confronto, e quella Stella della Senna cui tante bimbe si appassionavano a me – che ero già grandina - dava perfino fastidio. Una delusione, un senso di perdita, di perdita irrimediabile. Niente è stato più come “Lady Oscar”: io continuai a guardare qualche cartone, ma ormai non mi toccavano più, non sentii più mio nient’altro. Non ci prendevo più gusto, e mi staccai.

Fu allora che mi accorsi che ero diventata grande. Dopo “Lady Oscar”, che è stata il mio ponte verso la crescita.

 

Il genio può stare anche in un cartone, non è vero quello che dicono i critici che non sanno di cosa parlano. Anche un cartone può essere un capolavoro. “Lady Oscar” è un capolavoro.

Lo è perché parla di cose vere, con una profondità che non ha niente da invidiare al romanzo più classico. Io leggevo tantissimo, anche allora, e tanti classici: ma fu di Oscar e André che m’innamorai.

Lo è perché parla della vita, della incapacità dell’uomo di riconoscere la felicità, dei sentimenti che ci appartengono di più e che meno possiamo esprimere. Della necessità di tenerli a freno e di come li sentiamo crescere, dentro, proprio perché li abbiamo tenuti a freno. Fino a non poterli più contenere. Delle scelte che ci cambiano, e ci lacerano. Del dolore di riconoscere troppo tardi che abbiamo sbagliato, quando è troppo tardi per rimediare e non abbiamo più tutto il tempo che prima sprecavamo senza pensarci. Dell’impossibilità di rifare quello che è stato. Della propria natura, della propria identità, delle costrizioni che sono intorno a noi e ci condizionano profondamente, anche se non sono le vere cose che contano. Di quanto è difficile trovare quali siano le cose che contano. Dell’amicizia, della lealtà, dell’amore.

Della morte. Sì, anche della morte, che fa parte della vita. E di come sia proprio la morte a dare senso alla vita, perché è il suo arrivo che ci mette davanti agli occhi chiaramente quanto la vita è preziosa, quanto non vada sprecata. Del perdono, del riscatto. L’amore può riscattare anche un destino tragico come quello di André. E di Oscar. Anche se appena riconosciuto. Anche se non riconosciuto affatto.

Un finale tragico. Esasperato, nella sua tragicità, forse. Ma è anche vero che, se non fosse stato tragico, se non avesse sottolineato quel dolore, se ci avesse permesso di coltivare illusioni confortevoli e consolanti, non ci avrebbe fatto pensare così. Non ci avrebbe fatto piangere, soffrire così. E spesso è la sofferenza che fa comprendere.

Poi, sì, certo... tutte le volte che ho preso in mano la penna perché non potevo accettare che quella storia finisse, la scrivevo in modo diverso: le regalavo un finale felice, anni e anni di felicità. Qualche giorno di più, almeno, se proprio mi sentivo pessimista.

Sperare. Anche a sperare mi ha insegnato. Una speranza malinconica, disillusa, magari.

Così.

Se vogliamo coltivare qualche illusione.

Se vogliamo imparare qualcosa da ciò che è stato.

 

E’ per questo che proprio a “Lady Oscar”, che è un cartone, vorrei applicare le parole di Daniel Pennac sulla lettura di libri (da “Come un romanzo”, IV, 10).

“L’uomo costruisce case perché è vivo, ma scrive libri perché si sa mortale. Vive in gruppo perché è gregario, ma legge perché si sa solo. La lettura è per lui una compagnia che non prende il posto di nessun’altra, ma che nessun’altra potrebbe sostituire. Non gli offre alcuna spiegazione definitiva sul suo destino ma intreccia una fitta rete di connivenze tra la vita e lui. Piccolissime, segrete connivenze che dicono la paradossale felicità di vivere, nel momento stesso in cui illuminano la tragica assurdità della vita. Cosicché le nostre ragioni di leggere sono strane quanto le nostre ragioni di vivere. E nessuno è autorizzato a chiederci conto di questa intimità”.

 

 

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