Elogio dell’infedeltà
ovvero
meglio il religioso fotocopiare o l’emozionante riscrivere?
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Sarà forse un atteggiamento sbagliato e ne sono consapevole, ma, nonostante la grande curiosità che ha suscitato in me la notizia della realizzazione di un nuovo film d’animazione su Lady Oscar, non posso negare di avvicinarmi a questa novità con una buona dose di pregiudizio.
Pregiudizio nel senso etimologico di giudizio formulato prima: prima di averlo visto, prima di sapere esattamente di che si tratta. Che è un atteggiamento in linea di principio sbagliato, lo ammetto.
Eppure, da fan storica della serie, che ho conosciuto e amato profondamente, come tutti i fans europei, dall’anime di Dezaki, non posso fare a meno di avvertire una certa preoccupazione per alcune cose che leggo e sento dire. Soprattutto per una, quella su cui si insiste maggiormente nel presentare questo nuovo “prodotto”, e cioè che sarà diverso dalla serie animata e scrupolosamente osservante, invece, nei confronti del manga.
La Ikeda ha dichiarato sul suo sito, a quanto pare, che “stavolta” seguirà le cose da vicino, che farà da supervisore a tutto.
Ebbene, a me quello “stavolta”, già da solo, crea non poche perplessità. Che vuol dire “stavolta”? “Stavolta” implica automaticamente “non come l’altra volta”, e presuppone già di per sé un giudizio negativo sull’anime che tutti noi conosciamo, dal quale – si deduce evidentemente – si cercherà di allontanarsi il più possibile, per ritornare alla storia come narrata nel manga. Nel disegno e, cosa che mi preoccupa se possibile ancor di più, nell’articolazione dell’intreccio.
So bene che in Giappone, quando uscì, la versione animata di Lady Oscar non fu subito un successo. I fans, probabilmente, si aspettavano qualcosa di diverso. Comprensibile, per loro formatisi sul manga di Riyoko Ikeda: è in fondo lo stesso atteggiamento che tenderemmo ad avere oggi noi, formatici sulla serie dezakiana, davanti a qualcosa di differente, che si discosti sia pure in maniera non sostanziale da quello che conosciamo. È normale, ed è in qualche modo “umano”.
Penso poi che entrino in campo anche motivazioni culturali nella differenza di gusti tra pubblico italiano e giapponese: le stesse motivazioni che fanno del Tarakazuka un grande successo in oriente, mentre da noi difficilmente farebbe il tutto esaurito.
Si può dire questo, e argomentare sensatamente pro e contro. Così come si può eccepire sui disegni del nuovo anime, così belli e senz’anima. Forse tanto più senz’anima quanto più belli, quanto più perfettamente fedeli all’originale a fumetti.
Ma la questione che volevo sviluppare in questa sede è principalmente un’altra, più di fondo, credo. E cioè questa: siamo proprio sicuri che vada considerato come un disvalore il fatto che Dezaki si sia allontanato dal manga? Pensiamo davvero che, in una realizzazione artistica, il seguire pedissequamente il modello sia una virtù?
Sono consapevole di partire – considerando mio punto di riferimento l’anime - da un punto di vista diametralmente opposto a quello dei fans giapponesi, e dunque esposto allo stesso tipo di critica. Eppure, cercando di ragionare con obiettività e tenendo conto dei dati in qualche modo “storici”, non è forse vero che l’anime si discosta in meglio dal manga, per esempio sotto un aspetto fondamentale quale l’impianto narrativo? Non è forse vero che il manga, per quanto ricco, decorato e con tanti pregevoli spunti, risulta piuttosto dispersivo sul piano dell’intreccio e non ha affatto quella profonda coesione e quella solidissima e compatta struttura che, nonostante le due regie differenti, riesce tuttavia ad avere l’anime?
L’anime è chiaramente, e senza tentennamenti, la storia di Oscar. Lo dichiara il titolo stesso, che fu scelto secondo me non solo perché di maggiore “presa” sul pubblico ma anche perché, fin dall’inizio, marcava una specificità precisa del nuovo testo, e cioè che la vicenda sarebbe stata incentrata prevalentemente, dall’inizio alla fine, sulla vita di Oscar, e solo in maniera accessoria su quella degli altri protagonisti del manga: Maria Antonietta, Fersen (e lo stesso André, in fondo, sebbene in modo diverso), la cui esistenza entra nell’anime solo in quanto e nella misura in cui risulti funzionale alla costruzione della storia di Oscar e del suo formarsi come donna e come persona. Ovvero l’anime, se vogliamo scomodare le unità aristoteliche, si fonda su un’unità d’azione molto più netta ed efficace del manga. Che invece è spesso dispersivo e, nella parte iniziale come in quella finale, tende a seguire vari fili narrativi senza che nessuno di essi riesca a imporsi e a dare una vera unità “drammatica” alla vicenda.
Non è un’invenzione di oggi, è storia, mi sembra, che le vendite del manga, anche in Giappone, decollarono nel momento in cui Oscar e André cominciarono a “rincorrersi”, al punto che la giovane Ikeda fu indotta dai suoi editori a sviluppare maggiormente la loro storia, che nel progetto doveva essere più marginale e divenne solo in corso d’opera - e non secondo un piano preordinato fin dall’inizio - la vicenda portante di un lavoro che si chiamava “Le rose di Versailles”, ma forse anche, come sembra alfine di scoprire oggi, “La rosa di Versailles”, con riferimento alla sola regina Maria Antonietta. Ovvero, Riyoko Ikeda voleva soprattutto “mettere in tavole” la biografia della regina di Francia, e solo dagli eventi e dal successo della parte oscariana fu indotta ad aggiustare il tiro e a cambiare rotta. Non vorrei con questo sollevare una “questione ikediana”, che peraltro troverei assai interessante. Ma mi risulta che quanto ho detto sia cosa nota, e che lo confermi molto chiaramente il fatto che nei primi albi il personaggio di André fosse quasi una comparsa (a differenza del coccolatissimo Fersen, ad esempio), e che solo molto più tardi venne “promosso” a coprotagonista, visto il successo della sua storia d’amore con Oscar. E soprattutto - cosa che a mio avviso dimostra ancora di più quanto detto - a differenza dell’anime, il manga dopo la morte di André ed Oscar continua lutulento per svariati albi, narrandoci nei dettagli gli eventi rivoluzionari connessi alla fine della regina. Ed è storia altresì il fatto che la Ikeda avrebbe voluto aggiungere anche di più, ma fu “stoppata” dagli editori perché le vendite dopo la morte di Oscar precipitarono e li indussero a richiedere una rapida soluzione della vicenda.
Il che significa due cose, mi pare evidentemente: primo, che il manga, con tutto il bene che se ne può dire e con il grande merito di averci regalato Oscar, non aveva la stessa solida e coerente struttura narrativa che invece ebbe dopo di esso l’anime; secondo, che lo stesso affezionatissimo pubblico giapponese sapeva bene dove indirizzare le sue preferenze, e cioè a Oscar, e fu per Oscar che, una volta nata la stella, si votò con eterno amore all’opera della Ikeda.
Veniamo all’anime, ora, e cerchiamo di capire in che modo i suoi realizzatori operarono.
Annoto, per cominciare, che l’insuccesso della serie in Giappone si ebbe soprattutto all’inizio, con la regia Nagahama: il quale, paradossalmente, fu proprio quello, tra i due registi, che si attenne più fedelmente al manga. E questo vorrà pur dire qualcosa, e dovrebbe indurci a qualche riflessione. Fu con la regia di Dezaki – quello più accusato di “infedeltà” – che l’anime gradualmente riprese quota, e divenne un successo. In Giappone, ma anche e soprattutto all’estero, dove travolse completamente gli spettatori diventando quel fenomeno di portata mondiale che è da trent’anni, e trascinando con sé la fama di Riyoko Ikeda che fino ad allora era una celebrità in Giappone ma una perfetta sconosciuta in Europa. Non è un caso che da noi il manga fu tradotto solo molti anni dopo, e che – pur con tutto l’apprezzamento tributatogli - non sostituì mai nel cuore dei fans la serie animata.
Inserisco tra parentesi una duplice considerazione. Non che io voglia entrare nella mente dell’autrice, ma non mi sembra cosa irrilevante il fatto che – da una parte – alla Ikeda sia pesato molto l’insuccesso nipponico della serie animata (al punto di indurla a non concedere più per trent’anni i diritti per un altro film): ciò mi induce da un lato a osservare che anch’ella come molti altri, non so se per una questione di mentalità, tenda forse un po’ troppo - nel considerare il valore “oggettivo” di un’opera - a misurarla sul metro del successo di pubblico nel suo paese: che è certo un metro attendibile, intendiamoci, ma non l’unico possibile né necessariamente il più veritiero in senso assoluto, tanto più se circoscritto esclusivamente, in modo un po’ “provinciale” sebbene comprensibile, al giudizio del pubblico giapponese. Noto una certa somiglianza con la considerazione in termini di valore che nel cinema hollywoodiano un film riscuote sulla base del suo successo e del numero di spettatori che lo hanno visto negli Usa, anche se sul piano dei contenuti è assolutamente elementare. Criterio che spesso è utile ma che altrettanto spesso è fuorviante nel senso del valore assoluto, e induce a clamorosi errori di valutazione facendo sottostimare o non capire lavori che sono autentiche pietre miliari.
Il fatto – d’altra parte – che sia stato proprio l’anime così profondamente ripensato da Dezaki, a conquistare letteralmente il pubblico occidentale, lasciando piuttosto in ombra il suo modello a fumetti, è a mio parere altrettanto degno di considerazione: mi viene naturale chiedermi fino a che punto questa cosa sia stata gradita all’autrice, e se essa non abbia un pochino “risentito” di questa trasformazione non direttamente voluta e del fatto che riscuotesse un tale consenso, e se non abbia dunque sentito l’esigenza di “riappropriarsi” in qualche modo di una storia che era sua, e che vedeva, da una parte presentata in modo meno consono al suo sentire, dall’altra al centro, proprio in questa versione “riveduta e corretta”, di un clamoroso successo internazionale.
Ma venendo all’anime di Dezaki, così esplicitamente accusato, oggi, di non essere stato fedele al manga ikediano (si capisce in più punti – se si deve credere alle parafrasi che ne sono state fornite - sul sito ufficiale dell’autrice di Versailles no bara), cosa si può rispondere a tale critica?
La mia risposta personale, lungi dal negare l’accusa, se ne appropria e anzi la rivendica come prova d’originalità.
Dove sta scritto che la bellezza sta nella scrupolosa fedeltà al modello? Un’opera è tanto più artistica quanto più – per ragioni ben precise, stabilite da chi la realizza in base alla sua visione – essa si discosta dal modello, lo ripensa e lo rielabora sulla base di una propria lettura; quanto più è capace di proporci, pur restando fedele al dettato di base, un messaggio nuovo, originale, intenso. Ben vengano i tagli, i ripensamenti, le omissioni e le modifiche, se esse producono un capolavoro di espressività, di emozione, di significato; se non sono fatte a casaccio e in modo gratuito, ma pensate e motivate una per una, fin nei minimi dettagli, per veicolarci e proporci la lettura di un “classico” che in quel momento un nuovo autore fa, tutto teso a creare per noi un altro “classico”.
Al di là dei gusti personali (e dichiaro senza riserve di essere una grande estimatrice delle caratterizzazioni dezakiane e arakiane, dei silenzi struggenti e scarni e degli sguardi accennati che nell’anime sostituiscono tirate chilometriche e litri di lacrime teatralmente versate); al di là dei gusti soggettivi, comunque, chi potrebbe mai negare che i personaggi della serie animata si avvalgano di una caratterizzazione splendida, coerente, credibile, che le cose che dicono ma soprattutto quelle che non dicono, che le loro espressioni, i loro gesti, le loro reazioni anche minime siano profondamente poetiche, emozionanti, efficaci, anche e tanto più quando lasciano l’amaro in bocca, quando ci fanno desiderare altro ancora, quando ci lasciano a immaginare tra le righe delle cose non dette la miriade di cose che avrebbero potuto essere dette, invece, e col loro riecheggiare sommesso nella mente arricchiscono di un retrogusto struggente l’impatto della rappresentazione offertaci? Chi potrebbe negare che la storia, proprio nel momento in cui si discosta da un’ossequiosa ripetizione del modello cartaceo (forse improponibile, in quei termini e a un pubblico più maturo), riesca a decollare e a vivere di vita propria, a colpire e coinvolgere e emozionare con un impatto molto più forte e diretto?
Come si fa a non convenire, ad esempio, che il personaggio di Alain, così maturo e sofferto, così più vicino ad André, così umanamente sospettoso e attratto dal nuovo comandante donna, così delicatamente e in modo appena accennato legato a lei e nello stesso tempo, in maniera contraddittoria e complessa, all’amicizia profonda per André; come si fa a non convenire che questo personaggio sia un autentico capolavoro sbalzato in pochi sapientissimi tratti, e che a questo concorrano la sceneggiatura, il disegno, le espressioni del viso che ci regala, gli sguardi? Importa allora, comunque la si pensi nel merito, il fatto che sia diverso dall’Alain del manga? Egli è un personaggio che vive di vita propria - e che vita! -, cui il nuovo autore ha saputo donare una sensibilità, un’anima, un ruolo fondamentale nella storia. Il mio giudizio personalissimo, poi, è che questo nuovo ruolo sia molto più indovinato del primo, ma questo in fondo conta fino a un certo punto: quello che conta è che Dezaki e Araki, modificando la storia un pochino e costruendo diversamente i tratti del viso, la mimica, le azioni che fa, abbiano creato un personaggio assolutamente vero, e credibile, e profondamente poetico.
Stesso discorso per André, cui la maggiore sobrietà dell’anime conferisce uno spessore profondissimo, che esprime tanto più quanto meno dice, che soffre indicibilmente per anni e ci fa soffrire con lui, che esplode disperato e tace macerandosi, implorando silenziosamente perdono ma mai rinunciando, testardamente e profeticamente conscio, al suo amore. Il mio giudizio personalissimo è che sia molto meglio tutto questo dei suoi cadere in ginocchio ai piedi di Oscar declamando frasi da melodramma, ma in fondo non è questo l’importante: l’importante è invece che il nuovo André abbia una forte, fortissima e caratterizzata personalità nella storia, che la fondi e cooperi a costruirla, che agisca e interagisca con gli altri dando vita a una vicenda assolutamente coinvolgente e credibile. Che non tradisce affatto la storia di Riyoko Ikeda ma se mai la interpreta a un livello più profondo e ce la propone come dolente e realistica riflessione sulla vita, sull’amore, sul senso di scelte che ti cambiano e ti spiegano, e ti chiedono di portarne il peso.
Che il nuovo film ripensi e ridimensioni proprio il ruolo di André e di Alain, in questo senso, è cosa che mi provoca una buona dose di scetticismo. Ben più di quanto non me la provochi la notizia, alla quale ho riso, con un po’ di cinismo, che il nostro eroe avrebbe avuto stavolta non gli occhi verdi, come da secoli siamo abituati ad amarlo tutti, ma azzurri di un decorativo azzurro da gioco del Pachinko (ma, a volerselo proprio chiedere, perché? Perché fare una cosa simile, tanto gratuita e inutile, in fondo, come se si volesse passare deliberatamente e ostentatamente sopra una “tradizione” ormai consolidata, seppure stabilita dall’anime, come per dichiarare a tutti, proprio in questo appropriarsi del particolare, “La vera Lady Oscar è mia e ci faccio quello che voglio”? Eh, no, mi dispiace, come ben sapeva il buon Pirandello i personaggi non sono più dell’autore una volta usciti dalla sua penna: vivono di vita propria ed egli non ha più il diritto legittimo di trasformarli in base a come gli gira in quel momento, occhi verdi a parte. Sono loro che gli indicano la strada, poi, e se l’autore non la segue produrrà solo degli scimmiottamenti ridicoli).
Per questo, per tanti altri motivi simili a questo, non sono molto ottimista su questo film. Senza entrare in altri particolari come i dialoghi, gli scenari, il doppiaggio, l’animazione perfetta tecnicamente ma fatta a macchina, così priva di tensione e di originalità nel suo digitale attenersi alle coordinate già date. La mia impressione è che questo nuovo film ci darà semmai il piacevole tepore dello sfogliare un vecchio album di fotografie di famiglia, non l’autentica e travolgente sensazione del capolavoro. Perché parte proprio così, dichiarando di non voler essere originale, di non avere niente da aggiungere, né da cambiare, né da proporre. Di essere a ogni piè sospinto “supervisionato” (o sarebbe meglio dire guardato a vista) dall’autrice del manga. Esso dichiara, fin dall’inizio, di voler essere una copia fedele, cioè l’imitazione di un’imitazione, per dirla dandoci un tono. Sembra più che altro, a leggere i retroscena della produzione, soprattutto un’operazione commerciale che avrà il successo economico assicurato, data la passione con cui i fans seguono da decenni la storia: è un prodotto che si vende da solo, indubbiamente. Ma sarà anche qualcos’altro oltre che un prodotto?
Per il momento l’approccio con cui mi rivolgo a esso è piuttosto cauto. Più che una profonda unità e delle emozioni autentiche, cercherò di ritagliare delle emozioni parziali qua e là, recuperando dai punti della storia narrata alcuni di quei “vuoti” spesso lasciati dall’anime a puntate, che pure amo moltissimo proprio per quello. Qualunque cosa venga in più, sarà tanto di guadagnato.
Naturalmente parlo senza aver visto, e dunque mi dichiaro dispostissima a ricredermi e fare pubblica ammenda, nel caso il futuro mi smentisse.
pubblicazione sul sito Little Corner dell'aprile 2007
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