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Conferenza
"Parola e Numeri"
Padova - Novembre 1999

---------5° parte-------

PATARNELLO
:
Tra poco il Prof. Stanghellini ci saluterà perché lui ha un obbligo di treno che non si può contrattare….
Quindi continuiamo con le sollecitazioni che stamani erano ricche; darei la parola a voi che avevate chiesto di parlare prima dell'interruzione, altrimenti vediamo un po' di estrarre da questo deposito di domande; ci sarebbero delle curiosità che sono state espresse qui, e io potrei anche rompere il ghiaccio se volete, naturalmente diciamo che il destinatario potrebbe essere chiunque, e quindi la faccio così un po' a tutti… diciamo la faccio a Stanghellini, via. C'è una correlazione naturale, vorrei dire, tra l'interesse della fenomenologia per la schizofrenia e l'interesse almeno originario, quindi storico, per l'isteria ( con l'isteria mettiamo in senso lato quella che si chiamava l'area dei disturbi neurotici o delle nevrosi). C'è una ragione per cui pur essendo coese psicanalisi e fenomenologia, la fenomenologia ha trovato naturale questa attrazione per la patologia psicotica – segnatamente la schizofrenia- quando tutta la teoria e la pratica psicoanalitica si muoveva invece nell'area delle nevrosi e rifiutava in un certo senso, anzi aveva preso posizioni, per lo meno all'origine, su una struttura di tipo irraggiungibile delle psicosi anche perché le aveva molto somatizzate, molto legate sul piano organico – a parte la debolezza nella rigidità dell'Io – ma c'era proprio una visione molto organica, e c'era una specie di rifiuto. Comunque la cosa secondo me è molto complessa, potrebbe essere anche una buona domanda: perché queste due attrazioni fatali che poi si sono ricongiunte e forse si sono anche – potrei aggiungere questo io – si sono anche scavalcate, perché la fenomenologia ha trovato interessante – ricordiamo gli studi sulla ossessività – il mondo dei conflitti intrapsichici e la psicoanalisi ha cominciato a interessarsi molto delle nevrosi diventando sempre di più una disciplina umanistica ed ermeneutica.

STANGHELLINI:
Questa è una domanda meravigliosa, perché se io provassi a rispondere a questa domanda credo che farei la storia, rifarei la storia della fenomenologia clinica o della psicopatologia fenomenologica. La domanda la riassumo, anche per vedere se ho capito: Qual è la ragione di questo patto di sangue tra fenomenologia e psicosi? Io direi che la risposta è in un concetto chiave della fenomenologia che è l'EPOCHE'. L'Epochè è una parola chiave, è un concetto chiave della fenomenologia, è uno strumento chiave, un metodo chiave della fenomenologia. E' quella sorta di ascesi volontaria, di perdita volontaria del mondo, di perdita volontaria dell'ovvietà, di messa in parentesi dell'ovvietà del mondo, della cosiddetta esperienza naturale o dell'autoevidenza che Husserl ha richiamato, all'inizio di questo secolo, nella storia della filosofia e che la fenomenologia clinica ha ritrovato nell'esperienza psicotica. Questo credo che sia il motivo fondamentale del fatto che chi si è avvicinato alla psicopatologia delle psicosi attraverso la fenomenologia… per meglio dire: chi si è avvicinato alla psicopatologia attraverso la fenomenologia si è fondamentalmente rivolto alla psicopatologia delle psicosi. Qualche esempio: nella prima parte della mattinata, se ricordate, parlando di catatonia, io ho paragonato l'esperienza di un catatonico alla esperienza, ad una esperienza fenomenologica, cioè alla messa in parentesi di quella funzione costitutiva per così dire spontanea o naturale, anche se non mi piace molto il termine, del mondo della quale tutti noi disponiamo tramite la quale il mondo ci appare familiare per – lo dico in maniera un po' sommaria – la sovrapposizione delle nostre categorie agli oggetti che incontriamo nel mondo. L'esperienza catatonica quindi può essere letta come la sospensione di questa attività costitutiva originaria del mondo e del corpo e la sostituzione di questa attività costitutiva tramite un'attività che non è più originaria, ma che diventa invece per così dire supplente di questa originaria, che è quella che poi rende immobile il catatonico e totalmente assorbito in questo suo tentativo, per dirla con Binswanger, di far fare le veci all'Io trascendentale da parte dell'Io empirico, che in parole più semplici vuol dire rendersi conto che sto respirando; noi quando respiriamo non ci rendiamo conto che stiamo respirando, ci rendiamo conto che respiriamo solo quando ci viene messa la testa sott'acqua, no? Questa esperienza di avere la testa sott'acqua è analoga all'esperienza dell'epochè, e cioè della sospensione dell'ovvietà del mondo, solo in questa circostanza noi ci rendiamo conto che effettivamente noi abbiamo bisogno di questa funzione che è la funzione del respiro. Bene, il catatonico, si potrebbe dire, letto con gli strumenti della fenomenologia clinica, è colui che si rende conto di aver bisogno di costituire il mondo, è come dice un paziente di uno psicologo clinico americano, Lewis Szasz che ha scritto un bellissimo lavoro su questo argomento, una sorta di proiettore che proietta il mondo. Ma possiamo ugualmente usare la categoria dell'epochè per descrivere quella crisi fondamentale dell'esperienza naturale che per esempio Wolfang Blanckenburg, un altro grande autore della fenomenologia clinica europea, ha descritto appunto al capitolo della perdita dell'evidenza naturale, analizzando quelle forme schizofreniche, cosiddette ebefreniche che adesso vengono ridefinite di tipo disorganizzato che sono caratterizzate da un crampo della perplessità, cioè da un prolungamento nel tempo della sospensione dei significati, delle attribuzioni dei significati sarebbe meglio dire, che rendono a noi tutti il mondo familiare; anche in questo caso il concetto di Epochè è un concetto chiave nella interpretazione di questi fenomeni psicotici; ma sarebbe possibile andare oltre con gli esempi: l'esperienza di rivelazione che è caratterizzante il delirio cosiddetto schizofrenico in stato nascente, vale a dire il delirio schizofrenico di un giovane schizofrenico all'inizio di un percorso schizofrenico, dell'esperienza dell'EUREKA, del rinvenimento finalmente del significato nascosto, che è rileggibile in termini di fenomenologia Husserliana tramite il concetto riduzione eidetica, di un concetto affratellato con il concetto di epochè, di nuovo, delle comuni attribuzioni di significato.
Che cosa vuol dire tutto questo? Perché poi il punto è non solo trovare degli strumenti che ci consentono di descrivere e… di descrivere l'esperienza psicotica, il minus e il plus psicotico, il minus e il plus schizofrenico… che ci consentono di descriverli saltando a piè pari la categoria di primarietà in senso Jasperiano e anche Bleuleriano… non so se siete familiari con questi termini, ma devo dire che la psicopatologia è nata sulla base di un preconcetto, di un pregiudizio, se vogliamo di un assioma, cioè che le esperienze psicotiche franche non sono comprensibili, cioè sono inderivabili. Questo è quello che ha segnato la nascita della psicopatologia, è quello che ne ha segnato la nascita in contrapposizione con la disciplina interpretativa, come ad esempio la psicoanalisi o la psichiatria biologica o anche l'antropo-fenomenologia, badate bene, la polemica di Jaspers e anche nei confronti della Daseinanalyse, della antropo-fenomenologia. Ebbene, io non credo di essere il solo, anzi, sono sicuro di non essere il solo a credere che queste categorie fenomenologiche, di derivazione Husserliana, ci consentono di saltare a piè pari questo enorme pregiudizio che grava sulla fenomenologia Jasperiana che è il pregiudizio della primarietà e della inderivabilità psicologica delle esperienze deliranti cosiddette primarie. Detto questo, e sento già che mi ronza l'orecchio dalla parte del Prof. Galimberti, ma adesso siamo qui anche per discutere, detto questo direi che la cosa più importante da sottolineare è che se noi troviamo un'analogia tra l'esperienza di fine del mondo, come direbbe Borgna, in un percorso schizofrenico e nell'esperienza di perdita del mondo di un fenomenologo, questo sta a significare una serie di cose tra cui, intanto il fatto che l'esperienza di uno schizofrenico non è così disumana come qualcuno vorrebbe farci intendere e che comunque esiste un radicale antropologico, noi li chiamiamo a priori antropologici che accomuna la possibilità di esperire in un fenomenologo, quindi di ciascuno di noi, con la possibilità di esperire di uno schizofrenico.

PATARNELLO:
Se è vera la storia del ronzare le orecchie……

GALIMBERTI:
No, sono d'accordo su tutto, il ronzio era un falso allarme. Non lo so… non lo so, un po' lo so, però io la vera differenza la vedrei davvero, ma davvero, nella contrapposizione Freud-Bleuler. Voi non conoscete Bleuler?
Lo so che non conoscete Bleuler, tutti conoscete Freud e non conoscete Bleuler. Bleuler è grande come Freud, Bleuler è un personaggio grandissimo… non siamo d'accordo?
Eugen Bleuler fa un'ipotesi effettivamente interessante; un'ipotesi interessante perché l'ha fatta in campo scientifico, ma un'ipotesi notissima in campo religioso.
Insomma, parliamoci chiaro: noi diciamo “IO”, ma quando diciamo “IO” diciamo in qualche modo uno pseudonimo, cioè la nostra condizione reale è la condizione psicotica, cioè è la condizione di una multiabitazione: noi siamo abitati da molte personalità, quindi la condizione schizofrenica è il nostro vero statuto. Io penso che i bambini nascano schizofrenici, no? Cioè l'Io si forma gradatamente dopo, attraverso quei processi di acquisizione della logica…
Cioè il bambino che cosa fa da zero a sei anni? Impara il principio di non contraddizione.
E chi glielo insegna? La mamma.
Seguite, anche se il ragionamento è un po' difficile, ma almeno arriviamo un po' al nocciolo della questione.
La logica occidentale è una logica disgiuntiva, è una logica definitoria; quando dico definizione intendo dire che questa bottiglia è una bottiglia e non altro. Quando dico che la bottiglia è una bottiglia e non altro, sto usando il principio di non contraddizione, che dice: “A è A e non è tutte le altre cose che non sono A”.
Noi siamo costruiti secondo questo modello, che ci tramandiamo di generazione in generazione. Ma questo è il modello logico, attraverso cui noi ci intendiamo- per cui se io dico a qualcuno: ”Chiudimi la porta” quello senza esitazione, se è cortese, mi chiude la porta, ma se ha delle scenografie non logiche può avere esitazioni perché magari quella porta non è solo quella che divide questa stanza dal corridoio, ma è anche la porta dell'inferno e allora in quel momento si allarma...
Ebbene, il principio di non contraddizione è stata una grandissima difesa nei confronti di che cosa?
Del significato polivalente che hanno tutte le cose. Allora questa bottiglia è una bottiglia, per cui, quando io la prendo in mano, i primi in prima fila non si allarmano perché presumono che io mi comporti secondo la logica e quindi segua il principio di non contraddizione per il quale la bottiglia è una bottiglia e non altro. Ma non è vero! Perché se la bottiglia è una bottiglia e anche altro, può diventare un'arma impropria. Allora che cosa fa la logica? Definisce, pone fine al significato molteplice delle cose. Questo fa la logica.
Quando i bambini nascono, vivono in uno stato pre-logico che io chiamo schizofrenico (ma lo chiamo io personalmente, poi gli psichiatri mi tradurranno questo linguaggio in modo più corretto), cioè in una condizione psicotica per cui la bottiglia è sì una bottiglia, però, insomma, è anche tante altre cose, per cui il bambino prende il pennarello, col pennarello scrive, però se lo mette anche in bocca e lo succhia, oppure lo caccia nell'occhio di suo fratello, lo usa come arma impropria, come biberon, come strumento di scrittura, perché le cose sono disponibili per un molteplice significato. Come fa il bambino ad imparare la logica? Gli viene insegnata
Il principio di non contraddizione glielo insegna la mamma; gli dice: ”No! Il pennarello si usa per scrivere, e non per metterlo nell'occhio di tuo fratello, e non…, e non…”. Ecco qui il principio di non contraddizione.
Ma il principio di non contraddizione non è un principio dell'Essere, è un principio del linguaggio: contraddizione, che regola il dire. Naturalmente, regolando il dire regola anche i nostri comportamenti, finché ci atteniamo alla logica del dire e della non contraddizione. Quando siamo arrivati ad acquisire il principio della non contraddizione, quando il bambino usa il pennarello solo per scrivere e non per metterlo nell'occhio di suo fratello, e quindi come arma impropria, e non per succhiarlo, e quindi come il biberon, quando riduce il significato delle cose ad un solo significato, quando non parla come Leopardi e dice: “Dimmi che fai tu luna in ciel?”…perché i poeti trasgrediscono come gli psicotici no?
“Dimmi che fai tu luna in ciel”… Leopardi sa benissimo cosa fa la luna, però ipotizza che la luna… la domanda ha senso se io non faccio una domanda scientifica, ha senso se io assumo la luna, la luna è la luna, ma anche un'interlocutrice, per esempio, e allora posso domandarle: “Che fai in cielo?” solo attraverso questo slittamento di significati io giustifico la domanda di Leopardi, cioè attraverso una procedura psicotica.
Allora cos'è questa benedetta psicosi? E' la nostra matrice del nostro pensare, immaginare, ideare, sognare, e noi ci produciamo come soggetti logici e quindi coscienti e chiamiamo il proto-logico cosciente "IO".
In questo senso l'Io è, in certo qual modo, uno pseudonimo, una struttura di copertura attraverso cui io mi relaziono con gli altri e gli altri si relazionano con me. Linguisticamente ci intendiamo (“apri la porta” apre la porta, “chiudi la porta” chiude la porta e non fa altre cose strane) perché stiamo a questa convenzione logica che è stata il successo dell'Occidente.
L'Occidente ha avuto successo rispetto alle altre culture perché si è prodotto logicamente, cioè ha definito i significati creando le condizioni dell'intelligibilità per cui quando parlo gli altri mi capiscono più o meno, secondo quello che sto dicendo, alla condizione che si attengano al principio di non contraddizione, che non lascino slittare i significati in scenari diversi da come si è convenuto che significhino.
Se questa è la matrice, se siamo molte cose, se io sono un offerta a molte significazioni, la mia condizione è psicotica, poi mi produco egoicamente… "Mi produco egoicamente": … io di Jung non apprezzo molte cose, ma apprezzo la sua parte psichiatrica, quella iniziale quando era giovane, poi ha cominciato a sua volta a andare a delirare per suo conto; ma nella parte giovane, quando era allievo di Bleuler, propose ai filosofi di cambiare la parola “coscienza”; in tedesco coscienza si dice Bewustsein: "Sein" vuol dire essere, essere conscio; lui propone di cambiare la parola coscienza, che è sinonimo di Io, che è sinonimo di soggetto (tutti pseudonimi di quella popolazione che ci abita), propone di chiamare la parola coscienza Bewusterden, "Werden" vuol dire divenire.
La coscienza è un lavoro quotidiano signori miei, quando noi ci alziamo la mattina rimettiamo in pista la coscienza, ma è un lavoro, non è una cosa che abbiamo, è un lavoro; è un lavoro che dura finché dura, che sta finché sta, che c'è finché c'è. Se è vero che io alle 9 della mattina non ho la stessa tonalità umorale che ho alle 5 del pomeriggio e non è la stessa che ho alle 10 di sera, vuol dire che io sono abitato da personalità latenti che mi colorano l'Io, nel caso psicotico ne prendono il posto.
Gli arabi per esempio pregano cinque volte al giorno per mettere il proprio umore, la propria coloritura della personalità in colloquio, in comunicazione con Allah, perché è chiaro che io alle 5 del pomeriggio non sono quello delle 9 della mattina. Non è lo stesso demone, per parlare col linguaggio mitologico, che mi abita. Quindi non è l'Io che prega Dio, ma i miei demoni che mi colorano l'Io, quindi come memoria della molteplicità che mi abita, che parla con Allah, che si mette in contatto con Allah.
Noi siamo davvero una popolazione. Mi ricordo Gesù… - mi ricordo!?!… non c'ero! - …Gesù Cristo quando libera l'indemoniato e gli dice: “Dimmi il tuo nome!”… e il demonio cosa dice? “Ma tu lo sai che noi siamo una legione”.
Ecco, noi siamo una legione e tentiamo di produrre l'Io che è una sorta di messinscena logica che ci dà dei vantaggi enormi, ci consente… consente a loro, per esempio, di non temere nulla quando alzo la bottiglia… Ecco, questa è la logica: la logica è un sistema difensivo che garantisce dei comportamenti che accelerano la comunicazione e producono una situazione di quiete rispetto a quell'ansia continua che uno prova quando non si sa che uso farà l'altro del mondo o delle cose che ha sotto mano, come non sappiamo che cosa fa un delinquente, un bandito, uno sconosciuto.
Ma noi siamo quei bambini, quegli sconosciuti, quei delinquenti dentro di noi e l'Io è una costruzione.
Ora cosa succede: Freud tutta questa popolazione la butta nell'inconscio e parla a partire dall'Io, parla a partire dall'Io, mentre Bleuler parla a partire da questa popolazione, che poi Jung, delirando, colora in mille scenografie… ma ha la sua legittimità anche questa coloritura.
Io vedo queste due grandi tradizioni nel nostro secolo per quanto riguarda la psicologia, quella vera, che è poi quella del profondo, perché l'altra non so bene cosa sia, ecco, io vedo queste due grandi figure, cioè uno sguardo sul demoniaco a partire dall'Io.
Freud costituisce un sistema difensivo nei confronti dell'apparato psicotico e quindi non può trattare col suo apparato la schizofrenia; ci prova, la nomina parafasia, poi ci rinuncia e dice: “Chi vuol sapere qualcosa in proposito si rivolga al prof. Bleuler!”. E il prof Bleuler ha capito che forse l'Io non è il costitutivo della nostra identità; la nostra identità è una produzione quotidiana, finché si riesce.
I Greci queste cose naturalmente le sapevano. Quando Dioniso entra nella città succede lo sconvolgimento: le donne diventano menadi, i vecchi si comportano come bambini, il palazzo reale – il principio dell'unità della città – crolla, il re si mette a fare il mendicante. E come si rimedia a 'sta situazione? Bisogna aspettare che Dioniso se ne vada.
Nelle ricette psichiatriche del 1800, alla fine di ogni diagnosi, di ogni prognosi e di ogni terapia si scriveva "DC", che non era Democrazia Cristiana, ma Deo Concedente: finché non se ne va il demone del subbuglio, l'agitazione che noi abbiamo sotto questa copertura egoica a cui continuiamo a stare attaccati, finché non se ne va il disordine noi subiamo il disordine, ma lo subiamo continuamente.
La virtù della fenomenologia è di far vedere che la struttura psicotica e la struttura normale hanno una differenza quantitativa non qualitativa. Fra la mia falsa percezione e un'allucinazione c'è una differenza quantitativa non qualitativa. Ecco questo gioco qua, per cui in questo senso dicevo bisognerebbe insegnare tanta psichiatria fenomenologica nell'università, perché attraverso il grande scenario della pazzia noi percepiamo il piccolo scenario che abbiamo quotidianamente con noi.

DI PETTA:
Il prof. Patarnello ha messo un po' il dito nella piaga con questa domanda. L'isteria e la schizofrenia sono sicuramente due grandi figure della psichiatria. C'è da dire che sia isteria che schizofrenia sono due parole pesanti che rimandano a un'etimologia viscerale: dentro l'isteria c'è l'utero, dentro la schizofrenia c'è il diaframma. Straordinario che noi oggi in un contesto lessicale completamente altro continuiamo ad utilizzare queste parole coniate in culture con cui abbiamo ben poco a che fare.
L'utero e il diaframma: ma insomma siamo nella pancia. E poi mi scorrono davanti delle figure di donna: Anna e Dora di Freud, Elena di Morselli, la Suzanne e la Hellen di Binswanger. Chi erano? Isteriche? Schizofreniche? Che cos'erano?
Certo è che, nello stesso momento, gli psicoanalisti nei loro studi privati e i fenomenologi negli ospedali psichiatrici vedevano una tipologia femminile che di volta in volta veniva etichettata con consulti, a volte incrociati, che richiedevano anche l'intervento di grandi luminari: isteriche o schizofreniche.
Sta di fatto che dietro questo - come dire - ci sono due psicologie: una è la psicologia associazionistica, quella di Janet, che apre la strada poi al grande lavoro - come ricordava Galimberti - fatto da Bleuler, che coniuga subito questo tipo di psicologia con le indagazioni che venivano dal maestro viennese, il quale costruiva tutto proprio sulle associazioni, guarda caso. Questa è la psicologia associazionistica.
Intanto i pazienti, o per meglio dire le pazienti perché si tratta di donne, incredibilmente di donne (Elena, Anna, Dora, Suzanne, Hellen), costituiscono un'altra psicologia che è quella della dissociazione. Quindi psicologia associazionistica da una parte, psicologia della dissociazione da un'altra parte.
Dissociazione che viene chiamata, a seconda delle competenze linguistiche, delle aree geografiche, dagli inglesi Splitting, dai tedeschi Spaltung, creando confusioni enormi, perché in fondo queste due parole non sono sinonimi. Confusione che tuttora per certi aspetti ritroviamo nelle nomenclature classificazionistiche odierne, nel capitolo, nel grande capitolo delle sindromi dissociative.
Cos'è una sindrome dissociativa? A volte troviamo la schizofrenia rubricata come psicosi dissociativa; però l'isteria rientra, e tutte le fenomenologie isteriche dagli stati crepuscolari, alle fughe, ai disturbi di memoria, nel grande capitolo delle sindromi dissociative.
qual è la chiarezza che s'è fatta dopo 100 anni dall'incrocio, dalla contaminazione del troncone della psicologia associazionistica, portata avanti dagli studiosi, e della lacerazione della psicologia della lacerazione portata avanti dai pazienti?
Certo, se continuiamo a pensare alla psicoanalisi come scienza dell'inconscio e alla fenomenologia come scienza della coscienza sono su due parallele che non si incontreranno mai, anche se verrebbe da dire come Brentano (che è stato il maestro comune di Freud e Binswanger, filosofo dell'intenzionalità), in modo provocatorio, che troppo spesso l'inconscio somiglia ad una coscienza rovesciata, ad una coscienza vista nel suo negativo, come un negativo da cui poi si sviluppa una fotografia. Si poterebbe per esempio dire che l'inconscio ha una sua potenzialità, come ce l'ha la coscienza.
Allora, l'intenzionalità è il vettore della coscienza ma è anche il vettore dell'inconscio. Però se noi prendiamo la distanza, se cerchiamo l'epoché come momento necessario di stacco (anche rischiando poi di trovarci nel vuoto), almeno in qualche segmento della nostra parabola siamo simili a quegli psicotici che staccano con i significati per trovarne di altri e cominciamo a fare una fenomenologia radicale, una fenomenologia critica… dunque focalizziamo la nostra attenzione sul vissuto.
Ma il vissuto, ogni vissuto, é intenzionale, quindi non é più la coscienza ad essere intenzionale; la coscienza é uno scenario, ma se la nostra attenzione... se cogliamo il vissuto, il vissuto é intenzionale; e la coscienza é fatta di tanti vissuti, di una molteplicità di vissuti. Non voglio dire di una molteplicità di Io (anche se le parole di Galimberti andavano un po' in questo senso), ma questi vissuti possono essere in serie, possono essere in parallelo, possono essere stratificati. Allora ecco che il concetto classico dell'Io che noi abbiamo ricevuto come una struttura dotata di una sua coerenza, coesione, continuità é un tipo di concetto che presta oggi il fianco a molte revisioni. Perché, in fondo, come facciamo a trovare a tutti i costi dei nessi di significato, come dire, delle concordanze, dei rimandi significativi, dei nessi associativi tra tutti questi vissuti in maniera tale da farne una coscienza unitaria, coerente, coesa, continua? D'altro canto, ammettere che la coscienza, come sostengono oggi molti cognitivisti, ha la sua modularità ovvero una sua discontinuità, quindi dare uno statuto a questa molteplicità di vissuti o di Io non significa dire che siamo tutti schizofrenici, cioè non significa legalizzare la schizofrenia, darle lo statuto di fisiologia? E allora come ce ne usciamo da questa cosa?
Certamente la fenomenologia recupera qui un suo specifico, un momento in cui riesce ad essere quel tipo di sguardo che dà al vissuto una sua forma.
Il concetto di forma secondo me é importante anche perché deriva dalla parola greca “eidos” che significa essenza, ma significa forma da cui viene anche idea, guarda caso, e idea ha a che vedere col vedere, con lo sguardo, da “orao”. C'é tutto un circuito etimologico, linguistico, che ci porta molto vicino ad una fenomenologia capace di cogliere e di chiarire le singole esperienze vissute, anche se non é più tanto in grado di dipingere degli orizzonti coscienziali ampi.
Questo ci fa correre sicuramente il pericolo di dover rimettere molte delle nostre idee e delle nostre certezze in discussione, però nella misura in cui riusciamo a fare una operazione di questo tipo, a chiarificare, a descrivere in fondo il singolo vissuto che quella persona in quel momento prova, noi restituiamo alla fenomenologia una sorta di originarietà perduta, cioè ne facciamo strumento acuto, acuminato, flessibile che può essere utilizzato anche in contesti non prettamente fenomenologici.
Per esempio tutti quelli che fanno classificazioni, nosografie, addirittura partendo dai farmaci, per cui c'é questo concetto della dissezione farmacologica: se un farmaco mi funziona per una cosa io classifico quella cosa come rispondente a quel farmaco. Questo é successo con gli attacchi di panico, con la fobia sociale, con molte cose, cioé si utilizza il farmaco come sonda che va a colpire un determinato bersaglio, una volta che l'ho colpito, io dico che esisteva quel sintomo perché ho il farmaco che lo cura. A un certo punto, spaccando così il capello, queste sono persone che tornano ad "aver bisogno di noi", cioè tornano ad aver bisogno di chi riesce ad affondare lo sguardo in una maniera più organica. Cioè laddove si salvi comunque l'unità del vissuto, l'unità formale del vissuto.
Questo mi sembra estremamente importante in un momento in cui anche la psicopatologia non di matrice fenomenologica é costretta a ricorrere, dopo che ha categorizzato tutto, a ricorrere a degli escamotage come il concetto di spettro, il concetto di dimensione, il concetto di comorbilità dove mi sembra che rientrino ampiamente, dalla finestra, tutta una serie di cose che sono state fatte uscire dalla porta.





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