Laura Luzi

L’altra Oscar – una rilettura dell’intervento di Jacques Demy sul tema di Lady Oscar[1]

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A mia madre, perché, quando c’era lei, era più semplice. A Pat, perché condividiamo questa passione

 

Nota: al momento di pubblicare, mi manca ancora una fonte. Non appena avrò potuto consultarla, renderò disponibile una versione aggiornata. Parte delle note è stata volutamente coperta per proteggere il lavoro dai furti in internet.

 

Origini dissonanti, pregiudizi di costume

 

È abbastanza strano che un personaggio sobrio come quello di Oscar, perlomeno per come lo apprezzo io, nasca da un manga luccicoso e passi per il Takarazuka. Di fatto, però, io ho conosciuto prima la Oscar di Dezaki e, forse, questo significa partire con un diverso approccio al personaggio.

Eccessi come quelli che il Giappone, nei fenomeni del lolicon e del cosplay, recepisce, nel suo immaginare molto alla lontana la cultura occidentale, ingenerano un certo senso di estraneità.

L’eccesso che ciò che è occidentale sia rappresentato attraverso lo stereotipo di fiocchi e merletti, zeppe e zampe d’elefante, lustrini e paillettes, boccoli.

Oscar, una donna che vive lavorando come un uomo, che non veste di pizzi e merletti, eppure arriva da lì, dai fiorelloni della Ikeda e dalle esagerazioni del Takarazuka. Che si ama o si tralascia. Fenomeno di costume e cultura popolare, bombardamento mélo e patinato.

Eppure, come percepiamo in Occidente il personaggio pare essere alquanto distante dalle sue scaturigini e dall’apparato dei fan orientali. Riyoko Ikeda stessa sembra scoprire solo da pochi mesi a questa parte quanto noi occidentali apprezziamo l’intrinseca modernità di personaggi come Oscar, André e Alain.

Dunque, il pesante retaggio della cultura popolare orientale e dello stereotipo di un Occidente visto, immaginato, di laggiù, grava su Oscar.

Il passaggio risalta piuttosto evidente in alcuni contenuti speciali relativi al live movie di Lady Oscar.[1]

Catriona MacColl, a differenza di Dominique Sanda, originaria scelta, che si era rivelata “economicamente irraggiungibile” (cito dal mitico magazine «Yamato»: non ho mai dimenticato quell’impagabile espressione[2] – i produttori erano Mataichiro Yamamoto, che, in seguito, lavorò anche con Dezaki, e Agnès Varda, moglie del regista Demy), non era affatto male. Un bel viso, non rifatta come tante di ora. Elegante. Fisico non adattissimo, ma un bel viso aperto.

C’è, però, una scena significativa riportata in uno dei dietro le quinte del film. Quando prendono una parrucca bionda e, non contenti della cosa in sé, arrivano a riempirla di ricci assurdi. Mettono quella roba addosso alla povera Catriona e il personaggio, già non facile di per sé, si avvicina pericolosamente al grottesco. Vogliamo parlare degli stivaloni? Dell’uniforme troppo stretta di spalle e che fasciava e sottolineava enormemente le gambe?

Parte da qui, la mia analisi.

La cultura occidentale non recepisce con facilità abitudini e usi e tradizioni orientali. Il manga della Ikeda, che, per essere rappresentato su un piano realistico e accettabile, avrebbe necessitato di un lavoro di introspezione profondo, di una sceneggiatura poderosa, di mani sapienti, e non solo di appassionati del manga o di produttori motivati e decisi, purtroppo, passato attraverso le mani di Demy, ne esce devastato.

 

La versione di Demy: Oscar, donna inadeguata – una lettura minimalista ma non riuscita

 

Francesco Prandoni, recensendo il film in uno degli storici magazine «Yamato» dedicati a Lady Oscar, riferiva della “catastrofica inadeguatezza” di Barry Stokes “lontano anni luce dall’estetica del bishonen” e, a proposito della scelta di Catriona Maccoll, non esitava a definirla “infelicissima, incontrando l’unanime sfavore delle esigenti (e intransigenti) fan di Berubara”.[3] In effetti, a mio avviso, quello che il film, che precedeva di sette mesi la messa in onda dell’anime, aveva mostrato era una sorta di caricatura grottesca, deformata dagli occhi di un regista impietoso, di una donna totalmente inadeguata al ruolo che le viene imposto ed, anche, non ancora pronta ad una autonomia sentimentale. Oscar marionetta, come, in fondo, sintetizza uno dei personaggi secondari del film.

È una lettura molto interessante, questa, in chiave minimalista e di destrutturazione del personaggio, non più eroico. Ma avrebbe avuto bisogno di ben altro spessore. Sempre che sia voluta. Penso di sì.

Demy scriveva in proposito: “Un fumetto giapponese, degli attori inglesi ed io. Un modo di raccontare la storia di Francia.” Oscar, insomma, non come eroina, ma come figlia rifiutata dal padre, una lettura alquanto interessante. In effetti, se il tema dell’orgoglio di casta, della ripetizione del mestiere/incarico/titolo del padre si staglia sovrano nell’interpretazione della storia di Oscar, quello che Demy notava, cioè il rifiuto totale di un padre nei confronti della figlia, al punto di snaturarla, era molto interessante.

È vero, come sostiene Dezaki nella sua intervista (tradotta da Alessandra nel nostro ultimo Summer Magazine, luglio 2011), che Oscar vive normalmente la sua condizione di erede dei Jarjayes e il suo mestiere delle armi. Questo è il punto di vista moderno, di un regista che, dall’Oriente, raccontava un pezzo di storia francese, ammettendo di esservisi accostato con rispetto e rinunciando ai merletti e al mélo. E volendo raccontare questa anomala normalità della vita di Oscar (e di André) in modo volutamente minimalista, documentario. Molto moderno e geniale, come punto di vista.

Ma è altrettanto interessante la visione di Demy. Una figlia rifiutata in ciò che è la sua essenza, e rifatta ad immagine dei desideri paterni. Dopo di ciò, una figlia abbandonata, derelitta dal padre, affidata negli affetti a nonna e nipote. Indi, in quanto non solo inadeguata, ma non più rispondente alle aspettative, denunciata quale disertrice. Non credo sia un caso che, quella di Demy, è l’unica versione in cui Oscar, infine, schiaffeggia il genitore.

Non starò a soffermarmi su una dicotomia tra le due interpretazioni, noto solo che sono agli antipodi, interessanti, e portano a risultati diversi.

È abbastanza indicativa, in questo senso, una delle scene iniziali del film. Oscar bambina rientra, sola, in casa. La casa è vuota. Dominano i grigi. Colori freddi. Oscar si rifugia nelle cucine e lì trova il calore. Anche umano. Allo stesso modo, un ripostiglio, con un angolo dei giochi di bambini sistemato quasi a simulare una casa, in cui si vedono Oscar e André bambini insieme, con la bella scena della spada, abbandonata da Oscar, piccolina, e che, ancora, giace lì, dimenticata, quando, adulta, si apparta lì con André.

L’altro luogo denso di colori caldi, ma più artificioso, è la stanza di Oscar. Attenzione, c’è una porta, il guardaroba, dietro la quale André si nasconde. E quella porta, volendo, può lasciar indurre ben altra intimità tra i due amici d’infanzia. Ovvio, non è tutto così semplice o scontato, ma sono segnali, non credo lasciati lì al caso. Né per caso è la veglia notturna di André, la notte prima del duello.

Non so se i giapponesi, i produttori, intendo, l’abbiano capito, ma Demy, fedele al principio della nouvelle vague per cui il film è il regista, la sua visione, molto più che non gli interpreti e la sceneggiatura, aveva realizzato un film paradosso, osservando, forse con un tocco di chauvinismo d’oltralpe, il personaggio dall’alto in basso, mostrando il lato ridicolo, paradossale, appunto, di una figura come Oscar. Ma non solo. Quasi assurdo. Quasi impossibile. E triste. Una figlia rifiutata. Voluta ma non adatta. Inadeguata. Resa per colpa del padre (e delle sue carenze) una sorta di automa umano, una caricatura di un soldatino di piombo. La Oscar del film, tutta in ghingheri, eppure, tanto più bella quando rappresentata libera, con quella semplice camicia bianca e i capelli sciolti, non ha niente di eroico, né di drammatico. Non ha spessore. Non interpreta, non vive il ruolo. Lo recita. Letteralmente, lo porta sullo schermo. Sta sulla scena, ma non riesce a far vivere il personaggio. O ne è prigioniera. Catriona ha, per la maggior parte del film, un’espressione triste o rattristata. Scontenta. Non credo sia un caso. Certo, poverina, non è assolutamente valorizzata da abiti e parrucche. Il fisico non era adattissimo, ma il viso era molto bello. Eppure… Non so se questo sia colpa dell’attrice e non credo, eppure, qualcosa suona strano, come una discordanza d’intenti e vedute, perché questo senso di finto, di portare in scena il compitino e via, senza, appunto, spessore, tranne che per le musiche, con dis-espressioni degli attori, e un’attenzione a un piano secondario, non eroico, molto personale, invece, si dipana per tutto il film ed è devastante, per noi che veniamo dalla superba, magistrale lezione di Nagahama-Dezaki. Che sfoggia una lettura univoca e non si presta a duplici interpretazioni.

Questo film sì, invece.

Perché io non credo che Demy si sia limitato ad un onesto compitino nei confronti dei committenti giapponesi. È vero che il mercato quello passava, e non erano tempi floridi. Ma io credo che lui, pur cercando di dare il contentino, espresso in fiocchi, merletti e luccichii, ai giapponesi, abbia cercato, non sempre riuscendoci, di insinuare del suo in questa Oscar fallimentare.

Ma, attenzione, fallimentare non a caso. Personalmente, sostengo che, riuscito o meno, il tutto sia voluto.

Non che il film non abbia spunti interessanti anche prescindendo da un tentativo di rilettura come il mio. Personalmente mi piace moltissimo Catriona MacColl. [Una curiosità. Catriona è nome scozzese e, infatti, il seguito di Kidnapped di Stevenson si intitola Catriona. Pieno di note, nella versione originale, perché zeppo di frasi in gaelico (l’ho letto quando preparavo l’esame di dottorato… -_-;)].[4] Ci sono alcuni pezzi che mi piacciono. Ho amato le musiche. Il problema è il film in sé. Un soggetto del genere non doveva passare per le mani di un regista come Demy, la cui produzione dimostra come non fosse appassionato del dramma e che tendesse a rappresentarlo più che altro in commedia (come la sua produzione dimostra – aveva una gran passione per il musical –), e, dunque, o sottovalutò le potenzialità drammatiche del personaggio, o volle darne una lettura diversa, ma non riuscì nell’intento. Un regista che girò forse quel film per mancanza d’altre occasioni o non ebbe modo di portare le sue idee alle conseguenze finali. E che non aveva certo il curriculum adatto alla storia. Che è drammatica.

Ora, se, per i giapponesi, drama significa appunto mélo e mise en scene, allora, probabilmente, dal loro punto di vista, questo film raggiungeva l’obiettivo. Quindi, quella roba lì è Lady Oscar e Catriona è Oscar. Se, invece, vogliamo un capolavoro, cioè quel minimo che una storia con le contropalle come Lady Oscar si merita; o, anche, siamo disposti ad accettare una chiave di lettura diversa del personaggio, totalmente dis-eroicizzato, allora, decisamente, è tutto da rifare. Io credo sia stata, all’epoca, una malaugurata questione di punti di vista sbagliati. Quello giapponese, che ha creduto in una rappresentazione della storia europea fatta di vestiti e lustrini e quadretti; quello del regista, che si è trovato in mano una storia (dal suo punto di vista) inverosimile e incredibile e, invece di puntarci il tutto per tutto, l’ha demolita. O ha cercato di darne una rappresentazione minimalista e fin troppo realistica (parrucconi a parte!), idea senza dubbio interessante, ma senza riuscirci. Erano entrambi metodi degni di nota, ma, anche lì, bisognava padroneggiare l’argomento. Cosa difficile.

Ne esce fuori, come dicevamo, una rappresentazione devastante, sia pure per gli occhi amorevoli del fan.

Chi vede questo film vuole crederci con tutte le forze, eppure non ci riesce. Non c’è l’anima.

Non c’è manco Oscar. Sebbene la Ikeda ed il produttore, alla conferenza stampa, dichiarassero che Catriona è Oscar.

Già, ma chi è quella Oscar lì?

Oscar è una povera donna incapace, a cui l’uniforme sta male, pettinata come una Barbie ondulata, imbarazzata essa stessa di conciarsi così, incapace di salire in sella, incapace di dare ordini, capace di correre da Nanny a farsi coccolare o di cercare conforto in André e rispondere “Sposerei più volentieri il vostro cane” al sommo Giro. Tutta rigida. Chiusa in se stessa. In alcune scene triste. Contrita. Scontenta di se stessa. Le espressioni sono evidenti. Se la MacColl – che, pure, a quella Oscar ha regalato il suo bel viso, l’ingenuità di alcune espressioni, rari sprazzi di luce che ne illuminano i sorrisi e gli sguardi solo quando si rivolge ad André e mai, guarda caso, quando tratta con Fersen, dove è rigida oppure mondana, o con Giro, con cui appare furibonda ma trattenuta –, ha dichiarato di aver guardato e cercato dentro di sé, per dare vita a quella Oscar, che Oscar non risulta il personaggio che lei ha immaginato, ma che è lei stessa – ed essa stessa è Oscar –, che le piace pensare che quella Oscar sia la sua proiezione, al di fuori del contesto storico, collocata nella modernità, nella sua lettera autografa ai fan, beh, che altro si può dire? La MacColl, ancora, scrive, di sé e di Demy, che avevano “pensato, fin dal principio, a come Oscar dovesse essere rappresentata.” Che “spesso non c’era neppure bisogno di parlare, bastava uno sguardo” e lei sapeva esattamente cosa il regista chiedesse da lei. Aggiunge, anche, che girare il film filò via liscio anche grazie alla calma e alla tranquillità del regista.[5] Che altro si può pensare, date queste premesse, se non che la sceneggiatura e una confusione di fondo sul risultato da ottenere non aiutavano questa Oscar, qualunque essa fosse – quella giapponese-patinata o quella minimalista-inadeguata –. Una creatura grottesca che, se non altro, s’attacca al lampadario e vola. Ma non è capace manco di fingersi sbronza o addormentata. Così magari il farmer Grandier ci provava con più successo!

E più volte, infatti, la metafora viene presa e ribadita nel film e, ripetutamente, Oscar non fa mistero della propria cecità ed inadeguatezza. “Non migliore. Soltanto differente”. “Non ora. Non ora.”

Né fa mistero del proprio, profondissimo, viscerale, tanto da essere ineludibile, legame con André – voluto da suo padre, peraltro, somma ironia della sorte –.

Si tratta di una vera e propria dipendenza emotiva e affettiva da André. Oscar, per tutto il film, dal principio alla fine, non fa che combattere contro suo padre e contro se stessa, nel contempo, cercando, come può e senza riuscirci, di adeguarsi a ciò che André vuole da lei. Qui il Coppelius[6] non è il generale, ma André. È a lui che Oscar si rivolge per ottenerne l’approvazione. A lui chiede un giudizio – e di nuovo, un’approvazione che, negata, causa in lei una robusta delusione e lo spegnersi della sua luce –. In queste scene la MacColl, dipendente, delusa, è molto brava e rende bene anche Stokes, nella parte del macho determinato.

Nelle mani di un regista che si fosse dato la pena di non dar retta ai parrucchieri giapponesi, di mandare al diavolo i necessari richiami alle paillettes del Takarazuka, di scontentare i fan e le mode (che grande idiozia, le mode!); che avesse voluto davvero tirare, contro tutto e contro tutti, alle estreme conseguenze il proprio lavoro, ancorché poco apprezzato nel frangente; che, dunque, per rispetto di sé, dei suoi collaboratori e del suo pubblico, si fosse preso la briga di indagare fino in fondo, investigare nel personaggio – inverosimile, sì, ma interessante certo – (ma questo avrebbe dovuto farlo a monte l’autore dello script); o, avendolo fatto, avendone tratto le conclusioni, ed essendo capace di portarle alle estreme conseguenze, le avesse tratte e realizzato un film diverso; Lady Oscar avrebbe potuto essere un capolavoro. Condensato, sì, tagliato – e tagli ce ne furono, dunque, perché non operarli allo scopo di dare un’idea profonda del personaggio, piuttosto che un malriuscito spaccato di come un francese se la rideva alle spalle degli strani successi dei fumetti giapponesi? –, eppure Demy o non ebbe la capacità di capire la potenza della storia che aveva di fronte e si limitò a fare un onesto lavoro di traduzione in immagini di uno script che definire scarno è dire poco, o non volle farlo perché in fondo non era così importante, o non poté perché aveva il fiato sul collo e dovevano esserci le parrucche, gli attori truccati e, a momenti, le zeppone del Takarazuka. O, forse, tentò di andare oltre l’eroina Oscar, di dare una, secondo lui, profonda interpretazione di una donna sola, irrigidita e incompresa, e non ci riuscì. Un po’ come, recentemente, Il cigno nero di Aronofsky: tanta carne a cuocere, ma cosa ne viene fuori? Perché, in quest’ultimo caso, la poetica propria di Demy, di tutta la sua produzione, non era probabilmente in sintonia con le tinte fortemente drammatiche del personaggio di Oscar. Egli seppe farne emergere il lato grottesco, ma non era nelle sue corde dare risalto in maniera esasperata (e adeguata alle aspettative) al dramma di un personaggio simile. Ecco, allora, che il dramma è tutto sotteso. Non esplode. Sta nella tristezza di Catriona. Nei suoi sguardi. Nel suo camminare a testa bassa, fissando avanti. Nel suo irrigidirsi. Demy non era portato per rendere in maniera potente quel dramma e quel personaggio. Rese come poté, con la sua propria poetica, la disarmonia di una donna sola, rifiutata, isolata.

O, meglio, Demy, appassionato di musical, regista di commedie musicali, non lascia che siano la recitazione o la regia a sottolineare il dramma. Affida il compito alle musiche del sodale di lunga data Michel Legrand.

Eppure, nello stesso torno di tempo, la Streisand acchiappava la novella di Singer e ne tirava fuori, infiocchettandola, ma con stile e sobrietà, Yentl, che, certo, sarà datato, sarà un manifesto di argomenti femministi, ma non si può dire non fosse un signor film girato come si deve! Se anche solo Demy avesse fatto la metà, perdonate il gioco di parole, della Streisand, Lady Oscar sarebbe stato qualcosa di decisamente migliore.

 

Inadeguatezza: ma di chi?

 

Personalmente ritengo, avendo visto altri suoi lavori, che Demy, in parte legato alla Nouvelle vague, sia pure, però, in una maniera del tutto personale e differenziata, affascinato dai musical americani degli anni ’40 e ’50 (e, quindi, forse non così alieno dal comprendere il Takarazuka), sia un regista non tanto disimpegnato, quanto leggero, quindi tendenzialmente portato alla commedia pure quando questa vira al dramma, uno che chiaramente non presentava (e non è comparabile con) l’impianto fortemente drammatico del genio di Dezaki, che ha preso la stessa storia, ne ha dato, a sua volta, una lettura personale, e ne ha fatto un capolavoro indimenticabile (non trovo altre parole per esprimerlo).

Un regista che ha fatto delle donne le protagoniste delle sue storie, spesso ispirate ai musical, appunto, assieme, quindi, alla musica, principalmente quella di Michel Legrand, col quale lavorò a lungo.

Demy non faceva di mistero di essere attratto dalle commedie leggere musicali. Les parapluies de Cherbourg, col nostro Nino Castelnuovo e Catherine Deneuve, per quanto applaudito e di successo, risulta forse un po’ stucchevole per un gusto attuale, se non si ama proprio il genere. La regia non è certo brillante. E leggero, talvolta, non è purtroppo sempre sinonimo di brillante. Brillante vorrebbe dire strappare un sorriso, una risata, un commento ironico, avere ritmo, non instillare noia. Dove sia questa leggerezza, non si capisce, però si nota una certa inconsistenza, come un’incapacità di andare fino in fondo. C’è lo specchio d’acqua che riflette le immagini, ma non c’è il fondo, dietro. Chi di noi non si è religiosamente sorbito Niente di grave, suo marito è incinto con la Deneuve e Mastroianni, pur di non perdersi niente del regista live della nostra? Tuttavia, sinceramente, con tutta la buona volontà, la sensazione permane quella. Eppure, potrebbe essere, questa leggerezza insita nel prodotto Demy, voluta. D’altra parte, la sua carriera, dopo i primi quattro film e l’esperienza americana di Model Shop, del 1968, si era impantanata. Ciononostante, dei punti restano comuni nella sua opera.

L’unico della crew che risaltasse (e, guardacaso, vinse l’Oscar nel 1983 per Yentl), era Michel Legrand, e infatti le musiche erano bellissime e, mixate ad alcune scene, rappresentano e sottolineano esse alcuni bei punti del film. Gli unici.

Per il resto, la scozzese Catriona MacColl, icona di Lucio Fulci nell’horror all’italiana negli anni Settanta e attualmente talvolta ospite alle fiere del settore, trasferitasi in Francia, era una ballerina che aveva lavorato in varie compagnie nel sud della Francia e anche con Roland Petit nel Ballet de Marseille e, in seguito ad un infortunio, si era dedicata alla recitazione. Mi risulta da ricordi d’annata che, proprio con Demy, avesse partecipato alla versione teatrale di Les Parapluies de Cherbourg, ma potrei sbagliare. Aveva anche interpretato, tra le altre cose, uno sceneggiato in Francia, Quella lunga estate in Bretagna, andato in onda su Rai 2 nel 1983, in cui era la giovane amante di un anziano facoltoso, e, curiosamente, spesso lei e Stokes compaiono nelle stesse produzioni inglesi: infatti, in seguito, hanno entrambi recitato, sia pure lei con ruoli sempre maggiori, in La spada di Hok, un fantasy del 1981 (lei Eliane, la sposa di Hok che viene uccisa; lui un assalitore), Gli ultimi giorni di Pompei nel 1984 col nostro Franco Nero (lei, la ricca Julia, lui, il gladiatore Gar – grazie a Natalie che, all’epoca, mi fornì le info –). La Rai purtroppo poi non lo trasmise e lo si poté vedere solo sulle private alla fine degli Anni ’90.

Barry Stokes belloccio, oltre incidere un paio di 45 giri, aveva interpretato un paio di episodi di Spazio 1999 (come anche Hanouska Hempel, Jeanne) poi si era dato ad alcuni film, come ce ne erano molti all’epoca, in cui attrici in declino venivano fatte recitare in contesti con qualche scena porno, in questo caso Jean Seberg, l’ex icona della Nouvelle vague, suicida pochi anni dopo, in L’altra casa ai margini del bosco (La corrupción de Chris Miller), del 1973, in cui Barry girava a torso nudo per la maggior parte del tempo e per la gioia di madre e figlia protagoniste. Niente di che, insomma. Quasi simile nella trama era anche Prey del 1978, in cui compare anche en travesti. Posso dirlo perché li ho visti, ero sempre molto attenta ai film trasmessi e ai nomi dei cast al cinema e in tv.

Martin Potter, il Girodel, era stato inizialmente scelto per interpretare André, ma la Ikeda, che molto apprezzava questo nobile personaggio, come pure Luigi XVI, lo volle per Giro, condannandolo, nel perfido immaginario delle fan, in quel ruolo che, anni dopo, Daniela avrebbe efficacemente stigmatizzato nel “Girodelporco”. Potter aveva recitato nel Satyricon di Fellini come il protagonista Encolpio, ma anche nell’adattamento di Justine di de Sade. Quando si dice costruirsi una solida reputazione. Aveva una bella voce chiara.

Quando il film fu pubblicizzato in Italia, uscì su «Sorrisi» nelle pagine finali delle anticipazioni una prima immagine, piccola, un riquadro di Oscar, in bianco e nero, solo viso, con tricorno. Primo trauma dell’epoca. Tricorno? Ebbene sì. Iniziai a fare i conti col terrore di Oscar e, peggio, André in parrucca incipriata! Il testo annunciava brevemente che il 25 dicembre Italia 1 avrebbe trasmesso il film, alle 20,30. La seconda immagine era quella che poi circolò maggiormente, Catriona in uniforme azzurra, capelli sciolti. Ri-trauma. Intanto, fu da lì che mi posi il problema di imparare a disegnarla, quindi di disegnare realistico e non in stile cartone. Poi, preparai una TDK da 120, mi trasferii da nonna e imposi la crudele visione a mamma, nonno e nonna, e il gatto Goemon. Eppure, c’era tanta curiosità. Ovviamente mia madre poté dire peste e corna alla fine della ferale visione. Che, evidentemente, non aveva scontentato solo le esigenti ed intransigenti fan di Berubara,[7] ma anche un’amante del buon cinema. Nonna, che poi lesse sia il fumetto sia i due libri della Migliavacca, taceva. Intanto io mi apprestavo al riascolto, onde mandare a memoria. All’epoca, campavamo così, noi fan.

Replica il giorno dopo, alle 14,30, poi l’anno dopo, per San Valentino, seguito dal Romeo e Giulietta di Zeffirelli, poi, ancora Natale, indi il silenzio, rotto solo da una trasmissione su Gay tv in digitale, nel 2003. Nel frattempo erano per fortuna uscita la vhs, prima solo noleggio (la prima che comprai!), poi versione vendita (e comprai anche quella). Toccò poi, ma solo nel 2003, al dvd (e come poteva mancare?).

Film poco apprezzato, insomma. Catriona, nell’intervista sopra citata, sottolinea i tempi particolari, la peculiare impronta del regista, e nota come, in fondo, in un’epoca in cui andavano per la maggiore film epocali come Apocalypse Now, forse una produzione così, piccola, non nel senso di budget, ma nel senso di sommessa, anomala, molto nello stile di Demy, era destinata a non avere un’accoglienza equa.

D’altra parte, in alcuni aspetti si tratta, anche, sia pur parzialmente, per le musiche, di un film datato. Realizzato secondo cliché del cinema dei decenni precedenti. Scene da spaghetti western, immancabile rissa, con inevitabile omaggio al genere. Ma, a parte questo, resta il fatto che è un film singolare, che, per quanto imbufalisca il fan, destruttura la protagonista. Oscar infastidisce le sue fan e chiunque (mia madre compresa) veda il film, perché ne esce ritratta quale caricatura grottesca. Il punto sta qui.

Tanto grottesca che, forse, la peggior delusione, per chi conosce il personaggio, è la totale mancanza di introspezione su alcune sue scelte e la totale mancanza di ogni sorta di prestigio militare. Oscar viene letteralmente demolita anche nella sua figura di soldato, viene incarcerata, addirittura, quando osa rivoltarsi ad un mero ordine, e non ha nessun ruolo nei fatti della Bastiglia, se non quello, inspiegabile, di uscire da una porta (ma la notte prima, quando André le aveva annunciato che si sarebbero radunati alla Bastiglia, non erano a palazzo Jarjayes? Vuoi vedere che i due, invece di darsi alla pazza gioia nelle stalle, hanno passato la notte in viaggio?), dirigersi nelle vie di Parigi, ciondolare, indi smarrire André (che non è una dinamica propriamente eroica). Come a voler sottolineare, da parte del regista, per l’ennesima volta, proprio il lato più privato del personaggio. Niente di male, ma è tutto troppo leggero e il personaggio, che avrebbe un suo spessore anche senza divisa, effettivamente, non esiste proprio più. Cioè, anche Oscar fosse una privata cittadina, queste scene finali, per come sono concepite, proprio non rendono giustizia del suo dramma.

Se minimalismo doveva essere – del privato, delle scelte, come pure della morte –, forse altro modo doveva trovare il regista, per affermare la sua lettura.

Ma era quello, da sempre, lo stile di Demy.

Prendiamo un’altra privata cittadina, Hadass, in Yentl. Ruolo riscritto rispetto alla novella di Singer e ritagliato per Amy Irving. Delineato per brevi tratti. Eppure, quella privatissima Hadass, quanto resta impressa. Sguardi. Guizzi. L’indugiare sui capelli. Il portamento. Le brevi risposte. I silenzi. Ecco un buon modo di rendere i sentimenti tutti nascosti di una persona intrappolata in un ruolo – e in un inganno –. Demy con questa Oscar non c’è riuscito, perché, anche avesse voluto rendere il tormento di una donna sola, sconfitta, che per tutta la vita avrebbe voluto solo rifugiarsi nel suo compagno d’infanzia, inadeguata a quello che le si impone e neppure chiede, e solo alla fine riesce a trovare la forza di accettarsi e stare con lui, ma il tutto vira nello scacco, nella perdita di una morte stupidissima ed evitabile, non eroica e, per questo, ancora più tragica, una morte totalmente ingiusta, che fa ancora più rabbia di quella narrata nel cartone – dicevamo, anche avesse voluto rendere questo, non c’è riuscito –. Allora, se una Oscar così privata il regista voleva narrare, se queste erano le sue premesse – un disamore per il personaggio, un giudizio negativo, un profondo nichilismo nel raccontarla –, corrette, da un certo punto di vista, allora, però, bisognava procedere con mano ferma ed esperta, salda, sulla storia, illuminare gli interpreti, richiedere spessore, tagliare le risse, tagliare tutto e andare fino in fondo.

Demy, in fondo, ci ha provato. Senza riuscirci. Ci ha provato perché, coraggiosamente, non accenna una volta all’abilità di Oscar con le armi. Mai. Semmai è dato per scontato che sappia usarle in modo appropriato, infatti duella, spara, uccide. Non si accenna all’Accademia militare. E, volendo, sarebbe un dato importante, una chiara presa di posizione ad indicare che, per lui, questa personaggia (scusate il femminile) non è affatto eroica. È una povera crista infelice. Che davvero sarebbe stata più felice di essere “la moglie di André Grandier” tutta la vita e non solo in limine litis. Si premura di farcela vedere issata sul ronzino dal possente Stokes. Ma non solo. Egli rende Oscar un’assassina senza tanti problemi etici. O, meglio, Alessandra nota che i problemi etici, in sceneggiatura, se li fa anche, ma il problema è che non riesce a trasmetterli Non si sofferma sull’abilità, sulla mira nel duello. Le dà per scontate, ci passa sopra, le dimentica. Facendole dimenticare pure a noi. In questo è bravo. Meno bravo, però, nel non curare affatto l’introspezione di quest’altra Oscar. Che, pure, avrebbe dato risultati notevolissimi in mani più felici. Invece, Demy non è stato assistito dalla fortuna fino in fondo e non è riuscito a delineare un personaggio non drammatico, alla giapponese, ma tragico. Che è una cosa diversa. In effetti, la sua Oscar è tragica.

Non voglio abusare del gioco degli equivoci: quella Oscar lì, volendo, è tragica in senso ironico, cioè malriuscita. Ma non si tratta di questo, io credo che davvero Demy volesse rendere l’enorme, infelice, infausta tragicità del personaggio, solo che non c’è riuscito appieno.

La leggerezza dell’Hameau, di tutta Versailles, di Fersen, che nella realtà era detto longFersen e qui è alto poco più di Catriona. Maria Antonietta, illuminata da una grazia gentile e briosa tutta sua, veramente un amore (e che tristezza, poi, pensare all’incidente d’auto in cui perse la vita Christina). La stupidità totale, abissale che gravita attorno a tutti questi personaggi, in una rappresentazione devastante, demolitoria, in cui si salva la sana saggezza popolare e degli affetti (André e Nanny). E da quell’ambiente Oscar fugge, per sentirsi utile. Il che, evidentemente, non le pare di essere lì, come le rinfaccia la regina. Spiegazione interessante, anche qui. Non tanto un piano politico della realtà, che porta Oscar a mutare i propri orizzonti o obiettivi, quanto una situazione, anche stavolta, vissuta su un piano strettamente personale – una persona che si sente, oramai, inadeguata ad un ruolo. E, tragicamente, si precipita verso un altro, per il quale sembra a tutti, forse in primis a se stessa, ancor meno adeguata –.

Oscar vive la corte, imbarazzata da quel mondo, così diverso dal suo. Falso. Perché, invece, questa Oscar ha, insieme, un’ingenuità e un’integrità di fondo, fatte di assurdi ideali paterni e sana saggezza popolare di Nanny. È una Oscar molto sola. Lo sarebbe ancor più se non fosse per nonna e nipote. Lo diventa, definitivamente, quando subisce tutti i devastanti effetti del suo rifiuto di André, di vedere il mondo da un’ottica diversa, e, a sua volta, del rifiuto costituito dall’allontanamento di André verso lei. La pena dello scacciamento. La morte civile romana. Oscar ne esce distrutta. E, costretta a porsi domande, a rimettersi in gioco. Fino allo scacco finale. E, così, Oscar, vive, illusa dall’amore ed infine sconfitta. Sola. Inutile. Disprezzata dal padre. Incapace. Non dimentichiamo la lettura di Demy. Oscar rifiutata dal padre in quanto donna, viene costretta a vestire abiti maschili. Il tema del rifiuto e dell’inadeguatezza.

L’assenza della Bastiglia – monumento dell’eroico immolarsi di Oscar nelle altre versioni –: voluta? Per ragioni di budget o di teatri di posa adeguati? Mia madre, chiedendosi come mai mancassero tante scene di combattimento e di dettagli relative proprio al 14 luglio, sostenendo, insomma, che un film storico (o in costume – in fondo, sono due cose diverse –) come si deve ha bisogno di un certo impianto narrativo perlomeno sulle scene più famose e note, mi faceva anche notare che ben più ricca scenografia, Bastiglia compresa, aveva corredato la Maria Antonietta del 1938, con Norma Shearer e Tyrone Power – al quale la Ikeda si ispirò per le prime immagini di Fersen nel manga (in particolare la capigliatura, poi cambiata – già, non è stato solo André a cambiare radicalmente in corso d’opera!). Dicevamo, l’assenza di immagini relative alla Bastiglia, di ogni riferimento ad Oscar coinvolta nel comando dell’assalto, quel finale volutamente antieroico, addirittura intimista sembrano segni di scelte registiche ben precise e, ritengo, volute.

Il fatto che Oscar non comandi l’assalto alla Bastiglia, che non muoia lì. Il fatto che André muoia in strada, in modo quasi inutile, ucciso dalla pallottola vagante di una Guardia reale, magari proprio di una di quelle che, assieme a lui, vediamo ad inizio film a corte. Io credo che queste siano scelte stilistiche volte a chiarire al pubblico che si trattava di due persone qualunque. La vita di due persone normali, qualunque, simili a tante altre. Niente di eroico, niente. Il modo stesso in cui queste scene sono girate, quasi concitato, nella corsa dietro i corpi, eppure quasi anonimo, nel perdere proprio i protagonisti, giusto un’inquadratura per André colpito, ma Oscar l’ha perso di vista e non è lì quando muore. In uno speciale, anzi, si vede che è Demy a indicare a Catriona il percorso, proprio in quelle scene, e si ricorda come come Demy avesse deciso di raccontare la Rivoluzione attraverso gli occhi di due personaggi di fantasia, Oscar e André.

Sono scene minimaliste e intimiste, antieroiche. In bilico tra eccessivo realismo, che destruttura l’impianto eroico dei personaggi giapponesi, e fantasia sentimentale che, in fondo, vorrebbe lasciar aperta una porta (quella dell’Aldilà, verrebbe da chiedersi, vista l’interpretazione di The Beyond di Lucio Fulci da parte di Catriona?). L’impatto sullo spettatore è brusco, dissonante. Alla fine, che senso ha avuto vivere, per Oscar, per André? Sembra domandarsi il regista. Lui, in fondo, morire in una maniera da antieroe, addirittura colpito alla schiena (altra notazione di mia madre), in fondo da vigliacco, in fuga, ma almeno per il proprio ideale (“In America un uomo è libero di amare (…). Io sarei contento di dare la vita per i miei ideali”); lei, quasi ignara, con quegli ideali appena abbracciati, con quello straccio d’amore di poche ore.

Lo stesso finale aperto, così tipico dell’opera di Demy, che qui, quasi, gioca tra le righe. Oscar resta sola, che fa? Prende e combatte? O, per come l’abbiamo vista per tutto il film, resta sola? E in che modo? Ritorna a casa?

Sorvoliamo sull’agghiacciante voce fuori campo, che, per fortuna, le proiezioni di Italia 1 ci risparmiarono e così la nostra versione vhs. Quella non so chi l’abbia voluta e preferisco non saperlo, ma potrebbe pure essere l’ennesimo segno, molto grottesco, del tipico finale aperto alla Demy: Oscar è sola, schiacciata, sconfitta, eppure deve andare avanti. Di nuovo, il suggerimento del buon senso popolare. Sinceramente non so.

Perché qui Oscar non è affatto eroica, qui il percorso di Oscar è tutto interiore ed intimista. Non passa attraverso battaglie, se non uno scontro e un ballo a corte in abiti anti-girodelliani, passa tutto per le frasi di André e i suoi pensieri, per le scene insulse che è costretta a subire a corte e brevi immersioni nella miseria di Parigi.

Se questa era la chiave di lettura di Demy, e lui fosse riuscito in effetti a portarla alle estreme conseguenze, i fan giapponesi non sarebbero stati molto felici, l’autrice neanche, ma il film sarebbe stato geniale.

Purtroppo Demy riuscì malamente nell’intento. Sempre che fosse questo.

Costretto probabilmente a mascherarlo ai produttori, costretto, secondo questa mia analisi, ad insinuarlo tra le righe, Demy riesce meno che a metà: vorrebbe rendere una Oscar donna fragile, sola, il frutto del rifiuto di suo padre, una persona in perenne ricerca di approvazione da André (non dal padre, quindi, ma dal sostituto), invece, purtroppo, finisce più per sottolinearne i lati caricaturali, grotteschi, senza riuscire a conferirle, a restituirle la drammaticità di un personaggio tragico. Quale, in effetti, avrebbe potuto essere.

 

Arriva Dezaki - Debiti più o meno evidenti

 

Ben diversamente, invece, proprio il giapponese Dezaki, ha saputo occidentalizzare e modernizzare, svecchiare ed internazionalizzare i personaggi.

Ma non solo, lo ha fatto riprendendo quanto di utile o buono il film live portava. A cominciare dallo sfoltimento delle molte “rose” protagoniste. Come nel film, fin dalla bellissima e coraggiosa sigla iniziale di Michi Himeno (ricordiamo che fu la Araki production ad occuparsi del progetto grafico di Lady Oscar, e, tra tutti, principalmente Michi Himeno e Hideyuki Motohashi), la scelta e i riflettori sono concentrati con chiarezza su Oscar (la protagonista nature protetta solo da rovi, braccia, capelli, non a caso con gli occhi chiusi sul mondo degli spettatori-osservatori). Tutto il resto, tutti gli altri personaggi, vengono riservati alla sigla finale. Tanto per chiarire fin da subito come va questa storia, che è a sé.

Catriona in particolare, fu coinvolta nel vario merchandising del film, così incise dischi, circolarono foto, scrisse ai fan. Non servì a molto. Ma prestò sicuramente il profilo alla Oscar del cartone. Basta confrontarlo con quello di Oscar negli epp. 25 e 28 nelle scuderie, nell’addio a Fersen. È lei. È vero che è comunque molto somigliante al manga, ma se si fa caso e si confrontano le espressioni, la cosa è evidente.

La giacca da amazzone rossa, che Catriona sfoggia in alcune foto delle cartelle di stampa, verrà ripresa anche per la Oscar giovane.

Alain nella conformazione Dezaki viene da Lambert Wilson, protagonista de Il tempo delle mele 2, che, nel film, interpretò l’altissimo soldato della Guardia che prende per i fondelli Oscar appena arrivata. Da dove altro mai, rispetto allo stucchevole Alain del manga, potevano derivare il naso aquilino e il mento forte? Basta osservare le immagini e il gioco è fatto.

 

Il mento di André arriva pari pari da Barry Stokes. Nel manga non era così squadrato, e così, anche il profilo più definito.

Le immagini di scena de L’altra casa ai margini del bosco in cui Barry Stokes bacia la donna dovevano essere sicuramente circolate presso lo staff di Dezaki o, perlomeno, del cartone, probabilmente allegate alla documentazione per la stampa originaria del film e del suo casting, poiché le strane scelte delle pose dei volti di Oscar e soprattutto di André, come angolazione e inquadratura, proprio nella scena d’amore dell’ep. 37, richiamano clamorosamente due famose foto di scena del film, in cui Barry fa una certa figura, va detto. È impressionante guardare quelle foto e sapere che si tratta proprio dell’attore che ha interpretato André. Sempre al misconosciuto film, si deve l’uso dell’appellativo di Nanny. Insomma, quel che di buono c’era, fu preso poi nel cartone e opportunamente richiamato.

Abbiamo, poi, la scena di Oscar e André bambini, che giocano e che si appartano, poi, adulti, parlano nelle scuderie: nel manga, prima del film e della serie animata, André non è legato alle scuderie. Mentre, si veda l’ep. 8 dell’anime, dove, addirittura, egli trova rifugio quando si sente abbandonato da Oscar, tutta presa dalla sua nuova vita e dalla principessa. Nel manga André raramente bazzica le scuderie, se non nella Gaiden, e, guarda caso, qui proprio copiando una posa di Barry Stokes nel film, appoggiato ai recinti.

Però, a sua volta, il film fa mettere in posa Barry come André, rispetto al letto di Oscar, quando lei resta ferita salvando la principessa. Il film presenta un ritratto di Oscar, e anche questo viene ripreso nel cartone (anche se, nel manga, una Oscar alquanto egocentrata, arriva a supporre che Rosalie gradisca, anziché una congrua buonuscita, un di lei ritratto!)

E, finalmente, Oscar e André a cavallo insieme!!! Una cosa che l’anime riprende, purtroppo solo come sogno, nell’ep. 39, nei disegni subito successivi alla morte di André. Nel film la scena è situata dopo la rissa nella taverna e non è né eroica né romantica. Anzi! Oscar viene letteralmente issata sul cavallo, Fersen la solleva dal basso, André la tira su dall’alto. La scena e le foto di scena sono poi diventate probabile fonte per le bellissime sequenze che Oscar immagina, sola nel suo dolore, alla morte di André e, forse, per l'illustrazione di Oscar e André a cavallo, nei bellissimi harmony a corredo voluti da Dezaki per la morte della protagonista.

Alla stessa maniera, le immagini, del film e di scena, in cui Barry Stokes circonda con un braccio le spalle di Oscar, in camicia bianca, guardandola teneramente, poco prima della Bastiglia, sono state il probabile modello per l'analoga illustrazione di Oscar e André, in riva al mare, lui col braccio sulle spalle di lei. La posa è identica.

Interessanti anche le scene nella camera, in particolare il letto e la disposizione dei mobili, che fu, poi, riadeguata ad esse nel cartone e, successivamente, addirittura dalla Ikeda nelle nuove Storie gotiche (deludenti quasi quanto il film di Demy, appunto, perché povere a livello emotivo e tutte impegnate a narrare e cercare un plot).

Sempre tra le scene intimiste, a questo proposito, celeberrima quella della notte insieme prima del duello. Una scena tutta al buio, non a caso. Silenziosa. Intima. E come si percepisce, l’intimità tra loro, già da prima, quando André sgattaiola nel guardaroba. E, poi, con quel passaggio al buio. Scena adulta e, insieme, trattenuta, rarefatta, che resta lì sospesa, non esplode. Atmosfera che, modificata, viene ripresa nella scena della fontana nell’anime. Nel manga originale, a parte dei disegni rappresentativi, che, a posteriori, alludono ad un ben più solido sodalizio tra i due, non ve ne sono molte di scene.

In fondo, André emerse in corso d’opera, si sa. Una nella gaiden, quando al frusciare delle foglie, nel bosco, i due si scambiano un lunghissimo sguardo. Dopo la partenza di Bernard, nel breve scambio tra Oscar e André, in cui, tra l’altro, lei non è arrabbiata con lui per lo strappo della camicia. Alla fine del manga, quando Oscar, esausta dopo lo scontro coi soldati, si appoggia ad André. Ancora, quando la situazione politica precipita, Oscar si siede sul divanetto e, senza accorgersene, si appoggia ad André.

Le scene tra Oscar e André sono, nel film, forse le più riuscite. Molto bella anche com’è girata la dichiarazione di André ad Oscar, con la camera che, lentamente, abbandona i due personaggi, come a dimenticarli, a lasciarli essere il soldatino e il ragazzo delle stalle, due comuni esseri umani, il cui destino, in fondo, non conta nulla.

E, però, un dato positivo c’è. La consapevolezza sociale di André nasce proprio da questo film. Nel manga è Oscar a porsi dubbi e problemi e farsi avanti con gli interrogativi. Nel cartone è André a porle dubbi e farle da apripista. In modo non particolarmente elegante, in realtà, quella consapevolezza, quell’André politicamente consapevole, nasce da qui (anche se la versione italiana è un po’ diversa da quella originale), in cui Barry Stokes ha un po’ un’aria da bullo, in effetti, ma tant’è. Certo che quando le suona al generale, dà soddisfazione.

Il debito del cartone rispetto al film, qui, è evidente.

Oscar è affettivamente cresciuta da Nanny e André. È da lui che è emotivamente dipendente. È da lui che, umanissima, cerca una pacca sulla spalla, e lui la batosta. È da lui che corre, nel parco, e da lui che riceve una sonora dichiarazione che la mette un bel po’ in colpa. André, qui, è il responsabile dello svezzamento affettivo di Oscar. È colui che dà una sorta di imprinting pavloviano e che, alla fine, riesce a riscuotere il prezzo delle sue fatiche. Oscar, emotivamente, la tira su lui. Ma non solo. André fa da mentore politico-sociale.

Mentre nelle scene analoghe del manga, André si limita a riflettere e osservare Oscar, nel film André, per così dire, un po’ rude, gliele canta apertamente. Non si limita a notare che Oscar è tempestosa e ardente, che è pure un po’ tirchia, ma le dice che, se avesse voluto vedere, la povertà era lì, presente, ogni giorno, per ognuna delle strade che percorrevano. La provoca. Si lamenta, ventenne, di non aver ancora assaggiato “quel vino” (qui clamorosamente smentendo le esternazioni ikediane in proposito) e zittisce Oscar. [Certo, de gustibus! Rosalie è uno dei tratti comuni nelle varie produzioni, una vera lagna (anche se, col doppiaggio originale e pure con quello francese, guadagna in dignità nell’anime). Piccola nota su questa Rosalie. Perfetta emula della sorella maggiore, che nella versione originale del film suona come Jiiiiin, ferma la carrozza del povero Giro ripetendo esattamente la stessa storiella della povera orfana cresciuta nella casa dei Valois. Dopodiché, visto che non è andata bene con Giro, che, sì, offriva maggiori agi, ma non si sa per quanto, pensa bene di sistemarsi con Bernard, più povero ma, evidentemente, più affidabile a lungo andare (che, in sceneggiatura, si traduce in “non ho un materasso di piume ma un letto, abito al 16 di questa strada, ti trovo un lavoro”). Nota di demerito per le due agghiaccianti parrucche delle sorelle. Quella di Jiiiiin è quasi al livello di quella di Satomi nel nostrano Love me Licia].

E così, di conseguenza. Insomma, è in questo film che il personaggio di André inizia la riconquista della propria dignità (cioccolata a parte, quella la dobbiamo alla Ikeda e per fortuna nel cartone non c’è!). Per poi finire a quel genio di Dezaki, che ha fatto poi il capolavoro ed era difficile fare meglio.

Ma non solo. André non accetta affatto di buon grado di restare ad occuparsi delle scuderie, mentre Oscar, senza nessun merito, sale di grado. E glielo dice. Lui, il nipote orfano, che, in una casa piena di donne e di silenzio, avrebbe dovuto costituire la compagnia maschile!

E che compagnia, infatti. In una delle scene più belle, con il commento musicale a sottolineare, sotto la neve che scende, i due piccoli, cresciuti, giocano insieme, con le spade, poi, sempre insieme, si riparano nel loro rifugio. Un ripostiglio. Nasce qui la poetica di una stanza dismessa  come luogo caldo, confortevole e, soprattutto, riparato ma al riparo dagli sguardi. Il rifugio, appunto.

Ho sempre trovato bellissima quella scena, Oscar che getta, in un gesto noncurante, la spada, che poi, vent’anni dopo, ancora è lì; loro due che si sistemano, insieme, lei con la bambola (ripresi questo tema in un mio disegno del 2000

http://digilander.libero.it/la2ladyoscar/Gallery/Laura/boy.htm )

e, volutamente, la stessa scena, vent’anni dopo, il regista la recupera per loro due, adulti.

Certo, la recitazione è quella che è. Catriona si toglie la giacca con un’aria di scazzo totale. Ma l’idea era molto bella. Toccante.

A me piace quell'intimità tra loro, bambini. Che poi, nell'anime, ritroviamo in scene campestri e di duello. E anche solo raccontata, nel rievocare a voce e per brevi immagini i bagni insieme, il rischio di affogare, perché il tempo era tiranno, erano 40 episodi (dovevano essere i canonici 52 ma si dovette tagliare per varie ragioni), e bisognava arrivare al dunque senza por tempo in mezzo. Le immagini sono sintetiche, anche se richiede più tempo realizzarle, mentre le parole ampliano.

Ed ecco, la scena. Secondo me la bambola, a parte lo stereotipo ad essa associato, voleva dire due cose ben distinte.

Introdurre un elemento, un fattore di tenerezza e, volutamente, legarlo alle sole scene di Oscar con André e Nanny. Oscar, infatti, arriva a corte, sebbene ventenne, totalmente immatura a livello sentimentale, tanto che Maria Antonietta svolge, nei suoi confronti, nel film, un ruolo quasi educativo (ricordiamo l’imbarazzante scena in cui la regina domanda ad Oscar se immagini cosa le manca per fare un bambino e lei risponde “Un uomo, immagino”). Quindi, inserire una bambola nell’unico contesto in cui una altrimenti rigidissima Oscar si lascia un po’ andare, è, a mio avviso, voluto. Infatti se André accudisce Oscar e su di lei veglia e riversa il suo affetto di bambino, Oscar, a sua volta, può riversare il suo affetto, fare pratica di tenerezza con la bambola. Nel gioco, Oscar, fingendo, diventa un’altra, una possibile sé altra. Il gioco simula e, insieme, nasconde i sentimenti. I sentimenti stessi, inoltre, vengono appresi nel gioco, in una sorta di simulazione della coppia, ma non si tratta solo di questo: vengono legati proprio alla coppia Nanny-André. Anche perché, nel film, la madre viene prontamente stroncata (ritengo, per ragioni di brevità ed evitare tutta la storia della disputa Du Barry), quindi Oscar, senza Nanny e André, risulterebbe totalmente isolata, a livello affettivo.

Non va dimenticato, poi che, nei giochi d'epoca, anche i maschi avevano le loro bambole, solo che erano anche soldatini. Possiamo pensare che il padre, malaccorto, non abbia mai regalato niente a quel figlio, e che Nanny, come nel cartone le cuce vestiti (e, guarda caso... chi dice ho fatto bene a farle fare quest'abito?), le ha regalato quella bambola. Nanny contro il generale.

Inoltre, la scena ha, secondo me, anche un’altra chiave di lettura. La bambola era un modo, forse maldestro, per togliere malizia alla scena. Quanti dodici-tredicenni avrebbero approfittato dell’appartarsi per darsi da fare? Qui, in fondo, mettere tra loro due una bambola, voleva dire asserire in maniera forte, come lettura del regista non altrimenti interpretabile, che non ci poteva essere malizia, tra di loro. Patinare tutta la scena con una carica di ingenuità che non doveva essere, secondo Demy, smentibile, né doveva portare a sorrisi maliziosi.[8]

Trovo molto realistico che il passaggio di Oscar a corte avvenga a vent’anni, e non a neppure quattordici, che mi sono sembrati sempre pochi.

Sono belli dei sorrisi spontanei e dei rari guizzi di luce che letteralmente illuminano Catriona, che, altrimenti, giace sepolta sotto i boccoli.

È bello che si siano riprese le uniformi d’epoca (poi citate in d’éon), ma certe scelte di costume sono agghiaccianti. Ad esempio, il marrone legato ad André origina da qui sia per quanto riguarda il cartone, sia per la gaiden.

Bello il modo, protettivo, in cui lui si abbassa su di lei, però, ancora, manca spessore nei gesti, è come recitato, non è vissuto, e così, stranamente (ma non poi tanto), è più facile perdersi e credere ad un cartone, che a immagini con attori reali.

In fondo, i giapponesi volevano iconografia, non sostanza. Eccoli serviti. Ma solo in superficie. Questa Oscar era fin troppo umana. Debole. Fragile. E in questa ottica la lettura di Demy va se non altro rivalutata.

 

Laura Luzi, giugno-agosto 2011

 

pubblicazione sul sito Little Corner del settembre 2011

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

Mail to laura.luzi@email.it

 

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[1] Questo essay nasce, in parte, da riflessioni già brevemente accennate nel mio blog e sparse tra i vari interventi, nasce anche da osservazioni di anni (veramente!) e conseguente raccolta spunti e dati. Nasce, poi, come mia risposta al cospicuo Essay di Alessandra sul film, perché, mentre mi poneva le sue domande, le risposte da darle per sms (ero dal Giudice di Pace!) già creavano queste frasi nella mia mente. La bibliografia completa può essere richiesta all'autrice così come i riferimenti cancellati in nota, che sono si sono resi necessari visti alcuni comportamenti poco corretti in internet, dove il materiale viene preso e non viene citata la fonte e dato credito.

[1] Parte di essi è recentemente stata fornita dal produttore Yamamoto XXXXXXX.

[2] F. Prandoni, Le rose di Versailles. XXXXXXXXXXXXXX; Francesco Prandoni la riutilizza anche nel saggio Kolossal alla giapponese XXXXXXXXXXXXX.

[3] F. Prandoni, Le rose….

[4] Si veda la lunga intervista a Catriona Maccoll citata nel nostro blog http://lauraslittlecorner.wordpress.com/2011/07/28/intervista-a-catriona-maccoll-2/ ripresa da http://vimeo.com/9956487 e in cui racconta di come fu scelta per Lady Oscar e di mlto altro sul film. In quest’altra intervista, invece, del 1996, parla del suo nome e, scherzosamente, racconta dell’impatto che ebbe su Lucio Fulci http://www.youtube.com/watch?v=fgPOJdUZQxE

Qui, invece, nella parte finale, parla di come la danza l’abbia aiutata nei film (horror) http://www.youtube.com/watch?v=CDgTA7yZrwE&feature=related

[5] Breusaiyu no Bara – Lady Oscar, Roadshow XXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXX.

[6] Su chi sia Coppelius, nel caso qualcuno lo ignori, si veda qui http://www.danzadance.com/coppelia_balletto/ 

[7] F. Prandoni, si veda infra.

[8] Il nucleo di questa frase, poi sviluppata, nasce da una mia risposta a Luana, che mi scriveva dell’essay e aggiungeva che quella scena non le piaceva. Le ho risposto questo ed è finito qui.