Grandi Voci


 
Padova, 25 Maggio 2001
Giornata di studio con il
Prof. Vincent Kenny


"VIVERE NEL MONDO POST-UMANO"
una prospettiva costruttivista




Prof. Kenny: “Quale punto di partenza vorrei focalizzare la vostra attenzione su alcuni aspetti semplici eppure fondamentali della psicologia, come ad esempio cos'è una persona, un corpo, una conversazione.
Prima di tutto vorrei fare una riflessione, vorrei mettere in discussione il significato del nostro fare psicologia. Questo perché generalmente gli psicologi fanno esattamente l'opposto di quello che le persone della strada pensano della nostra professione. Le persone credono che gli psicologi siano bravi individui che scavano nei segreti più profondi dello spirito umano e scoprono i significati personali di esperienze significative ed importanti. Pensano anche che, rivelando le nostre scoperte, diamo un contributo alla società.
Purtroppo tutto questo non corrisponde esattamente alla realtà: noi dedichiamo la maggior parte del nostro tempo a inventare idee, descrizioni, concetti per delineare, dal nostro punto di vista, alcuni aspetti dell'esperienza umana che sembrano essere più malleabili, più trattabili.
Sono stati inventati molti concetti per noi molto interessanti, quali Ego, Inconscio, Personalità, Atteggiamento, Intelligenza, Componente cognitiva… e tutto per il nostro interesse.
E poi sono stati inventati dei test, per misurare questi concetti da noi ideati. Così, giriamo per le aziende vendendo i nostri “prodotti”, lasciando credere di saper realmente quantificare questi aspetti dell'essere umano. Tutto questo può avere valore come attività professionale, ma sappiamo che quello che proponiamo è inventato, che non è reale.
Il problema è di tipo sociale: le persone iniziano a credere a questi concetti. Sentono le parole di nostra invenzione, come intelligenza, atteggiamento positivo, ed iniziano ad applicare questi concetti alla loro vita. Un esempio può essere l'uso del termine inconscio, concetto chiamato in causa sempre più spesso dalla gente comune per spiegare qualche azione poco logica, o che ha portato a dei risultati negativi. Altro esempio può essere quello dei lapsus.
Le persone della strada credono realmente in queste cose, credono veramente nell'esistenza dell'inconscio, credono che possa dare spiegazioni dei loro comportamenti, e che queste spiegazioni siano reali e valide.
Noi sappiamo che tutto questo non è vero, sappiamo che sono delle astrazioni, ma la gente comune crede nella concretezza di questi termini e nella loro scientificità.
Noi sappiamo anche che la scientificità di molti esperimenti fatti in psicologia, alcuni dei quali molto famosi, è minata da problemi di validità interna dell'esperimento stesso, e dalle invalidazioni di altri esperimenti di verifica. Nonostante tutti questi dubbi sulla scientificità di famosi esperimenti della psicologia degli ultimi 70 anni, andiamo avanti come se nulla fosse, come se non ci fossero critiche e quasi totali invalidazioni di ogni cosa che abbiamo inventato. Quello che vediamo è solo uno spostamento da esperimenti e ricerche che hanno fallito verso altre aree della psicologia che siano nuove e più interessanti, dove magari ci siano soldi per il progredire della ricerca, finanziati dalle fondazioni.
Questo rappresenta un grosso problema. Come è possibile per una professione così difficile andare avanti ignorando la poca fondatezza di aspetti che sono centrali nella storia stessa della disciplina? A cosa serve la figura dello psicologo?
Noi professionisti sappiamo di lavorare su delle astrazioni le quali però vanno ad incidere concretamente sulla vita delle persone: l'individuo comune utilizza quotidianamente concetti quali inconscio, intelligenza, lapsus, per darsi una spiegazione del suo modo di vivere o di alcuni suoi comportamenti. Come è possibile che la psicologia si sia diffusa così largamente in tutti i paesi “vendendo fumo” alle persone?
E' giusto ogni tanto fermarci a riflettere sul perché. Perché le persone credono nella psicologia? E per quale motivo noi vogliamo fare questo tipo di psicologia?
Un altro grosso problema è rappresentato dal divario quasi totale tra la psicologia “accademica”, ovvero quella che si occupa di ricerca, e la psicologia applicata nell'ambito psicoterapeutico. Durante il mio lavoro nelle scuole di formazione per psicoterapeuti, in Italia, in Irlanda e qualche volta anche in Inghilterra, a Londra, chiedo spesso ai miei allievi quale sia l'un autore o il libro che più li aiuti nella loro professione. Le risposte più comuni, oltre ad essere molto interessanti, fanno riferimento a testi non provenienti dal mondo della ricerca in psicologia, ma appartenenti al mondo della letteratura (romanzi), della filosofia, dell'etica, dell'arte.
Spesso le persone che già esercitano si disinteressano dell'ambito accademico, formandosi su riferimenti diversi da quelli di provenienza. Dobbiamo chiederci il perché.
La risposta potrebbe essere che gli psicologi praticano all'interno di un dominio di esistenza diverso da quello che li ha formati.
Quindi lo psicologo creerebbe delle descrizioni fruibili dalle persone e produrrebbe credenze particolari, di cui poi quasi automaticamente la società si appropria. Pensiamo all'intelligenza: essa è considerata come qualcosa di concretamente esistente e quindi misurabile. Fin dall'infanzia gli individui subiscono il “peso” di questi concetti; lo dimostra l'uso comune che viene fatto dei test per quantificare aspetti e competenze personali.
Un altro concetto dominante nella nostra società e, di riflesso, nella nostra professione, è quello di autonomia. In America esso rappresenta uno dei punti cardine attorno al quale ruotano le regole sociali; le persone sono considerate individui autonomi, forniti di autocontrollo e con la facoltà di agire unilateralmente. Cosa implica questo concetto nella relazione individuo-società? Quest'ultima vuole essere a conoscenza di quanto sappiamo avere controllo su noi stessi e, nel caso non ne avessimo, se esiste qualcuno in grado di assumersi questa responsabilità. I bambini, ad esempio, non possono essere responsabili totalmente delle loro azioni; i genitori assumono il controllo dei loro comportamenti, rispondendo per loro direttamente nei confronti della società.
Ci viene richiesto anche un certo equilibrio nell'autocontrollo: se siamo troppo controllati, facilmente saremo classificati come ossessivo-complusivi o con altri termini anche meno terribili di questo. Se invece abbiamo scarso autocontrollo, di noi diranno che siamo degli sbandati, degli antisociali.
Durante l'ultimo anno abbiamo sentito attraverso i mass-media, anche qui in Italia, diversi casi che hanno fatto discutere l'opinione pubblica: giovani adolescenti che uccidono i loro genitori, amici, compagni oppure vicini di casa che, per una banale lite, si trasformano in assassini. Le domande che frequentemente vengono poste, anche agli psicologi, sono: come è possibile che sia accaduto? Come è possibile che una persona così equilibrata si sia trasformata in un omicida? E nel caso in cui non fosse responsabile delle sue azioni, chi aveva la responsabilità del controllo dei suoi agiti? Spesso si cerca di spiegare tutto con una sola parola, che tanto sentiamo pronunciare nei telegiornali: raptus. Un momento di totale perdita di autocontrollo al quale fa seguito il ripristino delle condizioni iniziali. Tutto ok, a parte l'omicidio…
Parliamo a questo punto di forme logiche di comunicazione che portano alla condizione di paradosso di autonomia. Posso portare due esempi che chiarificano quello che intendo dirvi. Il primo riguarda la relazione tra genitori e figli e lo spinoso problema dell'autonomia che viene concessa ai giovani. Normalmente, ad una certa età, i figli vengono lasciati liberi di gestire spazi della loro vita (uscire con gli amici, interessi, ecc…). I genitori, quindi, riconoscono al figlio sia la maturità che la sua responsabilità; se il figlio, per qualche ragione, tradisce le aspettative che erano state riposte in lui, si assiste ad una repentina “marcia indietro”. La frase più comune usata in questi casi dai genitori è: “Non è possibile! Hai tradito la nostra fiducia”; a questo punto le concessioni di autonomia vengono revocate e viene ristabilito un ordine di regole da rispettare (l'orario di rientro, ad esempio). Ma allora, di quale libertà stavamo parlando? Che tipo di libertà è, se costantemente vincolata alla possibilità di essere negata in futuro? Non è una libertà reale, non è una libertà veramente “libera”. E come è possibile conquistare una libertà vera e propria? Cosa si aspetta da noi la società per definirci autonomi, se c'è in noi questo paradosso dietro l'imperativo “sii libero!”?
Il secondo esempio che vi porto lo ho proposto l'anno scorso in un dibattito sul colonialismo e riguarda le vicende del nostro popolo, gli irlandesi, ed i loro rapporti con gli inglesi in quasi 700 anni di regime coloniale. Agli inglesi è piaciuta tanto l'Irlanda che per tutto questo tempo hanno preso dall'isola tutto quello che interessava loro, ma non solo. Hanno proposto e messo in vigore leggi che proibissero l'uso della nostra lingua, dei nostri vestiti, della nostra musica, canzoni e letteratura. Una vera e propria soppressione di una cultura, definita in termini moderni come “pulizia etnica”. Gli irlandesi, per tutti questi 700 anni, hanno risposto opponendo resistenza all'avanzare dei colonizzatori, fino a quando non hanno deciso di rientrare in patria. Potrebbe sembrare che qui si situi la fine del colonialismo inglese sugli irlandesi, ma non è così. Il rientro degli inglesi in patria potrebbe stare a significare una concessione di autonomia al popolo irlandese, ma all'atto pratico non è così, non c'è nessuna legge che sancisce la libertà del nostro popolo. Ci sono nazioni che ancora chiedono l'intervento dell'Inghilterra nei loro affari interni, come ad esempio l'Australia o il Canada, che non vogliono rinunciare a questo collegamento.Per paesi come il mio, che non richiedono più questo tipo di “servizio”, non è possibile invece recidere questo cordone ombelicale. Qui si situa il paradosso: gli inglesi non possono emanare una legge che “liberi” definitivamente l'Irlanda dal loro dominio perché, allo stesso tempo, limiterebbero la loro autonomia di creare leggi future diverse. Sarebbe un modo di negare la propria stessa possibilità di essere liberi, in questo caso liberi di legiferare, in futuro, in maniera contraria al pensiero odierno. Altro paradosso si ritrova, così come nell'esempio precedente della famiglia, nella situazione dei paesi ex-colonie. Da una parte si sentono liberati, perlomeno dalla presenza concreta dei colonizzatori; dall'altro, però, su di loro pende sempre il rischio di essere privati della loro libertà in un futuro, vicino o lontano che esso sia. Nelle costituzioni di paesi ex-colonie, si trovano frasi che testimoniano la violenza, la lotta, con cui il popolo si è riappropriato della propria libertà. Non potrebbero scrivere che il paese colonizzatore ha concesso loro l'autonomia, perché questo non corrisponderebbe a verità. Il fatto è che non esiste una soluzione a questo paradosso, così come a tanti altri che intervengono nel nostro agire quotidiano. Operiamo dei compromessi, ma non giungiamo mai ad una soluzione definitiva.
Ma ora veniamo alla parte centrale di questo incontro di oggi; riprendiamo il titolo di questa giornata di studio: “Vivere nel mondo post-umano”. Un approfondimento di alcuni argomenti che tratteremo ora è reperibile su questo sito Internet http://www.oikos.org/psicen.htm . (la parte dedicata a Kenny: http://www.oikos.org/vincen.htm oppure http://www.oikos.org/vincit.htm - versione italiana - n.d.r.)
Per cominciare vorrei farvi riflettere sul significato di essere persona; in altre parole: cosa significa essere persona? Ci sono 4 componenti che ci possono guidare nella nostra riflessione.





Punto 1: cos'è una persona? Sembra che la risposta sia ovvia, ma non è così. Dobbiamo chiederci quando consideriamo una persona l'individuo che abbiamo davanti.
Punto 2: da quale punto di vista devo guardare per dire che ho di fronte una persona? Ho un modo di percepire, di agire e di fare per discriminare una persona da una non-persona. Ho la possibilità di definire chi è persona e chi non lo è.
Punto 3: Di chi è questa realtà, quella che sto descrivendo dentro una persona? A chi conviene mantenere viva l'assunzione che in società ci sono persone? Forse non è vero che esistono persone dotate di una propria individualità. Ci sono tante culture che non possiedono, nella loro lingua, un termine che descriva il concetto di persona/individuo.
Punto 4: Cosa dobbiamo ignorare per arrivare a questo concetto di persona? Ogni volta che tentiamo di descrivere qualcosa, sussistono sempre elementi che non teniamo in considerazione, perché troppo scomodi; questo avviene anche quando tentiamo di descrivere la persona, o la non-persona.
Questi 4 punti ci serviranno da riferimento nella nostra riflessione; quello che faremo sarà mettere in discussione in nostro oggetto di indagine: la persona, appunto. E metteremo anche in discussione il nostro modo di guardare all'oggetto, il contesto sociale nel quale siamo inseriti (e che trae beneficio dalla presenza di persone) e il nostro particolare modo di ignorare certi aspetti del problema.
Che categorie usate per dire, quotidianamente, questa è una persona? E come vi definireste, voi stessi, come persone?
Gli aspetti che mi aiutano a definire la persona sono:

  1. PROPOSITIVITA': corrisponde alla razionalità, caratteristica che mi aspetto dagli altri e da me stesso. L'idea di base è che le persone siano razionali, logiche o perlomeno ragionevoli.
  2. INTENZIONALITA': quella contemplata ad esempio nelle leggi (capacità di intendere e di volere), la capacità di realizzare progetti, di decidere di intraprendere un lavoro, di scegliere fra diverse opzioni.
  3. AUTOCOSCIENZA: essere coscienti di sé stessi, saper riflettere.
  4. SOCIALITA': la capacità della persona di verbalizzare, di comunicare in qualche modo idee, desideri, la propria visione del mondo.
  5. RECIPROCITA': è molto importante per sentirsi persona. Riguarda la sensazione di essere riconosciuti, di essere corrisposti nei sentimenti, di essere ripagati degli sforzi nei rapporti interpersonali.

La persona, poi, è inserita in un CONTESTO, all'interno del quale può assumere la pozione di osservatore, con la consapevolezza di essere collocato in una rete di comunicazione e di avere il proprio punto di vista, oppure può assumere la posizione del protagonista. In quest'ultima si ha un ruolo ben preciso nel sistema, si sa che cosa si può e si deve fare, e cosa invece è doveroso evitare; si sa, quindi come muoversi su un palco. Indipendentemente dal fatto che la situazione ci piaccia o meno, sappiamo cosa gli altri si aspettano da noi.
Possiamo schematizzare in questo modo:





abbiamo un Sé contestualizzato, un Sé sociale ed un Sé interiore. Dalla loro intersezione ricaviamo la persona. Il Sé contestualizzato, o istituzionalizzato, rappresenta la posizione che occupiamo nel sistema; il Sé sociale è l'impatto che abbiamo sugli altri, le reazioni che suscitiamo; il Sé interiore garantisce la continuità delle caratteristiche cruciali del nostro essere e gestisce i cambiamenti degli aspetti più variabili. Quando parliamo di persona ci riferiamo a questa entità virtuale, situata nel centro di questi tre aspetti della nostra esistenza che essa cerca costantemente di controllare. Questi aspetti sono associati quindi sia ad un'interiorità, sia ad Sé corporeo (parte che si vede contesutalizzata e che è implicata nell'impatto che abbiamo sugli altri).
Questo è un tipo di descrizione della persona, sicuramente ce ne sono tanti altri, ma oggi discuteremo di queste caratteristiche, che insieme approfondiremo. E per fare questo, dovrete suddividervi in 5 piccoli gruppi, ognuno dei quali tratterà l'argomento secondo un particolare punto di vista. La domanda che viene posta a tutti è: come definiamo la persona? In quali condizioni si può perdere l'attribuzione di essere persona, temporaneamente o stabilmente?
Al primo gruppo sta il compito di riflettere sul concetto di attività, o azione, in rapporto alla persona (o alla non-persona); il secondo gruppo può focalizzarsi sull'idea di coinvolgimento e di impegno; il terzo gruppo è sul concetto di desiderio; il quarto si concentrerà sull'apprendimento, sui cambiamenti e su ciò che invece resta identico nel nostro essere persona; il quinto gruppo, infine, tratterà le emozioni.
Ricapitolando, abbiamo 5 argomenti di discussione:

  1. -azione
  2. -coinvolgimento
  3. -desideri
  4. -apprendimento
  5. -emozioni

Il focus di ogni gruppo è solo un suggerimento, potete includere anche altri aspetti, ma è importante riuscire a pensare attorno alle condizioni che determinano il nostro e l'altrui essere persona.

Cominciamo dal primo gruppo: azione”.

Primo gruppo: “Non sappiamo come sia andata agli altri gruppi, noi non abbiamo molte risposte, ma sicuramente altre domande. L'ultima domanda che ci siamo posti è stata se l'attribuzione di essere persona sia una condizione che viene persa perché qualcuno non ti riconosce più questo stato o se sia possibile privarsi da soli dell'essere persona.
L'altra domanda era legata al concetto di azione: si parla di azione o di interazione? Ci siamo chiesti se io mi considero persona solo se qualcuno mi riconosce come tale, se fin da piccolo mi hanno sempre riconosciuto questo stato. Dicendola in altri termini se qualcuno mi ha sempre riconosciuto “altro”. Se per qualche ragione questa situazione viene a mancare, anche io perdo i miei confini di persona; se gli altri cominciano ad ignorarmi, sostanzialmente una delle possibilità su cui stavamo discutendo era che il mondo diventa alieno a me, ma soprattutto che il mondo mi consideri alieno a sé. Dunque sono gli altri che smettono di agire, forse non per volontà, ma per dimenticanza o per un mancato totale riconoscimento. Per quanto riguarda la domanda se io perdo il mio concetto di persona agendo su me stesso, siamo giunti alla conclusione che può essere, magari per tratti, per periodi di tempo; ci sono venuti in mente gesti molto rituali, come lavorare alla pressa in fabbrica o cose del genere, dove smetto di intenzionare le cose, smetto di essere io ad agire sul mondo”.



Secondo gruppo: impegno e coinvolgimento.
“Quando smetti di essere persona relativamente al coinvolgimento? Noi non sappiamo dare una risposta definitiva, ci sono molti aspetti da tenere in considerazione. Ma ci siamo trovati a condividere l'opinione che la parola 'coinvolgimento' rimanda ad un aspetto di essere con, quindi di tipo sociale. Smetto di essere persona perché agisco su me stesso oppure perché altri agiscono su di me? Smettiamo di essere persona quando gli altri non ci riconoscono come tale e quando ci tolgono l'intenzionalità, la possibilità di decidere, di scegliere. Quando una persona entra in manicomio, in una struttura psichiatrica, non ha più la possibilità di scelta perché c'è chi decide per lui. Non è più considerato e non si sente più persona perché non può interagire, non può avere un dialogo in un contesto paritario e basato sulla reciprocità, perché tutto ciò che dice può essere invalidato. E' un caso estremo dove ci immaginiamo che una persona non si senta più tale, o non venga così riconosciuta; non è più parte dell'ambiente che lo circonda”.

Prof. Kenny: “A volte non siamo liberi di comportarci come vorremmo, o come potremmo, è questo è dovuto a degli imperativi impliciti che regolano le nostre interazioni sociali.
Tempo fa ho avuto in terapia una famiglia, il cui problema principale, quello per cui si erano presentati, era il comportamento di uno dei figli. Il ragazzo, di 18 anni, è descritto come totalmente svogliato, incapace di prendersi degli impegni. Negli ultimi due anni ha avuto frequenti crisi, dentro e fuori casa, maturando nei genitori la necessità di una terapia famigliare. Quando mi trovo di fronte al ragazzo gli chiedo quale sia il problema, ma lui risponde che non ne ha idea, non sa nemmeno se realmente esista un problema. Quindi il disagio è più dei genitori che del diretto interessato; spesso muovono delle critiche al modo di vivere del giovane. Il padre riferisce che al ragazzo manca volontà, problema che del resto capisce molto bene, dato che lui stesso fa molta fatica ad adempiere agli impegni lavorativi, che vive come un grosso peso. La madre, dal canto suo, lamenta aspetti diversi, come il ruolo poco educativo rivestito dal marito; infatti, due anni prima, ha fumato marijuana assieme al figlio. Questo evento rappresenta per la madre l'origine di tutti i problemi, infatti l'uso di droghe leggere non si è limitato a quell'episodio.
Si nota subito che la descrizione del problema è differente per ogni componente della famiglia. Proseguendo l'indagine, si scoprono ulteriori divergenze di opinione: per la sorella maggiore il problema del fratello sono le ripetute bocciature a scuola. Il ragazzo ha 18 anni ma frequenta ancora la prima liceo (per la quinta volta). Il problema viene affrontato e definito in molti modi differenti, ed il tempo di esordio dei disturbi viene fatto risalire a periodi sempre precedenti (problema attuale per il padre, due anni fa per la madre, cinque per la sorella). Seguendo a ritroso la storia della famiglia si scoprono cose interessanti. Il nonno paterno viene descritto dal padre come un uomo “grande”, un politico rispettato ed amato; il bisnonno paterno come un uomo ancora più “grande”, anch'esso di grande successo e degno di ammirazione. Il padre del ragazzo, invece, si descrive come un uomo “normale”.
Inizia a delinearsi l'ipotesi di un ruolo che le figure maschili di questa famiglia devono assumere attraverso le generazioni, ruolo che contiene in sé un impegno da mantenere: “non essere migliore di tuo padre”. Ogni figlio deve guardare al proprio genitore e stare bene attento a non fare mai, nella propria vita, meglio di lui. Alla fine di questa scala generazionale troviamo il ragazzo, che per adempiere a questo compito, si guarda bene dall'ottenere alcun successo, rispettando l'impegno paradossale (e transgenerazionale) di non essere migliore del proprio padre.
Ma torniamo ai nostri gruppi. Il terzo gruppo doveva riflettere sui desideri.”

Terzo gruppo: “Abbiamo pensato al desiderio come un modo di mettersi in relazione, con qualcuno o con qualcosa. Ci siamo domandati se possa esistere assenza di desiderio e la risposta alla quale siamo giunti è che non può essere possibile. Una totale assenza di desiderio si potrebbe avere in uno stato di perfetto equilibrio, condizione che un organismo, in modo particolare una persona, non raggiunge mai. Un'altra domanda che ci siamo posti riguarda l'origine del desiderio: esso nasce solo ed unicamente da una mancanza o può generarsi anche da uno stato di appagatezza?”

Quarto gruppo: concetto del cambiamento.
“Quando una persona perde lo statuto di individuo? Questo può derivare da un isolamento, sia esso volontario, oppure dato dal contesto nel quale è inserito. L'aspetto più preoccupante è che, a far perdere lo status di persona, possa essere la passività. Un esempio potrebbe essere quello di noi studenti, del nostro atteggiamento nell'apprendere le nozioni e nei confronti dei docenti. Viviamo spesso il percorso universitario in uno stato di passività, perdendo la nostra autonomia e, in sostanza, la nostra essenza. Ribellarsi a questa situazione significherebbe una nostra maggiore attività, ma allo stesso tempo, una maggiore consapevolezza della nostra reale dipendenza da qualcuno”.

Quinto gruppo: emozioni.
“Cosa caratterizza l'essere persona in rapporto alle emozioni? Vivere e riconoscere le proprie emozioni, in primo luogo; poterle condividere con altre persone e saperle riconoscere anche in chi abbiamo di fronte, quindi essere capaci di empatia. Come si perde la caratteristica di essere persona? Cosa accade quando sembra che una persona non provi emozioni? Abbiamo provato ad immaginare quelle situazioni in cui l'emozione sembra non essere presente oppure non corrisponde a quella attesa, o immaginabile dal contesto. Nel caso di un individuo che agisca sentimenti distruttivi verso altri, è ancora considerato o considerabile persona? Forse una persona perde la caratteristica di essere persona quando perde il senso delle proprie emozioni; forse togliamo agli individui lo status di persona quando non riusciamo più a significare le loro emozioni”.

Prof. Kenny: “Altri due temi che volevo brevemente introdurre sono quello dell'anticipazione e quello dell'autocoscienza.
Quotidianamente mettiamo in pratica il lavoro di anticipare, sia che si tratti della nostra posizione nei confronti di altre persone, sia che l'anticipazione riguardi alcuni aspetti della nostra interiorità. Nel clima dell'incontro costantemente anticipo il mio stato interiore, il mio probabile modo di reagire agli eventi e di interpretarli. Costantemente anticipiamo gli eventi per sapere come comportarci e per garantire la coerenza con noi stessi. La razionalità ci aiuta a riesaminare le situazioni, a mettere in discussione i nostri atteggiamenti, a chiederci se abbiamo fatto bene o male. L'autocoscienza è importantissima per formare la vita interiore; quando ci viene chiesto di fare chiarezza su alcuni aspetti del nostro modi di porci nei confronti degli altri, utilizziamo l'autocoscienza per ordinare gli eventi e i nostri atteggiamenti in modo più chiaro. Ci fermiamo a riflettere sulla nostra coerenza interiore, su eventuali comportamenti che contraddicano il nostro usuale modi di essere; l'importante è rendersi conto di tali incongruenze e pensare al perché, riuscire a verbalizzarle. La verbalizzazione ci permette di restare in contatto con l'ambiente e con le persone che ne fanno parte, di essere “in sintonia”; quando la verbalizzazione viene a mancare si hanno subito delle conseguenze nel campo relazionale. Poniamo il caso di una coppia marito e moglie: se il marito (o la moglie) non è più disposto a dare spiegazioni del proprio comportamento, sicuramente la moglie (o il marito) avanzerà delle proteste, o vivrà questa situazione come spiacevole e problematica. In un rapporto, di qualsiasi tipo esso sia, la reciprocità è fondamentale.
Qualcuno prima ha fatto l'esempio di una persona in coma; questo è un esempio interessante riguardo la reciprocità. Nel caso di una persona che abbia subito un incidente e sia ricoverata in ospedale in stato comatoso, da giorni o settimane, si notano chiaramente gli sforzi dei famigliari nel continuare a considerare il loro congiunto una persona. Si comportano come se la persona fosse lucida e presente, parlano come se potesse partecipare realmente ad una conversazione; in loro è forte la speranza che, prima o poi, la persona si sveglierà e tutto tornerà normale. E' grazie a questa speranza che riescono a sopportare le condizioni attuali e a non privare il loro famigliare dello status di persona. Col passare del tempo, se le condizioni non variano, però, si assiste ad un cambiamento in questi famigliari e nel loro atteggiamento verso il malato, che diviene sempre meno persona, secondo un processo molto lento.
Altro esempio è fornito dalle persone sofferenti del morbo di Alzheimer: tutte le capacità vengono lentamente perse. Cominciano a parlare in modo strano, minando la possibilità di partecipare alle conversazioni; la possibilità di intenzionare le azioni non è più presente, persino le scelte più semplici rappresentano un enorme problema. I famigliari possono sostenere questo lento processo degenerativo, questa progressiva mancanza di logica, di desideri espressi, di comunicazione. Ma quello che difficilmente riescono a gestire è la mancanza di reciprocità, la mancanza di riconoscimento di fronte ai loro indiscutibili sacrifici o alla loro stessa identità; sembra, questo, un aspetto molto importante per sentirsi persona.
Tornando alla definizione di persona e di non-persona, in società spesso gli individui usano la lista di attributi che abbiamo prima delineato per considerare o meno chi hanno di fronte come una persona. Quando all'individuo iniziano a mancare alcuni tasselli, egli comincia a correre il rischio di perdere la propria posizione nella rete sociale. Basta una sola delle caratteristiche a mancare, per perdere anche le restanti, poiché sono reciprocamente interconnesse. In società le relazioni sottostanno ad un tipo di legislazione che è del tutto informale ma largamente condivisa; le diversità sono automaticamente allontanate, discriminate. E non si parla solo di discriminazioni razziali, come il colore della pelle o la religione professata, si tratta anche di altri tipi di divergenze, come ad esempio i deliri. Chi delira ha già fatto abbastanza per essere cancellato dal sistema, perché crea disagio, perché genera un impatto negativo sulla società. L'individuo viene connotato negativamente, situato fuori dalle leggi di conversazione, automaticamente posto al margine; anche nel caso in cui rimanga nella propria abitazione, e non in un servizio di cura, non avrà più la possibilità di partecipare alla vita sociale.
Quando anticipiamo, dobbiamo chiederci cosa gli altri vogliono da noi, come si aspettano che ci comporteremo, che tipo di emozioni vogliono che noi suscitiamo in loro. Vogliono essere tranquilli, contenti, eccitati, impauriti?
Tutti abbiamo una posizione nel sistema, anche fisicamente. Pensate all'abitudine comune di avere sempre lo stesso posto a tavola, in famiglia. Se un giorno ci sedessimo al posto di qualche altro famigliare, sicuramente questo comportamento desterebbe stupore, seguito da una esplicita richiesta di tornare alla condizione iniziale. Ci verrebbe chiesto anche di motivare il nostro comportamento.
La nostra posizione nel sistema è molto rigida, e non solo a casa; anche al bar, ad esempio, rispettiamo la nostra posizione nella rete dei rapporti sociali.
Quando pensiamo di cambiare qualcosa nel nostro comportamento, anche piccola o banale, dobbiamo pensare a quale impatto avrà sulle altre persone, anticipare i commenti o le osservazioni che ci verranno mosse per avere una risposta pronta e sensata. Gli altri si aspettano da noi delle spiegazioni che siano razionali, determinate da quella che è la nostra autocoscienza; in caso contrario saremo considerati perlomeno confusi, o poco coerenti, disorientati o sofferenti. E' esperienza comune a molti quella di utilizzare una serie di “etichette” da incollare alle persone, per giustificare comportamenti apparentemente privi di significato. Ed è facile essere accusati di far male alle persone, di essere poco razionali, di essere nel posto sbagliato, se non anticipiamo sempre l'impatto sociale che avremo con le nostre azioni.
Negli anni '70, a Dublino, facevo fare degli esperimenti ai miei studenti, chiedendo loro di girare per le strade della città facendo cose semplici ma stravaganti, per dimostrare quanto sia rigido il nostro modo di stare in relazione con gli altri. Uno degli esperimenti si svolgeva sugli autobus; a Dublino il biglietto si paga sul mezzo di trasporto e passa un addetto a ritirare il denaro. Gli studenti porgevano i soldi in un modo insolito, ad esempio sul dorso della mano invece che sul palmo. In fondo, la cosa non era poi così grave, i soldi sono sempre soldi, e l'unica cosa particolare era la posizione della mano, ruotata di 180°. In nessuna delle innumerevoli volte che l'esperimento è stato ripetuto il gesto è passato inosservato, sempre veniva fatto un commento o un'osservazione sulla stranezza del gesto; ma il tipo di commento era particolarmente interessante: c'era chi lo interpretava come uno scherzo, altri come una forma di insulto, altri ancora come una forma di disabilità fisica. Questo sta a dimostrare quanto siamo fossilizzati nel nostro modo di stare insieme, basta usare la propria gestualità leggermente fuori dagli schemi e subito verremo notati.”

Pubblico:
“ Lei oggi sta parlando di una persona che socialmente è ben adattata, e delle variazioni che questa persona potrebbe avere. La mia domanda è se, in questo tipo di pensiero, c'è spazio per un continuum tra la persona e la non persona. Ci sono delle persone poco adattate che paradossalmente lo sono, rivestendo un ruolo di antagonismo verso la società. Pensiamo al paradosso del matto, che non dovrebbe avere nessuna relazione con la società: in realtà, molto spesso, assistiamo ad una relazione di interscambio. Mi chiedo se c'è un continuum fra la persona socialmente ideale e la non persona.”

Prof. Kenny: “E' una buona domanda. Secondo te, nella tua esperienza, c'è un continuum?”

Pubblico: “Sì, però mi rendo conto che parto anche da presupposti leggermente diversi. Nel senso che, personalmente, anche se agisco come persona socialmente ben adattata, pongo poca attenzione alla società. Allora la risposta che le darei sarebbe da un punto di presunzione, per questo lo chiedo a Lei.”

Prof. Kenny: “Allora partiamo dalla considerazione di cosa significhi essere matto: essere matto, per me, vuol dire essere senza risorse, non avere la capacità di assumere una posizione all'interno di una conversazione, non avere la facoltà di avere un impatto sugli altri e di avere un senso interiore di sé stesso. Se io solo avessi una persona con la quale condividere il mio particolare modo di essere, allora non sarei considerato matto. Essere matto vuol dire cadere fuori da tutte le reti che ci permettono di essere in connessione con le altre persone. Quindi la prima considerazione è quella di avere una rete di risorse, senza la quale è facile essere etichettati come matti.
Torniamo ora brevemente sugli aspetti (sé contestualizzato, sé sociale, sé interiore, sé corporeo) che caratterizzano l'essere persona. Voglio farvi un esempio per chiarire il modo in cui ciascuno di questi aspetti influisce sugli altri.
Conoscete l'antico gioco cinese sasso-carta-forbice? L'esempio che vi sto per fare segue la stessa logica di questo gioco ma riguarda le tecniche di gioco utilizzate dai tennisti.






Bjon Borg era molto forte su tutte le superfici di gioco; aveva un top spin micidiale che dava un effetto particolare alla palla che arrivava sempre sui piedi dell'avversario. Questo giocatore vinceva sempre contro Mc Enroe il quale, essendo abituato a giocare sempre sotto rete, si trovava spiazzato. Mc Enroe, a sua volta, con questo stile, vinceva sempre contro Jimmy Connors, famoso per i suoi passanti, che a nulla valevano con una rete coperta con il tipo di gioco adottato da Mc Enroe. Chiudendo il giro, Connors creava problemi al gioco di Borg, il quale giocava a fondo campo e rimaneva spiazzato dai suoi colpi piatti. Si può fare un paragone tra l'esempio che vi ho appena fatto e i vari aspetti della persona che abbiamo trattato in precedenza. Pensiamo al sé sociale: questo sé ha un impatto particolare sugli altri, e in certe situazioni può avere degli effetti negativi sul sé interiore (ad esempio, situazioni imbarazzanti che ci mettono in difficoltà). Il sé interiore, a sua volta, influenza i nostri comportamenti, cioè il nostro sé corporeo. Se prima apparivamo rilassati, ora saranno evidenti, nella mimica e nella gestualità, i segni del nostro imbarazzo, presto notati dai presenti. La situazione creatasi agirà nuovamente sul sé sociale, instaurando un circolo vizioso.”

(coffee break)

Prof. Kenny: “ Ci sono molte persone che dalla società vengono etichettate come matte.
In metropolitana a Roma, mi capitava sempre di incontrare una donna di 35, 36 anni circa, che era solita restare seduta in un angolo della carrozza, era molto alta e con sé portava sempre delle specie di sonagli. In quegli anni capitava frequentemente di assistere ad un afflusso, nelle metropolitane, di musicisti un po' di tutti i tipi, dagli zingari, ai chitarristi e così via. Un giorno arrivò, sulla carrozza dove mi trovavo, un gruppo di questi musicisti, forniti di fisarmoniche, che iniziarono rumorosamente a suonare le loro canzoni, riscotendo molto successo, tanto che le persone che viaggiavano, elargirono numerose offerte. La ragazza si trovava sempre nel solito angolo, rannicchiata e silenziosa.
I giorni successivi mi accorsi che la ragazza non si trovava più su quella carrozza, ma la vidi rispuntare dopo circa cinque giorni, nel solito angolo. A differenza di quello che mi aspettavo, quel giorno la ragazza si alzò repentinamente in piedi ed iniziò a cantare un canzone metà in lingua francese e metà in italiano, con un tono di voce incredibile, molto alto, simile ad un urlo. Cantò egregiamente, tutti i passeggeri le porsero delle offerte, lei raccolse il denaro, si alzò e si allontanò. Da quel momento in poi, la ragazza continuò a salire su quella carrozza, ma non per restare rannicchiata nel suo piccolo mondo, in quell'angolo inosservato, ma per far parte di un altro mondo, quello che la vedeva vestire il ruolo di una cantante.
Credo che questo esempio sia rappresentativo…voi cosa ne pensate?”

Prof. Mahraba: “Sono felice che tu abbia riportato questo racconto. Ci troviamo di fronte ad un fenomeno molto interessante: questa persona, facendo le stesse cose, anzi, assumendo dei comportamenti ancora più bizzarri di quelli che precedentemente era solita usare, è passata da un etichettamento sociale di pazza, a quello di cantante apprezzata. Nel momento in cui i suoi comportamenti ancora più strani, l'hanno mostrata agli occhi delle altre persone sotto una luce diversa, automaticamente il suo status sociale si è modificato.
Altra cosa: gli stessi comportamenti, le stesse modalità acquistano un senso diverso.
Esistono ancora luoghi, soprattutto nelle culture nord europee, in cui il cosiddetto schizofrenico è legittimato ad avere un determinato comportamento, perché ci si aspetta che lo abbia, e sarebbe strano che non lo avesse”.

Prof. Kenny: “Bene…ora parliamo del corpo.
Volevo usufruire di questo pomeriggio per considerare lo sviluppo che l'idea del corpo ha avuto nel corso della storia. Pensiamo ai cambiamenti che ci sono stati negli ultimi duecento anni, per poter capire cosa effettivamente è accaduto al valore che la società attribuiva all'immagine.
Io sono solito distinguere quattro fasi. La prima è quella che io chiamo “fase di autonomia”: è una fase pre-moderna, nella quale esistevano solamente dei gruppi di persone che lavoravano insieme per poter vivere autonomamente. Venivano prodotti cibo, materiale per poter lavorare, e tutto il necessario per poter provvedere al fabbisogno generale. Inoltre era previsto anche il baratto, attraverso il quale ci si poteva procurare, attraverso lo scambio, quello di cui si era sprovvisti.
Stiamo parlando di una realtà estremamente importante, all'interno della quale il corpo ha assunto un valore centrale: l'individuo è “proprietario effettivo”sia del modo di produrre quella determinata cosa, che del prodotto stesso; è questo un processo di autonomia materiale per quel gruppo di persone, che contempla anche la possibilità di poter vendere oltre che di produrre.
Nella seconda fase, che io chiamo “moderna”, non si è più proprietari del modo di produrre una determinata cosa; esistono le fabbriche, nelle quali si va a lavorare. Il singolo individuo è libero di vendere il proprio lavoro ad una fabbrica; una volta però fatta questa scelta, egli diventa una specie di schiavo del proprietario della fabbrica, e perde la sua autonomia effettiva.
Nascono da qui i processi di industrializzazione, di produzione di massa, che assicurano al singolo cittadino un posto dove investire le proprie energie lavorative.
La terza fase è quella che ha interessato gli ultimi trenta, quaranta anni, in cui c'è stato un incremento della produzione di qualsiasi genere di materiale, che ha portato all'etica del consumismo, secondo la quale per essere parte attiva della società, non è più sufficiente il tipo di partecipazione protagonista della seconda fase, ma è necessario possedere tanti mezzi e altrettanto denaro per comprare sia l'indispensabile che il superfluo.
Procediamo quindi verso l'ultima fase, che io chiamo “fase post-umana”. Perché post-umana? Perché ritengo che ora come ora la società inizi a nutrire idee alquanto strane e distorte sul corpo.
Esso viene considerato come un oggetto a tutti gli effetti, un accessorio da porre di fronte all'attenzione degli altri, come un bene di consumo. Mi riferisco all'uso esagerato che si fa della chirurgia plastica, e all'idea sottostante che è possibile modificare radicalmente e quindi destrutturare il corpo, per sottostare ad un modello ideale di figura, proposto dalla società di cui si fa parte. Le persone hanno ora la possibilità di apportare delle modifiche a parti del corpo che non vanno bene, per poter diventare magicamente più interessanti e più in vista agli occhi degli altri, spendendo un mucchio di soldi per interventi chirurgici che non sono necessari da un punto di vista biologico. Ci sono tantissime persone che in tutto il mondo spendono fior fior di quattrini per affrontare gli interventi chirurgici, ma non mi riferisco a chi affronta un intervento isolato, parlo di pazienti che si sottopongono alle operazioni per 10, 50, 100, 200 volte; pensate che addirittura in America, alcuni soggetti sono stati inseriti in una sorta di lista nera, ovvero un elenco che avvisa i medici di non intervenire più su quelle persone, in quanto hanno subito già troppi interventi.
Arriviamo ad un interrogativo molto importante: “Cos'è una persona?” Se inizio a cambiare parti di meche non sono più di mio gradimento, a che punto smetto di essere una persona?
Non stiamo parlando di persone che subiscono interventi chirurgici necessari da un punto di vista medico, che affrontano degli interventi, oppure dei trapianti, utili per la sopravvivenza; parliamo di chi si fa operare perché considera il proprio corpo come un vero e proprio accessorio, un oggetto che è volubile alla moda. Cambia la moda, cambia anche l'accessorio. Questo purtroppo è un atteggiamento che sta diventando dominante nella cultura odierna, dove il corpo, invece di essere un costituente cruciale della fenomenologia della persona, è uno strumento collaterale. Vi ho portato delle fotografie, per farvi vedere volti di pazienti, prevalentemente americani, che hanno modificato i loro lineamenti per poter assomigliare a personaggi famosi, o a divi hollywoodiani. Una signora ha persino venduto la sua casa e tutto quello che aveva, per pagare numerosi interventi di chirurgia plastica.
Recentemente abbiamo sentito il caso dell'uomo che si è fatto trapiantare una mano e dopo un anno ha deciso di farsi asportare lo stesso arto, perché non lo sentiva “suo”. Questo ci porta a riflettere su quanto un cambiamento fisico, influenzi l'immagine corporea che ognuno di noi ha di se stesso; un cambiamento fisico quindi, può portare ad un cambiamento conseguente dell'identità mentale? Oppure,un agito può modificare quello che è “all'esterno di noi”, ma non quello che regna all'interno? Quanto resta la nostra individualità là dove la società ci espropria del nostro corpo, inserendola in modelli che essa stessa ha creato?
Non parlo solo di modelli estetici. Pensiamo alle aziende, soprattutto a quelle che hanno a che fare con il pubblico. Esse mettono a disposizione dei dipendenti dei corsi attraverso i quali viene insegnato loro a “modulare” le proprie emozioni (attraverso quindi l'espressività corporea..), per avere il miglior impatto possibile sul cliente. Esiste una sorta di mercificazione di noi stessi, per arrivare a portare ai massimi livelli il nostro lavoro, o il nostro operato. Lo scambio quindi tra corpo e soldi è diretto! Esistono allora veri e propri sistemi di controllo impostati dalla società, sia per il nostro corpo che per le nostre emozioni? Se così fosse, ci troveremmo in una situazione molto grave.
Siamo arrivati alla conclusione, ringrazio Maria Armezzani, per avermi dato questa opportunità di confrontarmi con voi.”



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