Grandi Voci
 

L'incontro terapeutico con il paziente schizofrenico

    Transfert ed identificazione proiettiva: modalità relazionali del paziente schizofrenico




    Dott.ssa Simona Mogni
    Padova, Giugno 2001



    Muovere un'argomentazione concernente il fenomeno transferale nella psicosi è impresa ardua e complessa. E' mia intenzione partire da una definizione di transfert prettamente freudiana, per poterla così contestualizzare, elaborare ed analizzare nel corso di questo capitolo.
    Il transfert è un fenomeno universale, generale e spontaneo che consiste nell'unire il passato con il presente mediante un falso nesso che sovrappone l'oggetto originario a quello attuale; esso, in quanto fenomeno inconscio, appartiene alla realtà psichica e non alla realtà di fatto. Il transfert deve essere continuamente analizzato, così da permettere al paziente la presa di coscienza della ripetizione di modelli del proprio passato nella contingenza presente. Quando nel soggetto il richiamo alla memoria si arresta, incomincia ad operare il transfert, che diventa resistenza. Il paziente incomincia non a ricordare, bensì a trasferire scegliendo l'elemento che si fa più congeniale alla situazione presente e inserendolo in essa.
    Di tutto il complesso quindi, l'elemento che per primo si mobilita come resistenza è il più adatto per il transfert. Nella slatentizzazione di questo processo affiorano due componenti importanti: una è la libido cosciente e l'altra è quella incoscia; la prima non sarà mai un ostacolo allo sviluppo individuale, la seconda è vittima della rimozione e subisce l'attrazione dei processi inconsci. È esclusivamente la libido sottratta alla realtà a provocare il fenomeno del transfert.
    In ogni momento terapeutico esistono due momenti di amore, perché la cura riproduce le relazioni d'oggetto della triade edipica, quindi è salutare che questo avvenga. Il concetto di “amore di transfert” prevede un transfert improvviso, tenace, distruttivo per l'intolleranza alla frustrazione che lo accompagna ed appare più vicino al versante psicotico che non a quello nevrotico.
    All'interno della categoria "amore di transfert" ne vengono distinti due tipi: un transfert erotico, di tipo nevrotico, e un transfert erotizzato, di tipo psicotico. Il transfert erotico si attiva e disattiva gradualmente e tende a raggiungere il suo culmine nella fase finale; quello erotizzato insorge molto più precocemente: più precoce è la formazione del transfert, peggiore risulterà la prognosi.
    La relazione che il paziente psicotico ha con l'oggetto è precipitosa, immatura e la labilità del transfert è in forte contrasto con la tenacia che lo caratterizza (Bion 1956). Il transfert di tipo psicotico è sintonico con l'Io ed incapace di accettare qualsiasi surrogato oggettuale.
    Lungo lo sviluppo evolutivo degli studi sulla psicosi e sulla schizofrenia, tale patologia veniva considerata come mancante della capacità di transfert da parte del paziente.
    L'espressione “psicosi di transfert” compare per la prima volta in “Die Analyse eines Eifersuchtwahnes” (1928), saggio di Mack-Brunswick, e trova una sua collocazione a metà del secolo nel corpo teorico della psicanalisi.
    Searles (1963) è d'accordo sul concetto di psicosi di transfert, anche se questo fenomeno non è facilmente rilevabile nella quotidianità del paziente che è pregna di reazioni molto simili a questo tipo di transfert.
    La psicosi di transfert non diventa però manifesta in quanto l'Io psicotico non è in grado di manifestare una corretta distinzione tra realtà interna e realtà esterna, tra passato e presente, due componenti salienti della caratterizzazione del fenomeno transferale. Viene quindi a mancare quella necessaria distanza psicologica che permette la discriminazione tra oggetto originario e la sua replica.
    Nello specifico, lo schizofrenico si allontana dal mondo in un ripiegamento difensivo di estrema intensità, ma la relazione con l'oggetto viene conservata e proprio su questa base deve essere inteso ed interpretato il transfert. La tendenza a prendere contatto con gli altri è intensa, nonostante l'isolamento difensivo, perciò il transfert deve essere interpretato come l'angoscia che determina l'allontanamento dal mondo oggettuale.
    La trattazione che seguirà sarà volta ad argomentare quanto questa “forma transferale” suddetta, possa essere esaustivamente contemplata nel meccanismo dell'identificazione proiettiva, che rappresenta un tassello potenzialmente valido per la comprensione del transfert, inteso come modalità relazionale attraverso la quale il paziente schizofrenico vive l'incontro con l'altro-da-sé.
    Che si usi o meno questo termine, che si sia consapevoli o meno del concetto di identificazione proiettiva, nella clinica ci si imbatte di fatto in questi fenomeni: fantasie proiettive inconsce associate all'evocazione in altri sentimenti simili.
    L'identificazione proiettiva è un concetto che negli ultimi anni è sempre più entrato nel linguaggio psicoanalitico. Negli Stati Uniti viene considerato un concetto “ponte” tra la psicoanalisi classica e quella interpersonale, perché consente di tenere in considerazione l'importanza dell'interazione tra le persone nella genesi della psicopatologia, uscendo così da un'ottica puramente individuale o intrapsichica.
    Questo tipo di dinamica è una forma di fantasia onnipotente attraverso la quale parti della personalità e degli oggetti interni (mondo interno) possono essere scisse e proiettate nell'oggetto con cui vengono ad identificarsi. Nella proiezione di parti buone del Sé è implicito il processo che porta allo sviluppo delle relazioni oggettuali positive. La proiezione di parti negative, e quindi sadiche o distruttive del Sé, origina circuiti persecutori che, iniziati nella posizione schizo-paranoide, possono creare modalità esistenziali problematiche nell'individuo adulto.
    In condizioni normali, l'identificazione proiettiva determina una relazione empatica con l'oggetto, non solo perché permette una collocazione nel mondo dell'altro, ma anche per quello che nell'altro viene suscitato. Il soggetto produce sempre qualche risonanza emozionale sull'oggetto, per l'atteggiamento che assume nel momento in cui gli si pone di fronte, per la forma in cui lo guarda, gli parla, per il contenuto di ciò che dice e quant'altro. Ciò accade solitamente all'interno di qualsiasi relazione umana e favorisce la nascita della comunicazione.
    Il concetto di normale e di patologico è strettamente vincolato al maggiore o minore predominio degli impulsi aggressivi, al grado minore o maggiore di tolleranza verso la frustrazione, al tipo di contatto con la realtà esterna e la realtà psichica, allo stato delle funzioni dell'Io, alla qualità dei meccanismi difensivi e alla dinamica profonda dei legami con l'oggetto.
    È molto importante riuscire ad individuare la quantità o la qualità con le quali interviene l'identificazione proiettiva, per la determinazione della gravità dei quadri clinici. Può succedere, per esempio, che l'identificazione proiettiva si manifesti con una particolare violenza come accade in particolare nei pazienti schizofrenici o nelle psicosi in genere.
    Thomas Ogden è uno degli autori più noti tra coloro che hanno approfondito questo concetto; egli sostiene che il fenomeno dell'identificazione proiettiva si può delineare attraverso tre fasi successive. Nella prima fase, quella della proiezione, è presente il desiderio inconscio di sbarazzarsi di una parte di sé proiettandola verso qualcun altro.
    Nella relazione terapeutica chi proietta? Tipicamente si parla del paziente che proietta sul terapeuta, ma può essere benissimo che sia il terapeuta a proiettare verso il paziente. Perché si proietta? Classicamente, come fece notare la Klein quando per prima nel 1946 formulò questo concetto1, esistono due motivi fondamentali: innanzitutto la persona sente il bisogno di proiettare una parte fuori di sé, poiché teme che questa parte, essendo “cattiva”, possa distruggere le parti “buone” del sé; ma il bisogno di proiettare una parte di sé può anche scaturire da una motivazione opposta, ovvero la parte buona può essere proiettata, in quanto si avverte il bisogno di proteggerla dagli attacchi aggressivi da parte delle parti del sé cattive.
    La seconda fase, quella della pressione interpersonale, caratterizza in modo singolare il meccanismo dell'identificazione proiettiva. La pressione interpersonale non è solo spiccatamente psicologica, ma anche comportamentale, attuata da colui che proietta su colui che riceve la proiezione, affinché quest'ultimo arrivi veramente a provare quel determinato sentimento che vuole essere proiettato.
    Secondo Ogden non si può parlare di identificazione proiettiva se le due persone, in questo caso il paziente ed il suo terapeuta, non hanno scambi comunicativi o comportamentali tra loro. Deve esistere una qualsiasi forma di rapporto interpersonale perché altrimenti si tratterebbe di proiezione, che l'autore, peraltro, considera come processo puramente “intrapsichico”; quindi la “pressione interpersonale” sottolinea l'aspetto relazionale ed interpersonale, dell'identificazione proiettiva. Il termine “pressione” ci porta a riflettere su un aspetto interessante: che effetto ha quest'ultima su colui che la riceve? Langs si è largamente interessato allo studio clinico del concetto di identificazione proiettiva, ed ha introdotto le immagini di una “interfaccia me/non me” (me/not me interface), volendo comunicare che il terapeuta deve essere sempre molto cauto nel distinguere, tra i sentimenti che lui prova, quali sono i suoi più appartentivi e quali sono quelli del paziente. Il terapeuta può trovarsi a vivere dei sentimenti che crede suoi, ma che in realtà suoi non sono, in quanto appartengono al paziente, il quale esercita una potente identificazione proiettiva che rende il terapeuta una specie di “vittima” dell'interazione.
    La terza fase è la più affascinante di tutte perché è quella che spalanca le porte ai più corposi interrogativi sul reale meccanismo della cura in psicoterapia. Questo ultimo passaggio infatti riguarda l'aspetto terapeutico, ovvero quel colpo di coda che dà la possibilità al terapeuta di agire in senso curativo, oppure di far restare il paziente fermo alla seconda fase, senza avanzare di nessun passo.
    Stiamo parlando del meccanismo della reinternalizzazione, chiamata così perché attraverso essa, la parte che prima era stata proiettata nel terapeuta, ora potenzialmente viene reinternalizzata dal paziente. Tutto questo implica che il paziente stesso non avverta più il bisogno di proiettarla fuori e quindi che qualcosa sostanzialmente sia cambiato: o la parte prima proiettata è meno “pericolosa”, oppure il Sé del paziente è tanto forte da consentirgli di “trattenerla”dentro o, ancora, entrambe le cose. Il paziente è in grado di affrontare questa fase se e solo se ha sperimentato che il terapeuta è stato capace di trattenerla. Il compito del clinico, in questo caso, è quello di ricevere le proiezioni del malato, farle proprie contenendole, “dirigendole” o “metabolizzandole”, per poi restituirle al paziente, consone per la reinternalizzazione.
    La metafora spesso usata è quella del cibo masticato dalla madre quel tanto che basta a trasformarlo in bolo alimentare con la propria saliva e con i propri denti, restituendolo così al bambino che lo digerisce.
    Affinché il terapeuta possa condurre il paziente al processo della reinternalizzazione, è necessario che non tratti ciò che gli è stato proiettato con le stesse modalità adottate dal paziente (riproiettandola fuori), altrimenti incorre nel rischio di riconfermare al paziente che ciò che è stato proiettato, e quindi “buttato fuori”, comunque deve essere estromesso. Quindi il terapeuta deve agire in modo diverso dal paziente.
    Con i pazienti schizofrenici può succedere, e non di rado, che la parte proiettata sia particolarmente carica di angoscia, dolorosa e pericolosa, i sentimenti del terapeuta diventano quindi, o rischiano di diventare, spiccatamente violenti e primitivi. In ogni caso il terapeuta è una persona diversa dal paziente, di conseguenza tendenzialmente sarà portato a reagire all'esperienza di entrare in contatto con quella parte che è stata proiettata in modo differente. Quindi anche se in un particolare istante il terapeuta vive se stesso a contatto con la proiezione del paziente proprio nella modalità in cui il paziente si vive, in un momento successivo egli fa un'esperienza diversa, perché la parte proiettata, una volta inserita nella personalità più vasta del terapeuta, genera un diverso insieme di sentimenti che nel paziente non si erano generati.
    Questi sono i nuovi sentimenti che il paziente vede, con i quali entra in contatto, e nei quali ha la possibilità di identificarsi “internalizzandoli”.
    Rosenfeld individua due generi di identificazione proiettiva; un'identificazione proiettiva volta alla comunicazione ed un'identificazione proiettiva direzionata alla liberazione di parti non desiderate dal Sé.
    L'uso dell'identificazione proiettiva come metodo di comunicazione si ritrova in molti pazienti psicotici e schizofrenici. Tali meccanismi proiettivi sembrano infatti rappresentare una distorsione o intensificazione della relazione infantile normale del bambino con la madre attraverso la comunicazione non verbale, per la quale certe pulsioni, ansie o parti del sé difficili da tollerare vengono proiettate all'interno della madre affinché essa le contenga ed allevi l'ansia (ciò che Bion ha descritto come capacità materna di rêverie). Il paziente schizofrenico è in grado di usare questa modalità transferale, tanto che di rimando, il terapeuta può assumere un atteggiamento comprensivo, contenendo le esperienze del paziente, privandole della loro valenza minacciosa e poi le trasformi in parole attraverso l'interpretazione. Questa situazione è importantissima per lo sviluppo dei processi introiettivi e per il conseguente sviluppo dell'Io, che nel paziente schizofrenico si ritrova atrofizzato, consentendogli la tolleranza delle proprie pulsioni.
    Le interpretazioni trasformano le risposte da inaccettabili ad accessibili e consentono alla parte più sana del Sé di cominciare a pensare le esperienze che prima considerava pericolose e prive di significato. La psicosi e in particolare la schizofrenia, pongono il terapeuta di fronte a compiti nuovi, uno dei quali è riuscire a fornire all'Io del paziente il narcisismo necessario per integrarsi e comprendere, proporre un nuovo ideale dell'Io, positivo e creativo, altrimenti assente dal mondo del paziente, vivendolo innanzitutto in sé, nella percezione del dolore, della sofferenza inespressa e allo stesso tempo inesprimibile: la psicoterapia diventa positivizzante la persona del malato.
    Un uso dell'identificazione proiettiva per la negazione della propria realtà psichica, fa si che il paziente scinda parti del proprio Sé e che le proietti sul terapeuta, con l'intento di evacuare i contenuti mentali disturbatori o anche persecutori, portando alla negazione della propria dimensione psichica. Dal momento che però l'intento in questo frangente, da parte del paziente psicotico, è negare i propri problemi, egli reagirà alle interpretazioni recriminando, avvertendole come violente e non tollerabili.
    Nel paziente psicotico schizofrenico, esiste inoltre un'altra forma di identificazione proiettiva, volta alla relazione con un oggetto percepito come parassitario.
    Egli ha la fantasia di vivere interamente all'interno dell'oggetto e si comporta come un parassita che vive delle capacità del proprio terapeuta.
    È una forma di identificazione proiettiva totale, ciò che spiega gli stati di “parassitismo”. Non stiamo parlando esclusivamente di una difesa volta a negare l'invidia, ma anche un'espressione aggressiva. Si tratta di una combinazione di difesa e di acting out aggressivo che può creare un impasse terapeutico. Il paziente si dimostra passivo e inerme, difendendosi così da ogni emozione dolorosa ed il terapeuta viene investito come mezzo di sopravvivenza. Nelle forme attive di parassitismo, l'ostilità domina il quadro.
    Un altro modo di vivere interamente all'interno dell'oggetto si verifica in pazienti schizofrenici con gravi deliri. Essi sono distaccati, vivono delle loro allucinazioni le quali vengono proiettate sul terapeuta. Vivendo all'interno dell'oggetto, che in questo caso è delirante, essi cercano di contrapporre quest'ultimo al mondo esterno reale e di eludere la dipendenza da un oggetto reale. Questo oggetto del delirio sembra essere dominato da una parte onnipotente ed onnisciente del Sé e cerca di influenzare le parti sane della personalità perché si allontanino dalla realtà ed entrino a fare parte del mondo del delirio.
    Chi proietta ha la fantasia, principalmente inconscia, di liberarsi di una parte di sé, non desiderata o compromessa e di collocarla in un'altra persona per poterla controllare. La parte di sé che è stata proiettata viene sentita come parzialmente perduta e come appartenente all'altro individuo. Associata a questa fantasia inconscia proiettiva si verifica un'altra interazione interpersonale per la quale chi riceve la proiezione è indotto a pensare , sentire ed agire in maniera conforme ai sentimenti che erano stati espulsi e alle rappresentazioni di sé e degli oggetti che erano stati incorporati nella fantasia alla base della proiezione.
    Sostanzialmente chi riceve è indotto ad identificarsi con un particolare aspetto che chi proietta ha ripudiato.
    Chi riceve la proiezione, può essere in grado di convivere con tali sentimenti, e può gestirli nella struttura più ampia della sua personalità. È possibile allora in questi casi che attraverso l'identificazione e l'introiezione, chi proietta reinteriorizzi i modi in cui il ricevente controlla i sentimenti indotti.
    D'altro canto però, è pure possibile che il ricevente non sia in grado di vivere con tali sentimenti indotti e che li affronti con il diniego, la proiezione oppure con un ulteriore identificazione proiettiva. In questi casi colui che proietta, vedrà confermata la convinzione che i suoi sentimenti erano davvero pericolosi ed intollerabili. Attraverso l'identificazione con la modalità patologica del ricevente di controllare i sentimenti in questione, la patologia originaria di chi proietta si consolida o si espande ulteriormente.
    Nell'identificazione proiettiva, il paziente non si limita a vedere il terapeuta con un'ottica distorta, definita dalle passate relazioni oggettuali, in aggiunta il terapeuta è anche fatto oggetto di pressioni, intese a fargli sperimentare se stesso come vuole la fantasia inconscia del paziente.
    L'identificazione proiettiva fornisce una teoria a livello clinico che può essere utile ai terapeuti che cercano di rendere significativo e significato il rapporto tra le loro esperienze (sentimenti, pensieri, percezioni) ed il transfert. Dalla prospettiva stessa dell'identificazione proiettiva molte delle situazioni di stallo della terapia forniscono materiale per lo studio del transfert, oltre che un mezzo attraverso il quale si comunica l'insieme delle caratteristiche del mondo degli oggetti interni del paziente. Inoltre questo meccanismo di difesa offre al terapeuta un modo per integrare la comprensione della propria esperienza interiore con quella che egli riconosce nel paziente. Una tale prospettiva risulta particolarmente valida nel lavoro con pazienti schizofrenici, perché va a tutelare l'equilibrio psicologico del terapeuta verso quella sorta di sbarramento di detriti psicologici a volte percepiti come provenienti dal paziente.
    Il modus vivendi del paziente schizofrenico spesso risulta una parodia della comunicazione, risponde a scopi estranei alla conversazione comune e spesso si contrappone completamente al pensiero stesso.
    Gli sforzi del terapeuta richiedono una tensione psicologica notevole per resistere alla tentazione di svilire i propri pensieri, ogni qual volta il paziente schizofrenico attacca la capacità di pensare propria e del terapeuta. Il rischio allora è quello di un'impasse terapeutica nella quale il terapeuta si accorge che le sue possibilità di pensare e di comprendere stanno ristagnando e che non ha più alcuna possibilità di contribuire con un singolo pensiero o sentimento nuovo. La tensione terapeutica può a questo punto raggiungere un livello intollerabile e culminare in una fuga dal paziente.
    Se però questi acting out controtransferali vengono cautamente analizzati, di solito non costituiscono un danno irreparabile alla terapia stessa. Nella prospettiva dell'identificazione proiettiva un tale “atteggiamento” terapeutico rappresenta effettivamente una costruzione precisa che poteva essere generata, esattamente come è avvenuto, nell'interazione ( prolungata della terapia) tra quel terapeuta e quel paziente in uno specifico momento della terapia stessa.
    Il compito del terapeuta non consiste semplicemente nell'eliminare errori o deviazioni, ma nel formulare la natura dei significati psicologici o interpersonali specifici che lo hanno portato a sentirsi e a comportarsi in un particolare modo.
    Restando attinente all'argomentazione precedentemente trattata, desidero parlare del conflitto schizofrenico attraverso la chiave di lettura offerta da Ogden sui quattro stadi della risoluzione del conflitto schizofrenico. La distinzione effettuata dall'autore non solo è pertinente, ma anche rappresentativa di ciò che è potenzialmente osservabile nell'in-contro con un paziente schizofrenico.
    Ogden considera la schizofrenia come una forma di patologia caratterizzata da un notevole conflitto tra il desiderio di conservare uno stato psicologico in cui il significato esiste ed il forte desiderio di annientare sia qualsiasi forma di significato, sia il pensiero e così pure la stessa capacità di fare esperienza.
    All'interno del conflitto schizofrenico i tentativi di controllare il significato possono esaurirsi; quando questo avviene il conflitto si sposta dall'area delle rappresentazioni psicologiche e dei significati, all'area delle capacità della persona di generare tali significati. I quattro stadi citati da questo affermato autore rappresentano dei tentativi significativi di risoluzione del conflitto schizofrenico; in ciascuno di questi stadi viene raggiunto un diverso equilibrio tra desideri che consentono l'esistenza di pensieri e degli stessi significati e, dall'altro lato, desideri che mirano a frantumare qualsiasi forma significata dall'individuo.
    Ogni stadio ha proprie modalità di difesa, di simbolizzazione, di interiorizzazione e di comunicazione. Questi quattro stadi sono:lo stadio della non-esperienza; lo stadio dell'identificazione proiettiva, lo stadio dell'esperienza psicotica; lo stadio del pensiero simbolico.
    Nel Primo Stadio ciò che è centrale, è il modo in cui tutta l'esperienza, da un punto di vista emotivo, viene vissuta come equivalente: una cosa è buona o cattiva come qualunque altra. Tutte le cose, le persone, i luoghi diventano assolutamente intercambiabili. Nulla è straordinario perché tutto ha l'identico valore emotivo. In questo caso specifico il terapeuta sperimenta l'assenza di pressione interpersonale che lo induce a pensare a se stesso e a comportarsi in un modo particolare. Pensiamo ad un terapeuta in una stanza con un manichino: egli ugualmente avverte il senso di non pressione interpersonale o, difensivamente, una qualche forma di rapporto che potrebbe implicare una forma di pressione fantasticata.
    Nel tentativo di valutare la presenza o l'assenza di una pressione da un individuo all'altro, ascrivibile ad un'identificazione proiettiva, è fondamentale la sensazione, immediata ma anche retrospettiva di essere stati limitati nella gamma disponibile di sentimenti, idee ed autorappresentazioni.
    Quando si lavora con un paziente ancorato a questo stadio ci si deve rendere conto che non si può costringere un'altra persona a pensare, tutto quello che si può fare è tentare di creare le condizioni perché la capacità di fare esperienza e di pensare si ristabilisca. Questo significa rendersi disponibili a fungere da recettore delle sue identificazioni proiettive , se e quando il paziente sceglie , anche se in modo ambivalente, di accettare l'aiuto del terapeuta per raggiungere queste capacità.
    Sebbene lo stadio di non-esperienza dia l'impressione di essere statico e non conflittuale, retrospettivamente si ha la prova che così non è.
    Quando il terapeuta riesce ad astenersi dal partecipare agli attacchi al pensiero e all'esperienza e si predispone a ricevere le identificazioni proiettive del paziente, è possibile che quest'ultimo tenti scorrerie nel campo dell'esperienza; queste incursioni iniziali danno inizio alle prime identificazioni proiettive tipiche del secondo stadio.
    Nel Secondo Stadio i conflitti emergenti e le identificazioni proiettive sono strumenti attraverso i quali il paziente attribuisce significato al terapeuta e al setting. In questa fase il terapeuta viene percepito come oggetto parzialmente separato nel quale e dal quale le parti del Sé possono essere tolte e messe.
    Il terapeuta può essere sentito come pericoloso in quanto potenzialmente rappresenta una minaccia al desiderio del paziente di non avviare il pensiero. Contemporaneamente però Ogden sostiene che il terapeuta ha anche la facoltà di essere un oggetto prezioso ed un contenitore fondamentale per gli aspetti intollerabili del Sé.
    Le identificazioni proiettive del secondo stadio riflettono non solo la maggiore capacità del paziente di fare esperienza e di concepire le relazioni con gli oggetti, ma anche la sua capacità di collegare con modalità sufficientemente valide i pensieri per strutturare fantasie sia di tipo proiettivo che di tipo introiettivo.
    A differenza del Primo Stadio, in cui all'esperienza non segue necessariamente consapevolezza, nel Secondo Stadio c'è consapevolezza dell'assenza di significato, avvertita in maniera talmente dolorosa che viene immediatamente rifiutata attraverso l'identificazione proiettiva.
    In questa fase effettivamente l'identificazione proiettiva rappresenta la difesa predominante inizialmente contro la sensazione interna di assenza di significato, poi contro le sensazioni, le percezioni ed i pensieri che in origine erano stati così insopportabili da portare il paziente schizofrenico ad attaccare le sue stesse capacità di vivere l'esperienza e di significarla. L'equilibrio di forze, nel conflitto schizofrenico in questa fase, si è spostato verso i desideri di vivere l'esperienza e di pensare; in questo contesto il paziente osa trasformare quello che percepisce in esperienza, nella misura in cui può verificarsi una qualche forma limitata di fantasie e di attribuzione di significato agli oggetti.
    Attraverso le elaborazioni del terapeuta delle identificazioni proiettive, il paziente è in grado di sperimentare una gamma quantomeno più ampia di stati d'animo.
    Il Terzo Stadio è fondamentalmente caratterizzato dall'attacco dello schizofrenico ai propri pensieri ed ai propri sentimenti, prevalentemente attraverso blocchi, frammentazioni, ma anche proiezioni, introiezioni e distorsioni bizzarre.
    I blocchi possono in questo frangente rappresentare la componente irrisolta di desideri ancora potenti, volti a deflagrare la capacità stessa del soggetto di pensare e fare esperienza. Poiché il tipo di simbolizzazione adottato in questo stadio è prevalentemente quello dell'equazione simbolica, in cui il simbolo viene trattato come se fosse la cosa che rappresenta, pensieri e sensazioni acquistano la proprietà vivida ed immediata di essere veri e propri oggetti al proprio interno. I processi psicologici vengono percepiti e vissuti come se fossero metodi di manipolazione fisica degli oggetti stessi.
    Le relazioni oggettuali sono singolari e differiscono notevolmente da quelle sviluppate negli altri stadi cui Ogden fa riferimento. Qui il terapeuta viene considerato non solo e semplicemente come un contenitore parzialmente separato dalle identificazioni proiettive del paziente stesso, ma sempre di più come una persona distinta, la cui perdita può anche essere temuta.
    Ogden sostiene che ora il terapeuta ha inoltre maggiori possibilità di stabilire un contatto “empaticamente” valido con il paziente, in contrasto agli stati d'animo suscitati in lui attraverso le interazioni interpersonali tipiche delle identificazioni proiettive messe in atto dal paziente.
    Questo non significa che in questa fase vissuta dal paziente, l'identificazione proiettiva non continui ad essere una modalità di interazione molto importante; parliamo invece di una sorta di campo psicologico ed interpersonale nel quale l'empatia può avere la medesima importanza della forma di identificazione che il ricettore assume durante l'identificazione proiettiva.
    Gli stati d'animo del paziente risultano inoltre più conflittuali, ovvero, le forze dei desideri in contrasto nel conflitto schizofrenico hanno un'intensità più paritetica. Anche attraverso queste dinamiche il paziente percepisce se stesso più umano e più vivo.
    In ultima analisi affrontiamo quello che Ogden chiama Stadio del pensiero simbolico. Il paziente riesce ad accorgersi delle cose che lo circondano in modo diverso, è in grado di notare se stesso e le sue relazioni con gli altri quasi con una consapevolezza acquisita più evidente agli occhi del terapeuta.
    Le nuove capacità simboliche acquisite gli consentono di effettuare delle scelte e di essere cosciente che le sta facendo, anche solo se si trattasse della scelta di non parlare o di non comunicare. L'elaborazione riflessiva diventa presente ed evidente, la relazione con l'altro più significata e vissuta non con passività, ma con coscienziosa recettività.
    Abbiamo argomentato che durante gli stadi suddetti i pensieri ed i sentimenti sono stati descritti come espulsi (Secondo Stadio), frammentati (Terzo Stadio) o spogliati (Quarto Stadio). Queste concezioni in parte riflettono le fantasie del paziente circa la propria esperienza psicologica. Se consideriamo l'idea dell'espulsione dei pensieri sugli aspetti inaccettabili del Sé, attraverso il rapporto interpersonale, parliamo della fantasia proiettiva tipica dell'identificazione proiettiva. In fantasia un aspetto di sé viene messo in un'altra persona, attraverso l'interazione interpersonale le emozioni simili alle proprie vengono vissute e gestite da un altro: nel meccanismo dell'identificazione proiettiva le fantasie sono accompagnate dall'azione. Quando siamo di fronte al conflitto schizofrenico, l'attuazione che surroga ed accompagna la fantasia si attua nell'area delle capacità della persona di generare esperienza e pensiero.



    Bibliografia

    • Bion W. -Sviluppo del pensiero schizofrenico, in (1967b), cap.3.
    • Etchegoyen R.H. I fondamenti della tecnica psicoanalitica, 1990. Edizione arricchita, Roma, Astrolabio. Parte seconda
    • Grinberg L.Teoria dell'identificazione- La Sfinge, Loescher Editore, Torino. Traduzione di GianPiero Manfredini, 1982.
    • Migone P.La identificazione proiettiva. Ruolo Terapeutico 1998. 49:13-21. Dalle Rubriche di Paolo Migone pubblicate sulla rivista "Il Ruolo Terapeutico"dal 1987, intitolate "Problemidi psicoterapia. Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia".





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