Plagi e (menti) plagiate
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Scusate se m’intrometto, ma è la gratitudine a spingermi: sono debitrice della più bella risata delle ultime settimane all’ingegno brillante che per primo ha utilizzato il termine “plagio” per marchiare d’infamia molti racconti su Lady Oscar che avevano – poverini – il solo torto di trattare argomenti in qualche modo avvicinabili tra loro.
Premesso che una risposta non sarebbe necessaria (è
piuttosto forte – tra l’altro - la sensazione che si tratti di operazione a
scopo pubblicitario, mirata a fare un po’ di baccano e procurare contatti per
siti evidentemente poco contattati), tuttavia qualcosa si può forse dire, se
non altro per tentare di dissipare per quanto possibile le tenebre
dell’insipienza.
Dunque, secondo tali sagaci menti, plagio sarebbe
scrivere storie di argomento più o meno vagamente simile tra loro. Per esempio
– calando la questione nel contesto concreto di “Lady Oscar” – sarebbero
colpevoli di plagio i racconti relativi a: dichiarazioni d’amore tra Oscar e
André, possibili sviluppi della loro vita qualora fossero sopravvissuti alla
Rivoluzione, avventure e tormenti collaterali di personaggi della saga, scene
d’amore più o meno variopinte, accadimenti mortuari ed eroici et cetera…
Sarebbero invece esenti da tale colpa solo, se non
vado errata (sto citando a memoria le autorevoli statistiche portate a suffragio
di tale tesi), l’otto per cento delle fanfictions pubblicate in vari siti
dedicati a Lady Oscar, che tratterebbero tematiche originali (finché a qualcuno
non venisse la malaugurata idea di accodarsi, nel qual caso anche gli originali
finirebbero nel calderone dei plagiarii, secondo il criterio di accostamento
usato nella statistica).
Ne conseguirebbe, come prima osservazione, così,
buttata lì, che siano da considerarsi originali esclusivamente racconti in cui,
che so, Oscar fosse impegnata in
rapine in banca o narcotraffico, André avesse intrapreso la carriera del
pornoattore cimentandosi in eleganti geometrie con la timida Rosalie, o magari
in suggestivi trenini col suo amico del cuore Alain; oppure, che dire,
narrazioni di raccapriccianti riti satanici ai danni della tomba del generale,
sacrifici umani nel boudoir di Maria Antonietta, prese della Bastiglia che
finiscono col trionfo della guarnigione asserragliata nella fortezza… e via
fantasticando.
Un po’ di rigore non guasta mai, e allora mi si
permetta di aprire il dizionario e cercare alla voce “plagio”. Dunque…
secondo il signor Nicola Zingarelli dicesi plagio
la “appropriazione, totale o parziale, di lavoro altrui, letterario,
artistico e simili, che si voglia spacciare per proprio”.
E già qui c’è qualcosa che non torna, con i conti
del nostro autorevole esperto di contraffazioni letterarie (da cui indubbiamente
il povero Zingarelli ha molte cose da imparare). Perché “appropriarsi” vuol
dire “prendere e fare proprie”, e – nel caso di testi letterari – questo
significa sostanzialmente e semplicemente copiare parole, espressioni,
brani, pagine, capitoli, personaggi, interi libri e quant’altro, dicendo poi
in giro che li si è scritti da sé. Lo fece, ad esempio, mentre Ugo Foscolo era
assente perché militare, un editore con pochi scrupoli che fece rimaneggiare il
manoscritto originale dell’Ortis (allora
intitolato “Laura lettere”), pubblicandolo col titolo “Vera storia di due
amanti infelici”.
Tanto per chiarire le idee a chi non le avesse molto
chiare, non si sa mai.
Si può, poi, certo, copiare anche una situazione. Ma
qui parlare di plagio è già molto più difficile, perché bisogna proprio che
le situazioni siano riprodotte in modo palmare, preciso, e spesso non basta
neanche quello. Perché in letteratura molto spesso si riprendono eccome, gli
altri autori, e lo si fa intenzionalmente. Si chiama “arte allusiva”,
“intertestualità”, “interdiscorsività”, se volete. Ma non credo che
nessuno si sognerebbe mai di accusare di plagio Foscolo per aver scritto il
sonetto “In morte del fratello Giovanni”, che non solo parlava di una
tematica affine a un carme di Catullo, e cioè la morte del fratello e il suo
pregare sulla di lui tomba (c. 101, “Multas per gentes et multa per
aequora vectus”), ma lo faceva anche con le stesse parole: “Un dì,
s’io non andrò sempre fuggendo/ di gente in gente…”). Messi uno
sull’altro, i due componimenti, si richiamano in maniera evidentissima,
sembrano ricalcati: basti pensare al “cenere muto” di Foscolo e alla
“mutam cinerem” dell’autore antico; ma non mi dilungo nel confronto perché
è cosa notoria e insegnata in tutte le scuole, e un po’ anche perché dubito
che il nostro ingegno brillante conosca il latino.
Oltretutto, poi, la situazione si aggrava, perché
Catullo in quel carme (e proprio nelle parole che ho citato) viene richiamato da
un altro autore, il non meno bravo Tibullo, che riproduceva fedelmente intere
sue espressioni in almeno due delle sue più belle elegie (I, 3, vv. 4-8 e II,
6, vv. 31-34). E Virgilio, allora, che nel VI canto dell’Eneide (v. 692) ci
presenta Anchise che accoglie Enea in gita turistica ai campi Elisi con le
parole “Quas ego te terras et quanta per aequora vectus…”, le
stesse di Catullo? E, se proprio vogliamo andare fino in fondo, anche Catullo si
rese colpevole di plagio, plagiando nientemeno che l’incipit dell’Odissea (una cosetta poco nota, si sa), in cui si
parla per l’appunto di un uomo – tale Ulisse – che “vagò errando
sbattuto” per molte terre e molti mari, e “molto soffrì” (Od., a,
vv. 1-4). Per non parlare poi di quel plagiario del poeta Giorgio Caproni, che
si permise di chiamare una sua lirica rivolta alla tomba del fratello morto
“Atque in perpetuum…” , addirittura col verso catulliano: se non è
sfacciataggine questa! E ora che ci penso, a proposito di Ulisse, plagiario è
anche Joyce, che così intitola il suo capolavoro, elaborando perfino un indice
i cui episodi si richiamano espressamente a quelli di Omero. E come dimenticare,
di pensier in pensier, quel
plagiario di Dante, che mise Ulisse all’Inferno e ancora lo fece errare per
mare, stessa situazione – scandalo! – dell’Odissea?
E come la mettiamo sempre con Foscolo, che poi nel
1801 pubblica l’Ortis, e si scopre
che la trama è la stessa del Werther
di Goethe, pubblicato sedici anni prima, con un uomo che s’innamora di una
donna che non può avere per colpa della società crudele e per tal motivo si
uccide? Ma anche Goethe aveva i suoi scheletri nell’armadio, perché già un
certo Rousseau aveva parlato di vicenda analoga ne “La nuova Eloisa”.
E Manzoni? Ce lo vogliamo forse dimenticare? Forse sono in pochi a saperlo, ma il voto di castità di Lucia nei Promessi Sposi fu copiato da Stendhal, ne “La certosa di Parma”, dove a fare voto di non concedersi al suo amato è la dolce Clelia. E qui tra l’altro la cosa si complica, perché Stendhal è praticamente contemporaneo a Manzoni: “La certosa” è del 1839 mentre le edizioni dei Promessi sposi sono ben tre (1823-1827-1840). Chi sarà stato a impadronirsi delle opere dell’ingegno dell’altro? Non mi risulta che i due si siano citati in giudizio.
Ma torniamo un po’ indietro nel tempo, perché
l’antichità ci riserva altre perle: “Le metamorfosi” di Apuleio e
“L’asino” dello pseudo-Luciano narrano esattamente la stessa cosa, e cioè
le avventure di un uomo per errore trasformato in asino e per questo
protagonista di mille peripezie. Come la mettiamo? E a metterci il carico da
undici arriva poi quella madonnina infilzata di Collodi che, zitto zitto, quatto
quatto, che fa? Ci descrive anche lui una metamorfosi di Pinocchio in asino, e
ha perfino la sfrontatezza di trasformare la dea Iside che ritrasforma in uomo
il protagonista delle “Metamorfosi” in una slavatissima Fatina dai capelli
turchini, che guarda caso ha un mantello stellato, proprio come la dea Iside
aveva un manto di stelle, e che guarda caso pure lei trasforma Pinocchio in un
bambino. Roba da pazzi, e pensare che “Le avventure di Pinocchio” sono il
libro per l’infanzia più famoso del mondo. Belle cose da insegnare ai
pargoli…
Nella romanità arcaica l’ispirarsi a testi altrui
era praticamente la prassi: la letteratura latina nacque così, con una
traduzione dell’Odissea fatta da
Livio Andronico. E nella commedia palliata (d’argomento greco) il copiare
autori greci era la prassi, e il mescolarli era definito con un termine tecnico,
contaminatio. Plauto lo fece
abbondantemente, e Terenzio fu persino accusato di non aver riprodotto
abbastanza fedelmente il modello delle sue opere. Ma si sa, Plauto e Terenzio
erano due scribacchini. E con loro Molière, noto pennivendolo venuto in
seguito, che ai personaggi plautini ispirò le sue più famose commedie (basti
pensare – uno per tutti - a “L’avaro”, che è una ripresa evidente del
personaggio di Euclione nell’Aulularia).
E Orazio che traduce il greco Alceo, allora?
E nemmeno gli Inglesi si salvano, se è per questo:
un autore minore, tale William Shakespeare, si ispirò, per una sua operina dal
titolo “Romeo e Giulietta”, a una vicenda appartenente all’antica
tradizione novellistica italiana. Per non parlare dei suoi drammi d’argomento
romano, in cui ebbe l’ardire di fare suoi addirittura personaggi della storia
antica, e di un’altra nazione, per giunta.
Insomma, non mi dilungo ulteriormente, anche perché
altrimenti farei finire in galera l’intero canone letterario occidentale. Mi
sembra che quanto detto sopra dimostri in modo abbastanza chiaro che in
letteratura ispirarsi a situazioni, personaggi e persino testi creati da altri
sia non solo una prassi consueta, ma anche e soprattutto un mezzo per creare
altri testi, altra letteratura, e di grandissimo spessore. Anche quando si cita
intenzionalmente. Figuriamoci per le situazioni vagamente affini. Mi risulta,
del resto, che gli esseri umani abbiano tutti in comune nella loro esistenza il
fatto di nascere, crescere, innamorarsi, far l’amore (si spera), mangiare,
bere, dormire, fare figli, soffrire, morire e quant’altro. E non mi pare
proprio che si possano ritenere collegati - e dunque non originali (!) - due
testi solo perché tutti e due parlano – putacaso – di gente che va a cena
fuori o sbadiglia o dorme o inserisce la lingua in bocca all’amato nei limiti
delle umane possibilità, dato che tale gesto è piuttosto comune e praticato da
tutti i benpensanti, senza che nessuno si scandalizzi o si ritenga colpevole di
plagio.
Le fanfictions su Lady Oscar non fanno eccezione,
visto che alla letteratura appartengono almeno nell’intenzione letteraria (per
lo meno quelle della sottoscritta, sulle cui intenzioni mi sento di poter
garantire con una certa sicurezza). E se Oscar e André sono personaggi ideati
dalla Ikeda, che differenza fa? Anche Ulisse era un personaggio ideato da Omero,
ma ce lo ritroviamo tra i piedi in tutte le letterature del mondo, in opere in
cui vive vicende simili a quelle narrate nell’Odissea, ma rielaborate nei loro
mille possibili sviluppi a seconda di ciò che l’autore voleva esprimere con
la sua scrittura. Non credo proprio che Omero avrebbe citato Dante e Joyce per
plagio.
Credo, quindi, che gli autori di fanfictions e i webmasters possano stare più
che tranquilli: ben altro ci vuole per passare da copioni.
A chi invece si è fatto venire questa bella idea del
plagio – forse indotto dalla lettura di troppi thriller a sfondo giudiziario
-, che posso dire… prima di tutto complimenti, perché con poco sforzo ha
sollevato un bel po’ di discussioni (sebbene la questione, così posta, non
fosse poi occasione di così grande arricchimento culturale); in secondo luogo
che forse una ripassatina al manuale di letteratura usato a scuola non gli
farebbe male (se ce l’ha ancora); e per ultimo che, per favore, la prossima
volta che gli viene in mente qualche altra interessante questione su cui
dibattere rifletta bene sulla meravigliosa pratica della meditazione silenziosa,
che di solito impedisce di perdere splendide occasioni per stare zitti.
Alessandra
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