L'uccello che girava le viti del mondo
Warning!!!
The author is aware and has agreed to this fanfic being posted on this site. So, before downloading this file, remember public use or posting it on other's sites is not allowed, least of all without permission! Just think of the hard work authors and webmasters do, and, please, for common courtesy and respect towards them, remember not to steal from them.
L'autore è consapevole ed ha acconsentito a che la propria fanfic fosse pubblicata su questo sito. Dunque, prima di scaricare questi file, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli su di un altro sito, tanto più senza permesso! Pensate al lavoro che gli autori ed i webmaster fanno e, quindi, per cortesia e rispetto verso di loro, non rubate.
Copyright:
The Copyright of Lady Oscar/Rose of Versailles belongs to R. Ikeda - Tms-k.
All Rights Reserved Worldwide.
The Copyright to the fanfics, fanarts, essays, pictures and all original works belongs,
in its entirety to each respective ff-fa author, as identified in each
individual work. All Rights Reserved Worldwide.
Policy:
Any and all authors on this website have agreed to post their files on
Little Corner and have granted their permission to the webmaster to edit such
works as required by Little Corner's rules and policies. The author's express
permission is in each case requested for use of any content, situations,
characters, quotes, entire works/stories and files belonging to such author. We
do not use files downloaded or copied from another website, as we respect the
work and intellectual property of other webmasters and authors. Before using ANY
of the content on this website, we require in all cases that you request prior
written permission from us. If and when we have granted permission, you may add
a link to our homepage or any other page as requested.
Additionally, solely upon prior written permission from us, you are also
required to add a link to our disclaimers and another link to our email address.
The rules of copyright also apply and are enforced for the use of printed
material containing works belonging to our authors, such as fanfics, fanarts,
doujinshi or fanart calendars.
l’accostare elementi riconducibili alla realtà investigabile in termini logici ad elementi totalmente a-logici e irrazionali, che però non si presentano affatto - è questo il punto - come irreali, ma pretendono per sé spazi di uguale, se non maggiore realtà rispetto ai precedenti. Per questo sento il bisogno di metter in parole alcuni sentimenti e riflessioni confuse che si agitano tra la mente e il cuore (il che è già buon segno perché vuol dire in ogni caso che questo libro non mi ha lasciato indifferente), nella speranza di riuscire a fare un po’ di chiarezza e senza sapere esattamente, in questo momento, dove andrò a parare: perché forse anch’io, come il protagonista di “Tokio blues”, sono una di quelle persone che per capire qualcosa hanno assolutamente bisogno di scriverla.
Per il motivo sopra espresso - l’esigenza di fare un po’ di chiarezza - non mi faciliterò il compito, in questa recensione, buttandomi su prestigiosi aggettivi-scorciatoia tipo “onirico” e “transfondente”. Ammiro Murakami anche se lo conosco relativamente da poco, e non posso dire di conoscerlo bene. Ho letto “Tokyo blues - Norwegian wood”, “Dance Dance Dance”, “La ragazza dello Sputnik” e questo libro, appunto, “L’uccello che girava le viti del mondo”.
Da subito mi è stato evidente
che mi trovavo davanti a un grande scrittore. Del resto come si fa a non
innamorarsi di uno che scrive frasi del genere: “Il cameriere non si girò
neanche una volta. Nella sua andatura c’era qualcosa di singolare, sembrava che
sfilasse nel Campionato mondiale di Portamento dei camerieri d’albergo”. Capisci
subito che hai davanti il genio, di fronte a una cosa simile. Schiatti d’invidia
e gli elevi un grazie in cuor tuo, perché è bello vedere che al mondo c’è
qualcuno che sa usare le parole con questa grazia, con quest’acume, con questa
verità.
C’è nel suo modo di raccontare, di descrivere insinuandosi lieve tra gli oggetti
e i particolari, qualcosa di incredibilmente poetico. Il suo stile è di una
forza e di una sicurezza e di un fascino capaci di avvincere totalmente il
lettore. È limpido e avvolgente e sfumato nello stesso tempo. Sospetto - ma non
potrò mai saperlo - che ciò sia dovuto in parte al fatto che scrive in
giapponese, perché ho già provato sensazioni simili leggendo altri suoi
conterranei, tipo Mishima o alcune cose della Yoshimoto, e ho la sensazione che
questa lingua - per il suo esprimersi in ideogrammi -, possieda un potere di
suggestione maggiore delle nostre lingue, che hanno bisogno di trasformare i
concetti in sillabe, li concretizzano troppo e fanno perder loro la poesia. In
qualche modo quest’“aura”deve passare, non so come, nelle traduzioni, perché è
immancabile che me ne renda conto, quando ho davanti un autore giapponese.
Non è la prima volta che
avverto un senso di disagio leggendo un romanzo di Murakami: un po’ in tutto
quello che ho letto di lui c’era questo senso di irrisolto, di non spiegato. Le
ragioni profonde dello sconvolgimento di Myu ne “La ragazza dello Sputnik”, dopo
l’esperienza che le cambia la vita; i fantasmi che si agitano nello spirito di
Naoko in “Tokio blues”; l’uomo-pecora in “Dance Dance Dance”... Quello che ho
apprezzato di più, in ogni caso, è stato quest’ultimo, “Dance Dance Dance”, per
la bellezza e la straordinaria lucidità della narrazione (indimenticabili per la
profondità e l’ironia le pagine in cui si descrive l’ex compagno di scuola
Gotanda), per l’intrecciarsi in modo apparentemente confuso ma alla fine
perfettamente coerente delle diverse trame del testo, per il senso di nuovo
scorrere e di liberazione del respiro che si avverte alla conclusione.
Ma il senso di disagio resta, e qui, ne “L’uccello che girava le viti del
mondo”, si trasforma in qualcosa di più forte.
Il protagonista scende in un pozzo asciutto e, dal fondo di questo pozzo, passando ore, giorni al buio, cerca di trovare la ragione di quello che gli è accaduto: il perché dell’abbandono della moglie, la strada che deve percorrere per riaverla con sé e per rimettere insieme i fili dispersi della sua vita. Dal fondo del pozzo, passando attraverso il muro, egli penetra in un altro ambiente, parallelo a quello in cui vive, all’interno del quale sa che si trova la risposta alle sue domande, la soluzione e l’uscita dallo stato di disordine in cui sta vivendo. Solo dopo che è riuscito a penetrare al fondo di questo mistero, dopo che ha compiuto nel mondo al di là del muro del pozzo delle azioni rischiose e difficili e violente, la sua esistenza riprende un corso ordinato e nuovamente chiaro, e l’acqua della vita ricomincia a fluire.
Ora, è proprio in questo punto
il mio problema: “onirico” non è affatto un termine giusto per definire
quest’esperienza, secondo me. Se si trattasse solo di sogni, di viaggi fittizi
della mente che permettono di capire meglio ciò che accade nella vita vera, non
ci sarebbero impedimenti. Sarebbe facile da capire e da accettare, come è facile
capire il compiersi di un’esperienza dell’intelletto o dello spirito che
consenta di ricercare delle coordinate su cui orientarsi nel mondo.
Il fatto è che, nei romanzi di Murakami, almeno per quello che mi pare di
comprenderne, le cose non stanno affatto così. Non stanno mai così. Lo dice
chiaramente l’uomo-pecora di “Dance Dance Dance” al protagonista che si chiede
se tutto ciò che sta vivendo - la trasformazione dell’albergo, il cambiamento
dell’odore dell’aria, l’incontro col suo strano interlocutore -, sia una sua
allucinazione: “Tutto questo è reale”. Non è un sogno, né una fantasia ad occhi
aperti, il passare attraverso il muro di un pozzo, il parlare con un
uomo-pecora, il vedere dalla ruota di un Luna-park se stesse nella propria
stanza d’albergo nell’atto di avere rapporti sessuali con un uomo che repelle. È
un’esperienza reale, effettiva, non esclusa dalla cosiddetta realtà vera e
propria ma in qualche maniera ad essa parallela e con essa comunicante; e gli
atti compiuti in questo mondo parallelo si trasmettono come conseguenze
effettive alla realtà “vera e propria”. Uso le virgolette perché è evidente che,
stando così le cose, i contorni di quella che comunemente chiamiamo realtà
perdono di consistenza e risultano molto meno chiari e certi di quanto possiamo
credere.
La voglia che viene a Okada
Toru sulla guancia è la conseguenza di un’azione compiuta nel mondo al di là del
pozzo, e scompare in conseguenza di un altro episodio verificatosi in questa
dimensione parallela; Toru ha sogni erotici su Kano Creta, ma Creta il giorno
dopo è in grado di descrivergli esattamente gli atti sessuali compiuti in sogno;
Toru spacca la testa a uno sconosciuto nel buio della stanza al di là del pozzo,
e nel mondo al di qua del pozzo il suo nemico è colpito da un ictus.
Non sono coincidenze, stranezze casuali. Sono segni. C’è un preciso rapporto di
causalità tra una cosa e l’altra, e il testo indica chiaramente e senza
possibilità di equivoco, a mio parere, che è questa la direzione da prendere e
questa la lettura da dare.
Ovvero il testo chiede al lettore di cooperare al suo farsi accettando come reali e credibili dei fenomeni impossibili da considerare tali in una visione del mondo orientata su coordinate logiche. Il testo abbandona deliberatamente la strada del razionale e propone una visione del mondo in larga misura contrassegnata dall’irrazionale e dall’alogico. Propone di seguire il percorso del protagonista facendo propri e ammettendo come plausibili dei percorsi interpretativi che richiamano il campo del “magico”, o - se vogliamo usare una definizione un tantino meno svilita - il campo, per così dire, del paranormale.
Nel mondo di Okada Toru accadono cose che non sono regolate da ordinari rapporti di causa-effetto, ci sono nomi e voci che cambiano di continuo pur appartenendo alla stessa persona; individui soli, eventi traumatici, incontri misteriosi e risolutivi, coincidenze del tutto imprevedibili in termini razionali che divengono determinanti per lo sviluppo della vicenda.
La narrazione, soprattutto da un certo punto in poi, abbandona le strade consolidate della rappresentazione realistica e si sviluppa secondo una trama visionaria accostando elementi a prima vista completamente diversi e lontani tra loro ma per i quali si rivendica - in modo implicito e tuttavia assai chiaro - una precisa coerenza d’insieme.
E in questo scenario confuso in cui ogni cosa - lo stesso alternarsi “illogico” dei capitoli - rimanda a un’altra in modo apparentemente accidentale ma in verità ben determinato secondo una rete di continue interconnessioni, il protagonista si muove alla ricerca di qualcosa che ha perduto, col dubbio crescente, una scoperta dopo l’altra, di non averlo mai posseduto davvero. Incontrando le persone del suo presente e ascoltando i racconti terribili del passato proprio e di altri, di tutto un popolo, egli arriva più volte a percepire fisicamente, a toccare con mano, qualcosa che può essere forse in modo piuttosto banale definito come Male: il male che pervade il mondo e sta nell’interno delle persone, che può essere tirato fuori da esse e venire avvertito fisicamente sotto la pelle della mano come una pallina dallo spessore duro, nel corpo di una donna oltraggiata come un nucleo oscuro che emerge e devasta la coscienza. Questo male esiste e non è solo una proiezione delle nostre paure, delle nostre inadeguatezze, della nostra incapacità a vivere in un modo compiuto: o, per meglio dire, su di queste paure, inadeguatezze e incapacità si modella, ma ha una sua concreta e sconcertante consistenza. Tanto più sconcertante e violenta quanto più si accosta, come una realtà compresente e altra, alla più normale e ordinaria quotidianità. È come se l’autore volesse dirci propriamente questo, che il male esiste non solo come realtà osservabile ma come entità trascendente, come principio metafisico, che è però concretamente presente e attivo nella nostra vita, e la devasta continuamente con una tremenda forza operativa.
Forse quella di indisporre il
lettore, di disorientarlo e sottoporlo a una fruizione in una certa misura
disturbante è una scelta precisa dell’autore, e in tal caso potrei anche dire
che il proposito è andato a segno. Potrei anche dire che il fatto che non mi
siano simpatici i personaggi non significa affatto che come personaggi siano mal
riusciti, tutt’altro. Non mi è simpatico Okada Toru perché è lo stesso
personaggio che ho già visto all’opera come protagonista in tutti i romanzi di
Murakami che ho letto. Perché nella sua intelligenza, nel suo quieto distacco
dalle cure degli individui comuni e da tutto ciò che gli altri considerano
importante, nella discreta accettazione delle critiche che riceve e nel suo
decidere di scendere in basso, sempre più in basso, per ritrovarsi, nasconde
un’enorme presunzione e l’effettiva incapacità di percepire i sentimenti degli
altri, concentrato com’è soltanto sui propri. Il fatto che abbia bisogno di
tanto tempo per arrivare al bandolo della matassa dipende in ultima analisi da
un suo limite umano e da un difetto di sensibilità insito nella sua personalità,
di cui peraltro si compiace copertamente (e se ne compiace anche l’autore). Ciò
non toglie che sia un bel personaggio, una volta preso atto dei suoi difetti.
Non mi è simpatica Kasahara May e non mi sono simpatiche le propensioni morbose
del narratore per le ragazzine prepuberi, che non ha nemmeno il coraggio di
ammettere spingendosi con onestà fino in fondo. Eppure Kasahara May è un
personaggio a suo modo toccante ed il percorso di ricostruzione di se stessa che
compie è alquanto credibile. Non mi piace - ovviamente - Boris lo scorticatore,
responsabile dell’unico salto di pagine intenzionale che abbia fatto in un libro
da tanti anni a questa parte (e a proposito, a volte mi piacerebbe che su certi
libri venisse messo un bollino rosso prima delle scene troppo violente, perché
non è detto che tutti leggano di buon grado la rappresentazione di un uomo
scuoiato vivo), ma è certamente un personaggio dotato di spessore. Mi è
antipatica Kumiko, che peraltro è presente come un’assenza, solo “in negativo”,
evocata nei ricordi e nelle percezioni del protagonista, o nelle lettere che
scrive, ma mai direttamente nel suo parlare e agire sul momento. Ma Kumiko ha
una sua profonda ragion d’essere perché è, a prescindere, l’oggetto amato e la
meta cui Toru tende, per quanto possa essersi sporcata e sottratta alla sua
ricerca. Mi è indifferente sul piano personale Wataya Noboru, che è il malvagio
della storia, ma nella sua funzione di malvagio malato funziona egregiamente.
Non ho particolare propensione per gli altri, che mi sembrano tutti alquanto
sconclusionati e persi nella loro ricerca, ma non posso certo negare che sia
proprio questo loro essere sconclusionati e persi, pieni di ferite e maltrattati
dalla vita, la radice intima e la ragione del libro, che descrive il ritrovare
la strada non di un solo uomo, ma di un’intera umanità sofferente.
L’unico che amo senza riserve è il tenente Mamiya, perché è l’unico che non
riesce a vivere autenticamente non perché non sappia ma perché non può; perché è
una persona intimamente gentile e infelice, come tutti quelli che un giorno,
senza aver fatto male a nessuno, vengono buttati in un pozzo.
C’è la guerra in questo
romanzo, una guerra passata e lontana: ed è una storia infinita di sofferenza,
di morte, di violenza inaspettata e crudele, insensata e condotta con diligenza.
La guerra che combattono i soldati durante l’occupazione della Manciuria, ma
anche la guerra che continua dopo la guerra, in tempo di pace, negli angoli
oscuri e irraggiungibili della nostra quotidianità regolata. La guerra come
metafora della vita, della perdita, della ricerca di un nuovo, faticoso
equilibrio.
Metafora. Ecco, se devo trovare un’interpretazione che possa rendere per me
accettabile quello che ho letto, trasformarlo in qualcosa che io possa
condividere, direi forse che, più che di sogno o della rappresentazione di una
realtà parallela, si dovrebbe parlare di metafora. Il pozzo, il cappello rosso
di Kano Malta, la voglia bluastra sulla guancia del protagonista e il ritrovato
e ribattezzato gatto Sawara, i viaggi di Okada Toru attraverso il muro
gelatinoso del pozzo, le sue eiaculazioni impreviste e la schiena di porcellana
di Kumiko, Nutmeg e Cinnamon e le mani di Kasahara May sugli occhi del fidanzato
che guida la moto dovrebbero essere la metafora, vera, di una ricerca.
In un mondo in cui, in maniera un po’ pirandelliana, non è più possibile sapere
se si conoscevano davvero le persone o no, in cui non è possibile nemmeno sapere
se si conosceva se stessi, chiudersi in un pozzo vuoto con una mazza da baseball
e passarne il muro freddo e gelatinoso per risalire all’origine della sofferenza
e liberarsi da essa, è la metafora della ricerca che possiamo, forse dobbiamo
intraprendere. Con una speranza e una consolazione, quelle che discrete
concludono in fondo tutti i libri di Murakami, per lo meno quelli che ho letto
io: che in qualche modo ritrovare una strada è possibile, e che da qualche punto
nascosto della terra alla fine l’acqua di un pozzo secco torna a rifluire.
pubblicazione sul sito Little Corner del dicembre 2009
Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore
Mail to *alessandra*