La capricciosa finestra degli amanti

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Questa recensione è stata pubblicata dopo un'attenta e scrupolosa revisione da parte della webmaster e dopo scambi tra l'autrice e la webmaster a proposito del testo in esame. L'editing del testo e la sua forma finale sono a cura della webmaster.

Il primo numero di “Orpheus no Mado”, terza opera di rilievo di Riyoko Ikeda, è una tremenda delusione per chi si aspetti qualcosa di simile a “Lady Oscar “ o a “Caro Fratello”, che sono  manga concepiti in modo tale da dare al lettore il tempo di ambientarsi nel racconto. 

Diversamente da questi, “Orpheus” immette con una violenza tale nel vivo del racconto che il rifiuto sembra inizialmente (ma solo inizialmente) l'unica risposta possibile, perché si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un’opera quanto meno superficiale. Ma tornare dall’edicolante a farsi rendere i soldi sarebbe in realtà una soluzione che impedirebbe di scoprire la magia che questo bellissimo “romanzo a fumetti” ha in serbo per chi abbia voglia di superare lo shock del primo impatto.

Infatti, a leggere con un minimo di attenzione in più, si scopre che in realtà la nostra autrice di manga preferita non ci ha tradito per niente, è riuscita a concepire qualcosa di assolutamente originale senza perdere la profondità dell'introspezione psicologica che abbiamo tanto apprezzato in precedenza.

Il risultato del suo sforzo sono un nucleo denso di tensione e una serie di situazioni che piano piano vengono disvelate, mettendo davanti a tantissimi indimenticabili personaggi e tratteggiando una moltitudine di situazioni affettive molto vicine alla vita reale. Cosa potremmo dire della sua opera che le renda ragione?

 

Lungo i quattordici mesi che la Panini ha dedicato alla pubblicazione di questa storia, leggendo e rileggendo, mi sono spesso meravigliata di come il pensiero dell’autrice traspaia dalle parole dei suoi personaggi. A leggere la biografia di Riyoko Ikeda, si scopre che questa donna in trent'anni ha sfornato cinque o sei storie tragiche con uno sfondo storico ambientato nell’Europa occidentale. I maligni, quali la sottoscritta, si chiedono che evoluzione possa esserci a rimanere sempre intrappolati nello stesso straredditizio genere storico, con il triangolo in cui lei è una donna con caratteristiche vagamente androgine, ed è sempre disegnata uguale ovunque la si vada a guardare?

Noi maligni abbiamo torto. Quello che chi legge percepisce da quest’opera, è un’autrice che si pone delle domande sul significato della vita e delle relazioni umane e, in qualche modo, ad esse risponde, matura in primo luogo nel tratto pittorico, sforzandosi di uscire da uno stile estetizzante per approdare a una descrizione anatomica più approfondita, e che in qualche modo nella sua evoluzione accompagna il testo. Mi riferisco soprattutto al quattordicesimo volume, (che nella prima edizione è il diciottesimo) in cui, di botto, lo stile pittorico si fa stanco, poco curato nella resa dei personaggi – non nella costruzione delle tavole e negli sfondi -, e questo accompagna l'epilogo della storia, in cui si ha l’impressione di svegliarsi da un sogno, e i personaggi, da grandiosi che erano, si fanno vicini alla vita quotidiana, e perdono buona parte del fascino quasi “adolescenziale” che li aveva caratterizzati prima.

I sopravvissuti alla strage voluta dalla nostra Riyoko  sono adulti, raccolgono i loro arnesi e si mettono a ricostruire una vita, piccola e umile, ma col sorriso... tutto ciò, siore e siori, dalla penna di una della più sanguinarie autrici di manga del ventesimo secolo, una che è sempre stata del partito del giorno da leone (contrapposto, si intende, ai mille anni da pecora).

In realtà, lo sfondo di tutto ciò è un tema molto caro a Riyoko Ikeda, già abbozzato in “Versailles no Bara “e sviluppato in “Onisama E”, ma che qui giunge ad una conclusione. I primi due manga lasciano la tristezza nel cuore, perché quello che si percepisce è la consapevolezza che c'è un tempo per ogni cosa, e, quando quel tempo finisce, rimangono solo la malinconia e il pianto accorato dei sopravissuti.

Invece, in “Orpheus” il messaggio che viene trasmesso è che queste cose non potranno più tornare, ci mancheranno per tutta la vita, ma la vita non finisce qui, continua, sicuramente meno attraente, ma non brutta ne disprezzabile... anche così è vita degna...

Il primo esempio nella storia è Maria Barbara, che in maniera del tutto inaspettata, sulla soglia di cinquant’anni di solitudine e tristezza trova qualcuno con cui condividere la propria vita. Ma penso anche ad Isaak lavapiatti , la cui arte si perpetua nel figlio, penso alla rassegnazione con cui Julius si abbandona alla morte, ma anche, immediatamente prima, al modo in cui combatte per tornare ad avere la dignità di un essere umano che sceglie e affronta la vita con coraggio...

Mentre scrivo mi vengono in mente tante parentele vicine e lontane: ad esempio Miss Sarajevo, una bellissima canzone degli U2, che compare nell’album “Passengers”, ed è interpretata con Luciano  Pavarotti. In essa, accanto al richiamo alla speranza, convive il rincorrersi di tristezza e speranza: la prima parte viene cantata da Bono, che rifacendosi al biblico Siracide rammenta che c'è un tempo per ogni cosa

Is there a time for keeping your distance

A time to turn your eyes away (e via cantando)

... e, quando, finisce quel tempo,

Dici che il fiume

Trova la via del mare

E come il fiume

Giungerai a me

con un Pavarotti in splendida forma che ricorda "come un fiume l'amore tornerà” ed è impossibile che questa affermazione non trasmetta gioia.

 

UN’OPERA CORALE

La nostra cara e sanguinaria amica ci ha abituato a delle opere con pochi personaggi da mettere a fuoco, ma che vengono sempre adeguatamente analizzati. Basta pensare anche solo a Jeanne Valois ed allo spazio che viene dedicato a questo “personaggio secondario”; ma pensiamo anche a “Caro Fratello”, in cui tutti alla fin fine sono protagonisti. La sola differenza con questo romanzo è che i personaggi “secondari ma con spazio“ sono davvero tanti. Non ci sono, come capita a teatro, comparse che dicono mezza parola e se ne vanno. In “Orpheus”, invece, alle comparse è riservato uno spazio o quanto meno un ruolo molto consistente, non si può semplicisticamente affermare che tutto ruota intorno a Klaus, Julius e Isaak, ma è come se  l'autrice dicesse, di ognuna delle sue creature (come Michael Ende),  “questa è un'altra storia, e si dovrà raccontare un'altra volta… ma non resisto alla tentazione di accennarvela”. Così assistiamo alla comparsa di una miriade di figure grandiose, soprattutto femminili, nella stragrande maggioranza dei casi non “cattivi “ o “buoni” ma che fanno scelte più o meno condivisibili e ragionate. In questo sta molto della genialità di Riyoko Ikeda, nel suo sapere tratteggiare con incredibile profondità tante sfaccettature, rendendo i personaggi umani, molto vicini a chi legge: così nella prima parte del romanzo non si può rimanere indifferenti a Gertrude, la cameriera inconsapevole che si innamora di Julius, per poi trasformare questo amore in devozione totale, a causa della quale arriva a morire quando scopre che il suo padrone è in realtà una ragazza. Allo stesso modo, è impossibile non maledire senza, nel contempo, affezionarsi a un personaggio come Moritz, che come un ragazzino corre dietro all’ombra della (mai) sua Friederike per una vita  senza accorgersi dell’amore profondo che gli porta Bettina, della felicità che lascia fuggire via a casa. Moritz e Isaak sono in realtà parenti stretti: la differenza è che per Isaak l'unico vero, essenziale e insostituibile amore, la sola ragione di vita è il pianoforte, ed è per esso che si lascia sfuggire gli affetti più cari (Friederike, Roberta) senza quasi accorgersi che sono perduti, e che solo molto tardi nella sua vita esce da una dimensione eroica, (e vagamente adolescenziale) bella da vedere, forse, ma non da vivere, ed approda, ormai solo, alla vita dei comuni mortali. Ma, la vera parte del leone, la parte dell’ape regina, è riservata alle donne. Se dovessi parlare di tutte non ne uscirei mai, e i miei 33 lettori si vedrebbero decimati dalla noia, per cui mi limiterò ad accennare a quelle che spiccano di più, cioè Roberta,Vera, e Adele.

Oltre, naturalmente  a Julius.

Vera e Roberta sono figure profondamente femminili, nel senso che si legano a chi amano e considerano quel legame eterno, sono disposte a combattere molto duramente per mantenerlo saldo. Ma mentre per Roberta il suo altro, l'amore di una vita intera è Isaak, il suo distratto e lontano marito, per  Vera il  legame davvero importante è la famiglia: lei appartiene alla casa. Azzardo? Sonja, di tolstojana memoria, vi dice qualcosa? Come Sonja, Vera c’è, e  c'è soprattutto per il fratello Leonid di cui può, a buon diritto, ritenersi la vera controparte, più della sposa fallita, Adele, più del sogno irraggiungibile, Julius. La fedeltà di Vera alla sua famiglia, ai suoi fratelli Leonid e Ludmil, è quasi maniacale, quasi monacale, (infatti dopo la fuga dalla Russia sparisce) e la spinge a censurarsi, e pentirsi per una vita intera dell'amore che la lega a Efrem, tragicamente ucciso da Leonid stesso. Solo Ludmil, il fratello minore, passato dalla parte dei bolscevichi, saprà restituire  a Vera il perdono ed il senso del suo amore per Efrem, dicendole "lui non poteva tradire te, ma nemmeno i suoi compagni".

Adele invece è la donna che cresce, matura attraverso i suoi sbagli, piangendo calde lacrime, e rendendosene conto forse troppo tardi per poter recuperare il suo Leonid, ma riuscendo comunque a stargli vicino, a guadagnare la sua stima.

 

Julius è un personaggio BELLISSIMO, ed eroico: forse è la più fragile di tutti, ma anche la più profondamente femminile, lontana ma solo lontana parente delle ragazzine fragili, dolci, scarsamente indipendenti, un po’ sconsiderate, anche se fondamentalmente allegre e solari che ai giapponesi piacciono tanto, ma con una forza molto più grande, ed una dolcezza costruita anche sul dolore, e con caratteristiche maschili, ma molto sfumate, e molto solo per finta.

Se Oscar è sempre vagamente in bilico sulla sua identità Julius sa di essere fragile e bisognosa di aiuto, non si stupisce di innamorarsi, e desidera i baci del suo primo e unico amore con una freschezza che intenerisce.

Ed è in nome di questo amore che intraprende un viaggio che ha qualcosa di eroico in sé.

Ma se fosse solo eroica non ci piacerebbe: sarebbe noiosa e lontana, chiusa nella sua bellezza. Invece il bello di Julius è la sua voglia di quotidiano, di coccole, di preparare lo stufato, di leggere i libri che possono accostarla al suo Alexjei, e il suo entusiasmo nel combattere per conquistarlo. E d’altronde la bellezza di Alexjei è la facilità e la tranquillità con cui risponde prima con affetto, poi  con amore alla sua Julius. Forse questo non rappresenta un modello facilmente condivisibile da tutte noi, moderne donne sull’orlo di una crisi di nervi... però è bello.

 

Una cosa che mi ha colpito infinitamente è una considerazione di Julius morente che si domanda ”chi mi perdonerà?” “Dove andrà questo amore infinito che ha scosso le basi della creazione?”.  Mi sono chiesta che cosa spinge una persona ad avere bisogno di qualcuno che la perdoni, che cosa la spinge ad avere bisogno di credere nell’infinto - o nell’aldilà che dir si voglia -, comunque in qualcosa in cui non finire, non essere perduti. Me lo sono chiesta all’interno della nostra società che a mio parere non aiuta minimamente ad avvertire questi bisogni, ma cerca al contrario di minimizzarli in tutti i modi. Siamo tutti chiamati all’efficienza, e nell’efficienza vogliamo essere felici. Ma ci riusciamo? Davvero la nostra è una società a misura d’uomo? Chi rimane escluso da questo? Chi sono quelle persone che non sono in grado o semplicemente non hanno voglia  di uniformarsi a questo modello? Per tutte queste considerazioni dico che non avrei mai immaginato che questi bisogni mi venissero svelati da una sanguinaria mangaka, del paese più efficiente del ricco e civilizzato mondo occidentale con questa straziante chiarezza.

  

08 luglio 2005 ore 20.55

 

pubblicazione sul sito Little Corner del luglio 2005

 

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