Grandi Voci
 


Estratto da
"La sfida dell'altro. Le scienze psichiatriche in una società multiculturale"
(Marsiglio Editori, Venezia) -1999-
  • Pubblicato con il permesso dell'autore -



PERSONA, STRUTTURA E STORIA
Riflessioni storico-epistemologiche

di Mario Galzigna*




“La malattia dell'uomo normale è la comparsa di un'incrinatura nella sua fiducia biologica in se stesso (…). L'uomo detto sano non è dunque sano. La sua salute è un equilibrio che egli riacquista su fratture incoative. La minaccia della malattia è una delle componenti costitutive della salute”
(G. CANGUILHEM, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino 1998, p.249)



PRIMA PARTE

I. RADICI
        
N
el linguaggio corrente l'aggettivo vulnerabile, se non è riferito al corpo, indica la fragilità psicologica di una persona: e si dice, solitamente, che qualcuno è o diviene vulnerabile sia perché colpito o stressato da avvenimenti, da stimoli esterni, sia perché, per sua natura, per sua costituzione, non sa o non riesce ad affrontare le prove e le difficoltà della vita. Questo duplice registro eziologico - presente nel buon senso comune ed applicato anche all'organismo biologico - è stato sviluppato dalla medicina greca classica per studiare le cause della malattia: già con Galeno, vissuto nel secondo secolo dopo Cristo, cause esterne (dieta, regime di vita, ambiente fisico e sociale) e cause interne (cioè fattori geneticamente determinati come il temperamento e le predisposizioni patologice di carattere organico), concorrono a produrre la malattia. Una prospettiva, come diremmo oggi, olista e multifattoriale, appartiene dunque alle origini del sapere medico occidentale.
Sfruttando la grande fioritura settecentesca del vitalismo medico-biologico, l'alienistica nascente, nei primissimi anni del XIX secolo, riprende e riarticola questa prospettiva, a partire dalla figura di Philippe Pinel, padre fondatore della clinica psichiatrica moderna.
Giovanni Stanghellini, psichiatra di scuola fenomenologica, rivaluta a più riprese, in un saggio recente, la rottura epocale introdotta da Pinel. La sua ricca esplorazione prende le mosse proprio dal nome del primo alienista della Salpêtrière. Sentiamo: “Così come ogni uomo va in cerca di un padre, ogni pensiero va in cerca di una tradizione”. Ed in psichiatria questa ricerca di una tradizione antropologica, “questa ricerca del padre, ci conduce alle soglie dell'Ottocento, alla rivoluzione borghese, e al cittadino Philippe Pinel”. [1]
Dopo aver dedicato, a partire dal 1980, molto lavoro di carattere storico ed epistemologico alla nascita della psichiatria moderna, sono diventato un convinto assertore dell'importanza strategica della rivoluzione pineliana, ora ribadita anche da Stanghellini.
Risalgono infatti a Pinel – ma anche e soprattutto, occorre aggiungere, al suo erede, il grande Esquirol, inventore della monomania – un nuovo punto di vista sulla follia ed una straordinaria lezione di metodo, che ogni psichiatra, credo, dovrebbe rimeditare: la follia non è quasi mai totale, non annichilisce quasi mai interamente la ragione umana. La follia – ed il suo fenomeno più direttamente visibile, il delirio – è parziale. Rimane sempre vivo, nel folle, come dirà Hegel, attento lettore di Pinel, un resto di ragione: proprio puntando su questo resto, cioè sulla parte sana dell'io, è possibile comprendere, curare e guarire la malattia mentale.
Di più: la pineliana mania senza delirio - autentica invenzione concettuale, radicale rottura epistemologica rispetto al pensiero medico classico - rende accessibile al terapeuta anche un particolare tipo di follia: la follia che non è (o che non è soltanto) sragione; la follia che non coincide con il delirio, come pretendeva la tradizionale medicina mentis; la follia che lascia più o meno integre le facoltà intellettuali, sviluppandosi principalmente attorno a disordini di carattere affettivo e passionale. I folli, scrive Esquirol nella sua thèse di dottorato del 1805, “più o meno, ragionano tutti”. Ed ancora: “Non solo le passioni sono la causa più comune dell'alienazione, ma intrattengono con questa malattia e con le sue varietà dei sorprendenti rapporti di somiglianza. Tutte le specie di alienazione trovano la loro analogia e, per così dire, il loro tipo primitivo nel carattere di ogni passione”. [2]
Tra il normale ed il folle esiste insomma, sullo sfondo di una differenza quasi sempre percepibile, una strana e sotterranea continuità, che sembrò scandalosa a molti - medici, magistrati, moralisti - nel primo Ottocento, ma che oggi viene riconosciuta, da più parti, come condizione di possibilità della comprensione e della cura. [3]
La grande lezione della prima alienistica parigina non si limita tuttavia solo all'aspetto fenomenologico e nosologico del lavoro clinico – cioè alla descrizione dei vissuti e alla concettualizzazione dello stato morboso – ma si estende anche alle sue articolazioni di carattere terapeutico, a quell'epoca radicalmente innovative; il trattamento morale, proposto e praticato dai Pinel e dagli Esquirol, si fonda, perlomeno nella sua fase pionieristica, su due livelli fondamentali, tra loro correlati e indissociabili: da un lato i risvolti disciplinari e repressivi dell'istituzione segregante, dall'altro lato il dialogo, l'ascolto e l'empatia tra l'alienista e il suo paziente. Entro le mura dell'asilo, i successi del trattamento morale dipenderanno anche dalla capacità del terapeuta di “mettersi in armonia” – lo affermava Esquirol nella sua thèse - con “l'idea-madre”, con il nucleo generativo dei deliri di ogni paziente. [4]
Per realizzare questa armonia e per guarire il malato il ragionamento non basta. Occorrono “scosse morali”: è necessario agire sulle passioni e sulle emozioni dell'alienato, sapendo “quanto poco il ragionamento da solo, senza scossa agitatrice, sia capace di far tornare la ragione smarrita”. [5]
Il tutto, lo si è già detto, entro le mura dell'asilo: cioè nella cornice di un potere disciplinare specifico e capillare, che trova nel corpo e nell'anima del soggetto internato i suoi punti di applicazione. Infatti, la produzione di scosse morali e l'utilizzazione delle passioni - considerate, come recita il sottotitolo della thèse, “cause, sintomi e mezzi curativi dell'alienazione mentale” - non prescindono mai dal contenitore istituzionale che le rende praticabili ed efficaci. Nei testi inaugurali della psichiatria moderna questo legame essenziale viene lucidamente affermato: empatia e trattamento morale fondato sulla parola si accompagnano all'uso prudente della repressione e dell'apparato di forza – così lo chiama Esquirol – reso possibile dalla struttura e dall'organizzazione interna dell'asilo. Per avviare il dialogo ed il conseguente traitement moral, è necessario placare il folle – ad esempio il furioso o il maniaco - sia attraverso efficaci mezzi di repressione e di controllo (l'uso degli infermieri, la cella d'isolamento, un sistema di premi e di punizioni), sia attraverso particolari strumenti di contenzione e di dissuasione (docce calde o fredde, sedia rotatoria, camicia di forza, letto di contenzione, manicotto contro la masturbazione, eccetera): strumenti oggi rimpiazzati, molto spesso, dall'azione sedante dei farmaci.
Scindere queste due istanze – il dialogo e la contenzione -, ed enfatizzare solo le componenti intersoggettive della relazione medico-paziente, significa occultare la vocazione istituzionale e disciplinare della prima alienistica; significa celebrare, entro una sterile mitologia del gesto umanitario e innovatore (Pinel, medico e filantropo, che toglie le catene ai folli), una sorta di retorica dell'atto terapeutico fondatore, talmente “democratico” e liberatorio da rendere meno importanti e meno appariscenti le sue stesse condizioni di possibilità, cioè le sue valenze autoriatrie e coercitive [6] .
Di questo travisamento storiografico sono responsabili studiosi come Marcel Gauchet e la psichiatra Gladis Swain. Nelle loro ricche e documentate indagini sulla psichiatria nascente e sulla thèse esquiroliana, il trattamento morale è stato visto soprattutto come aurorale processo di scavo nell'interiorità del folle. In questo approccio marcatamente ideologico, di ispirazione neo-liberale, si rischia di stravolgere la cifra originale e complessa di autori come Pinel ed Esquirol: alienisti attenti a sottolineare non solo l'aspetto dialogico del traitement moral, fondato sull'ascolto e sull'interazione emotiva, ma anche le sue valenze di potere e il suo contesto istituzionale. Il manicomio nascente – tassello essenziale della nuova dottrina- viene concepito, al tempo stesso, come macchina segregante, come apparato sicuritario e come “strumento di guarigione”. I maestri della Salpêtrière ci trasmettono dunque un'acquisizione metodologica tutt'altro che trascurabile: qualità della relazione terapeutica e sua appartenenza istituzionale non possono essere pensate separatamente. [7]
Insegnamento, questo, quanto mai vivo ed attuale: dovrebbero tenerne conto anche le recenti riformulazioni, in chiave fenomenologica, dell'incontro terapeutico come luogo dell'empatia (dell'Einfuhlung, dell'intuizione eidetica). L'enfasi sull'approccio empatico rischia infatti di trasformarsi in una vuota e fuorviante retorica se non si accompagna ad una valutazione critica della misura in cui la qualità di questo stesso approccio viene influenzata, oggi, almeno da due fattori: le caratteristiche del suo contenitore istituzionale e l'azione sedante del farmaco: nuova camicia di forza chimica, che può rendere inutile la misura segregativa e che sovente ottunde i sintomi, o li modifica, oppure – caso non infrequente – crea nuovi sintomi specifici, sia somatici che psichici. [8]
Alla cancellazione storiografica delle valenze di potere del trattamento morale, corrisponderebbe così la cancellazione ideologica delle valenze repressive e produttive dell'intervento chimico: con il risultato di far emergere una sorta di falsa coscienza dell'operatore, o, quantomeno, una pericolosa divaricazione tra le teorie espresse e le pratiche taciute.
Nell'ambito dell'alienistica, l'opzione storiografica non è mai neutra: il modo di interpretare la rottura pineliana esprime, lo si è visto, orientamenti di carattere politico e teorico. Non a caso, nella voce Follia/delirio scritta da Franco Basaglia per l'Enciclopedia Einaudi tutto il primo paragrafo viene dedicato a Pinel ed alla nascita della psichiatria. [9]
La lettura di Basaglia rappresenta il completo rovesciamento delle tesi di Gauchet e della Swain: l'asilo nascente è soltanto macchina dispotica, struttura emarginante, apparato repressivo. Le componenti dialogiche ed empatiche dell'incontro terapeutico vengono ignorate. Le categorie nosografiche, a loro volta, vengono interamente ricondotte a tecniche di controllo, di punizione e di esclusione che reificano il paziente, fino al punto in cui “la follia scompare nell'oggettivazione del delirio come infermità”.
Cercando la difficile strada di un equilibrio, per dirla con Norbert Elias, tra coinvolgimento e distacco, [10] abbiamo proposto una terza via, che vede nella maison de traitement, come si diceva, una dimensione segregativa e sicuritaria indissociabile dall'assetto epistemologico del nuovo sapere. Nella maison des fous del primo ottocento si realizza una mirabile sintesi tra due forme differenti di potere – il potere di sovranità e il potere disciplinare - che troveranno nelle società liberal-democratiche del XIX secolo un più vasto e più generale campo d'applicazione: da un lato, appunto, un potere repressivo, che limita, che interdice, che si impone come negazione e come esclusione; dall'altro lato un potere tutelare, dettagliato, regolare, previdente e dolce – così lo definiva Tocqueville in De la démocratie en Amérique – che attraversa le coscienze, che orienta, che produce, che si dispiega come affermazione e come investimento produttivo. Sovranità e disciplina, dunque, si integrano reciprocamente. L'asilo, perlomeno ai suoi esordi, non è più la prigione, poiché pretende di riabilitare, di trasformare e di guarire i soggetti. E' tuttavia un dispositivo che in una qualche maniera la trascende e la include. La prigione non è quindi, come voleva Basaglia, il vero ed unico volto dell'asilo: riferendoci, lo ripeto, all'asilo del primo 800, possiamo affermare, semmai, che essa ne rappresenta il vizio occulto, il registro meno appariscente, così come – e questo lo aveva colto lucidamente Tocqueville guardando al sistema carcerario americano - il dispotismo d'ancien régime rappresenta il vizio occulto ( versteckte Mangel, secondo la definizione del giovane Marx ) dello stato moderno, nato sulle ceneri della rivoluzione francese e dell'Impero. [11]
La percezione della psichiatria nascente come dispositivo capace di produrre questo nesso, apparentemente contraddittorio, tra coercizione ed ingiunzione, diventa così un formidabile supporto alla comprensione della nostra modernità politica.
Riprendendo le fila della precedente argomentazione storico-critica, potremmo dire, in ogni caso, che non basta abbattere le mura dell'asilo per eliminare il rapporto di potere. Contenzione e contenimento, oggi, passano anche attraverso sistemi di cura estranei alla pratica manicomiale: sistemi che possono essere iatrogeni, entro certe condizioni, almeno quanto lo era la maison des fous. Dalla camicia di forza chimica al setting analitico, è comunque impensabile una qualsiasi azione terapeutica che si svolga fuori da un intreccio ineludibile tra sapere e potere. Perdere di vista tale intreccio – sognando una impossibile simmetria, una irragiungibile reciprocità tra l'alienista e il suo paziente – significa, ancora una volta, portare acqua al mulino di una falsa coscienza dell'operatore. L'asimmetria costitutiva del rapporto terapeutico non viene meno neppure nel momento in cui si riconosca nel malato un soggetto, una persona; neppure nel momento in cui – come voleva Bateson, già nel 1951 – si ammetta che “il processo terapeutico induce un processo dinamico continuo nel terapeuta stesso”. [12]
Pretendere una piena simmetria ed una compiuta reciprocità vuol dire, molto semplicemente, uscire dal rapporto terapeutico o, nel caso della psicoanalisi, dal setting analitico tradizionale. Groddeck e Ferenczi, giova ricordarlo, sostennero la legittimità di un'analisi recirpoca: l'idea, così come emerge dalla loro Corrispondenza, [13] verrà poi riproposta e sviluppata da Ferenczi nel suo Diario clinico del 1932. [14]
La cornice di questa proposta innovativa – rimasta poi lettera morta nei successivi sviluppi della psicoanalisi ufficiale – era ancora scandita, in ogni caso, dalla relazione duale tra paziente e terapeuta.
In aperta rottura con l'ortodossia psicoanalitica si è invece sviluppata, in anni più recenti, la schizoanalisi di Deleuze e Guattari, concepita come “analisi militante”, che sceglie, quale punto d'applicazione, “i gruppi”, poiché “è qui che si dispone immediatamente di un materiale extra-familiare”. [15] Si tratta di “promuovere un'altra logica, una logica del desiderio reale, che stabilisca il primato della storia sulla struttura; un'altra analisi, svincolata dal simbolismo e dall'interpretazione”. [16]
Ma questa, lo si sa, è un'altra storia: ancora tutta da ripensare e da scrivere.

II. PERSONA

Nell'ambito della psicopatologia, la continuità tra ragione e follia, già tematizzata da Pinel, viene spesso ribadita e ridefinita anche attraverso l'utilizzo di un concetto elaborato da Edmund Husserl, all'interno della sua fenomenologia: il concetto di epoché.
L'epoché fenomenologica è la messa tra parentesi del mondo, “la sospensione volontaria del senso comune”, la “perdita dell'evidenza naturale”, il “disancoraggio dalla realtà consensuale”(p.187), dalla realtà condivisa da parte dei membri della comunità di appartenenza. L'eccessiva inclinazione o l'eccessiva resistenza all'epochè costituiscono “la condizione che predispone alla patologia mentale”. La stessa condizione che sta, secondo Husserl, alla radice dell'attività filosofica e, potremmo aggiungere, dell'attività creativa, è dunque una sorta di Giano bifronte: in bilico tra l'abisso della disintegrazione schizofrenica e lo spazio aperto del pensiero e della creatività. Sospendere il senso comune – problematizzare ciò che ci appare ovvio e scontato – può essere “un salutare esercizio di demistificazione”, e quindi una premessa necessaria ad ogni attività creativa e riflessiva, ma può anche condurci alla deriva psichica, alla perdita di contatto con la nostra realtà storica e culturale: perdita dell'ancoraggio, sradicamento, smarrimento dell'identità, derealizzazione, depersonalizzazione, egopatia, e quindi crisi della funzione costitutiva dell'Io, cioè della sua capacità di concettualizzare il Sé, gli altri e gli oggetti del mondo. Ma su questo ritorneremo.
Attraverso l'epoché, dunque – al tempo stesso strumento del pensiero, fonte della creatività e matrice della follia - la psichiatria fenomenologica riapre e ripensa “il campo problematico dei rapporti tra normalità e patologia”, già dischiuso, all'alba del XIX secolo, dagli alienisti della scuola parigina. Il folle – lo psicotico, lo schizofrenico – appartiene radicalmente all'orizzonte dell'umano: è anch'esso persona; persona, per dirla con Binswanger, con un suo modo specifico e irriducibile di essere-nel-mondo.
Al concetto di persona Stanghellini dedica particolare attenzione in tutto il suo libro, ma soprattutto nel sesto capitolo, dedicato alla psichiatria antropologica di Jacob Wyrsch. Stanghellini ha il merito di ridefinire rigorosamente il concetto psicopatologico di persona, in aperta polemica con il riduzionismo della psichiatria biologica, che vede nelle forme del disordine mentale pure e semplici entità naturali, astoriche, riconducibili esclusivamente ad alterazioni cerebrali o bio-umorali. L'attenzione alla persona vista come homo biographicus, come storia di vita, non può essere appiattita su opzioni ed atteggiamenti di carattere irrazionalistico, estetizzante, o filantropico. E' invece, come afferma l'autore, un “vincolo epistemologico”(p.15).
La sostanziale accettazione di questo approccio si accompagna tuttavia ad una perplessità di fondo, di carattere teorico e pratico: la persona – l'Io, la coscienza – ci appare talvolta, nella prospettiva fenomenologica della psicopatologia, come una realtà già data; potremmo dire, usando il linguaggio filosofico, come una realtà costituente e non costituita. [17]
Fuori dal gergo, voglio sostenere che per cogliere con pienezza l'attualità di una presenza occorre guardare ai modi, ai percorsi temporali, alle vicende (di carattere individuale, sociale, storico) che hanno reso possibile la formazione e la costituzione della persona concreta: quella stessa persona che il terapeuta incontra e cerca di comprendere e di guarire.
L'attenzione fenomenologica alla coscienza come intenzionalità, come campo della donazione di senso (Sinngebung) e quindi come attività costituente (o costitutiva), non può farci dimenticare la trama dei processi storici che l'hanno prodotta e costituita: cioè, per dirla sempre con Husserl - ed anche con Enzo Paci - la sua diacronicità, oltre che la sua genesi passiva e la sua costituzione passiva. [18]
All'altezza dei vertici problematici più radicali del pensiero husserliano, stiamo cercando di individuare l'implicita necessità di un'integrazione con l'approccio storico-genealogico. La coscienza, in quanto evidenza, nonostante la sua ribadita natura di fenomeno originario, trova in se stessa la sua ineliminabile storicità, la sua ineludibile diacronia. Scrive infatti Enzo Paci: “Il presente scopre in sé, ora, il passato reale che l'ha preceduto e ripresentifica e riconosce nell'origine attuale l'origine passata”. Ed ancora: “L'intersoggettività del presente, sincronica, trova in sé le reali strutture diacroniche precedenti che hanno permesso la presenza sincronica”. [19] Di qui, come dimostreremo più avanti, alla possibilità di pensare l'inconscio, il cammino – un nuovo cammino, filosofico e clinico - non è certo scontato, ma non è neppure impraticabile, sotto il profilo di una teoria fenomenologicamente fondata.
La storicità, come afferma Husserl in Krisis, “è il mondo circostante delle cose della cultura (…) è il mondo dei prodotti tramandati, dei risultati di passate attività”. E “ciò rende l'esistenza umana (…) un che di storico; l'esistenza umana è sempre un che di storico”. La “storicità”, dunque, “è già da sempre in atto (…), è appunto un che di generale che inerisce all'esistenza umana”. [20]
La nostra storicità, questo “mondo culturale”, questo “modo d'essere che è diverso in ogni epoca storica” – e che si configura sempre come una “tradizione” – “ha una propria struttura essenziale che può essere dispiegata attraverso un'indagine metodica ”. [21]
Ciò non significa ridurre l'umano alla sua costituzione passiva, alla sua determinatezza storica. La presenza, proprio perché “non si limita ad articolarsi nella totalità storica”, può tessere “un nuovo filo nell'ordito della cultura”, diventando fonte di “una nuova umanità” e di “una cultura di nuovo genere”. [22]
        Nel cuore della tragedia tedesca – in piena tirannide nazista – l'ultimo Husserl tematizza la possibilità di questo “slancio” verso il futuro (lo stesso che “animò tutte le imprese scientifiche”), fondato sulla consapevolezza e sul trascendimento della nostra storicità essenziale. L'Inno alla gioia di Beethoven diventa per lui la “testimonianza perenne” di questo spirito, di questo slancio creativo e costruttivo. “Oggigiorno quest'inno non può che suscitare in noi dolorosi sentimenti. E' impensabile un contrasto maggiore con la nostra attuale situazione”. [23]
        
La storicità del soggetto, che occorre conoscere attraverso un'indagine metodica, appartiene dunque alla sua stessa struttura; la storicità è tradizione, eredità già data, vincolo, ma è anche premessa e promessa di nuove libertà, progetto, “azione creativa”, costruzione di “un secondo grado dell'umanità”: presenza costituita che diviene storicamente - all'interno di quello che Husserl definisce “il secondo grado della storicità”, [24]- presenza costituente, spinta verso il futuro, intenzionalità. Come sintetizza efficacemente Enzo Paci, “l'intenzionalità, partendo dalla presenza, si dirige oltre la presenza riprendendo il passato e muovendosi verso il futuro”. [25]
        
I “filosofi del presente”, “ funzionari dell'umanità ”, [26] colgono, “a partire dagli uomini singoli”, [27] tutta la pienezza della presenza: intrisa di storicità, strutturata in forme specifiche, protesa verso il futuro. Una psicopatologia all'altezza dell'elevata temperatura etica delle pagine di Krisis non può permettersi di trascurare nessuna di queste tre dimensioni fondamentali. L'intuizione eidetica delle forme (figura del presente relazionale), colta anche attraverso il supporto di una indagine metodica di carattere storico (figura del passato, figura della sua rimemorazione), potrà produrre cura e guarigione (figura del futuro, figura del progetto terapeutico).

III. INTUIZIONE E CONOSCENZA

In armonia con le precedenti annotazioni, dobbiamo allora chiederci: come può l'intenzionalità terapeutica rivolgersi al mondo interno del soggetto malato senza conoscere i processi storici che lo hanno “costituito”? Giova forse ripeterlo: solo attraverso l'intuizione eidetica e l'Einfuhlung è possibile, entro una prospettiva husserliana, andare verso l'altro, immedesimarsi con l'altro, “conferire un senso” alla sua presenza. Ma questo movimento, su cui Stanghellini fonda la sua stessa prospettiva terapeutica (cfr. p.72), rischia di essere acefalo e scarsamente efficace senza un'indagine metodica, senza una conoscenza puntuale – di carattere storico-genealogico – dei percorsi e delle condizioni (familiari, sociali, culturali, istituzionali) che hanno reso possibile una certa strutturazione della persona e dei suoi disagi.
A questo livello, credo, ogni buon psichiatra dovrebbe riconoscere, con grande umiltà epistemologica, l'insufficienza di un itinerario monodisciplinare. In altre parole, proprio nella misura in cui l'approccio fenomenologico non riduce la persona ad ente naturale, astratto, astorico, ci sembra inevitabile che l'impresa terapeutica mobiliti altri saperi, capaci di restituirci, in tutta la sua articolata pienezza, lo scenario complessivo di un'esperienza individuale: penso alla psicoanalisi, alla storia, all'antropologia, alla sociologia, alle neuroscienze.
Entro tale svolta epistemologica, intuizione e conoscenza diventano complementari: intuizione e conoscenza dell'altro – in quanto destinatario dell'analisi e della pratica curativa – e di sè, in quanto osservatore, teorico e clinico direttamente coinvolto e continuamente modificato dalle qualità interattive del dispositivo terapeutico. Per quello che Gregory Bateson aveva definito lo psichiatra dinamico [28] – orientato verso una “consapevolezza riflessiva” dell'azione terapeutica - intuizione e conoscenza concorrono alla realizzazione di un ideale filosofico perseguito da non pochi grandi interpreti della cultura del nostro secolo: l'ideale di una “teoria unitaria” [29] (così la definiva l'indimenticabile Norbert Elias), di una scienza umana unificatrice, capace di trasformare ogni specialista – ogni psichiatra, ogni storico, ogni biologo – in un viaggiatore di frontiera. Con Bateson, con Elias, con Edelman, per non citare che loro. [30]
Su questa frontiera, credo – che è poi, al tempo stesso, la grande trincea della lotta contro l'alienazione e la sofferenza – dovranno misurarsi le scienze dell'uomo nel secolo a venire. Su questa stessa frontiera una psichiatria radicale, imperniata sulla persona, sulla sua storia e sul suo destino, potrà svolgere un ruolo insostituibile.
Rimane comunque problematica l'individuazione di una tattica adeguata ad una svolta teorica così radicale. Nell'ambito dell'alienistica, realizzare un approccio olista ed antiriduzionista al paziente significa, conseguentemente, ripensare e rinnovare – sviluppando le indicazioni di Fausto Petrella - sia il contenitore ed il setting in cui può svilupparsi una relazione terapeutica, sia i processi formativi dello psichiatra, ancor oggi troppo settoriali, parcellizzati e monodisciplinari.
La “restaurazione della soggettività”, in psichiatria, implica necessariamente, come afferma Eugenio Borgna, una ristrutturazione delle “aree istituzionali”, che dovranno essere “ribaltate in senso anti-istituzionale”. Se mutano gli approcci alla follia e se cambiano, ad esempio, “gli aspetti tematici della esperienza psicotica”, dovranno conseguentemente modificarsi anche “le articolazioni di una organizzazione istituzionale”. L'assetto istituzionale dovrebbe insomma diventare variabile dipendente della relazione terapeutica.
Occorre mettere a fuoco gli effetti iatrogeni dell'azione e dell'istituzione terapeutica, che strutturano, o perlomeno influenzano, le forme ed i contenuti della sofferenza psichica: che ci portano, quanto meno, a considerare la cronicità – ad esempio nel caso della schizofrenia – come un autentico artefatto istituzionale, [31] cioè come un vero e proprio “sinonimo dell'ospedalizzazione”. [32]
In questa prospettiva, la riflessione storica può essere funzionale ad un ripensamento critico della disciplina. Vediamo.
La struttura asilare segregante, pensata dai padri fondatori del primo 800 come strumento della guarigione, rivela, nell'arco della sua compiuta realizzazione storica – cioè nell'ultimo terzo del secolo XIX - valenze distruttive e patogene. Nella pratica e nei progetti di Esquirol, la popolazione asilare ottimale, non superiore alle 200 unità, non doveva internare né i folli ritenuti incurabili né i malati non assistiti, cioè privi del sostegno economico delle famiglie o del governo locale. Si prevedeva, per questi degenti, un periodo di ospedalizzazione non superiore ai due anni, poiché la prospettiva e la finalità dell'internamento era quella della guarigione e della conseguente dimissione. Non a caso, l'assetto teorico della prima alienistica lascia poco spazio al concetto di cronicità, che diventerà invece prevalente in tutta la cosiddetta psichiatria classica successiva. [33]
Fino a metà ottocento, la maison des fous viene pensata e fondata come struttura assistenziale - terapeutica e non produttiva - che può accogliere dai 200 ai 500 degenti. Nelle realizzazioni successive di fine secolo, che generalizzano il sistema del grand établissement, vengono costruiti asili destinati sia a malati curabili che a malati ritenuti incurabili: asili che diventano in realtà vere e proprie imprese agricole ad economia chiusa, con più di mille ricoverati, la maggior parte dei quali poveri e non assistiti, utilizzati come forza-lavoro a bassa produttività ed a bassissimo costo, che l'amministrazione non ha nessun interesse a dimettere. La lunga durata del soggiorno ospedaliero – il cui correlato nosografico diventa la diagnosi di cronicità – è dunque iscritta in condizioni materiali specifiche, che influenzano profondamente l'attività clinica e l'assetto teorico della psichiatria. Il soggetto internato, povero e non assistito, come si diceva, vive in un realtà asilare separata, che lo rende sempre meno reintegrabile, sempre meno adatto agli standard sociali e produttivi della vita urbana. Egli appartiene, in ogni caso – come ci insegnano le ricerche di demografia storica - ad una popolazione più longeva, che ha visto crescere, rispetto all'epoca di Pinel, la sua speranza di vita. E' in questo preciso contesto socio-economico ed istituzionale che si afferma la centralità epistemologica del concetto di cronicità: la patologia mentale cronica, dalla grande alienistica classica di fine secolo fino agli attuali DSM, è diventata l'asse portante della teoria psichiatrica. Ed “i clinici – come afferma Lantéri-Laura, allievo di Ey e di Minkowski – a partire da un certo momento, hanno descritto come un dato di natura la lunga durata media delle ospedalizzazioni”. Ed ancora: “Si assumono allora le condizioni di possibilità della vita economica degli stabilimenti per dati specifici della patologia mentale. I malati, in grande maggioranza, vengono osservati in una istituzione che può sopravvivere solo a patto che essi rimangano a lungo ospedalizzati; questa condizione viene occultata, ed il sapere teorico arriva ad affermare , al suo posto, che la cronicità è una caratteristica essenziale della psichiatria; la conoscenza dottrinale rimpiazza allora, e maschera, l'elucidazione delle condizioni concrete che, al tempo stesso, la rendono possibile e la determinano”. [34]
Certo: la ricerca clinica ha evidenziato forme di cronicità che si sviluppano anche in situazioni extra-asilari, cioè fuori dalle tradizionali dimensioni della segregazione manicomiale. Diventano insomma fattori cronicizzanti non solo certi trattamenti farmacologici, oppure interventi psicoterapici dannosi, [35] - molto spesso ispirati ad una sorta di ideologia della non-guaribilità e della irreversibilità naturale del processo schizofrenico ma anche condizioni familiari e situazioni sociali che confermano e rinforzano pesantemente i cosiddetti sintomi primari del soggetto sofferente. L'evoluzione cronica della schizofrenia – molto meno frequente nelle aree del sottosviluppo ed in culture preindustriali - non è insomma una fatalità costituzionale, un destino genetico universale, un decorso naturale inarrestabile. E', essa stessa, un prodotto sociale, un esito della storia individuale del soggetto e della storia sociale, collettiva e istituzionale che lo include: un artefatto istituzionale, quindi, ma anche un “artefatto sociale”, e perciò “una condizione - come è stato già detto - che si forma e si concreta storicamente” e culturalmente. [36]
        Le strutture della follia intrattengono dunque un rapporto preciso con le condizioni che ne consentono la decifrazione e la cura. Se questo è vero, occorre allora ripensare criticamente l'intero quadro teorico della psicopatologia, rinunciando a vedere, in quelle stesse strutture, icone disincarnate, modelli immodificabili, forme indifferenti al mutamento storico e alla differenza culturale. Nell'ambito della psicopatologia, si è parlato frequentemente di sintomo base, o di fenomeno base - come preferisce chiamarlo Stanghellini (p.26) -, oppure di sintomo primario: ad esempio di delirio primario. [37] Conseguentemente, si è attribuito ad ogni processo primario, ad ogni indicatore psicopatologico della vulnerabilità, l'attributo di primitivo, di inderivabile. Occorre, io credo, diffidare di questo impianto oggettivante, sempre esposto al rischio di una destoricizzazione e di una ricaduta nelle aporie del naturalismo.
All'interno di una visione dell'uomo concepito come “homo biographicus”, Stanghellini riconosce la necessità di inserire “l'evento 'psicosi' o, per meglio dire”, la “condizione di vulnerabilità, “nel contesto della storia di vita di colui che tale evento ha attraversato e che con tale condizione continua a confrontarsi” (pp. 72-73).
Ma questo riconoscimento non può essere privo di conseguenze. A partire, insomma, da questa inflessione storicizzante dell'analisi, sarà sempre possibile, di volta in volta, smontare e decostruire l'inderivabile - quello che Binswanger chiama l'apriori esistenziale della malattia - individuando gli elementi che lo compongono e i processi diacronici che lo hanno preparato. Di più: sarà sempre possibile, imboccata questa strada, mettere a fuoco i fattori istituzionali che influenzano la stessa configurazione della struttura patologica, le stesse modalità in cui si manifesta ogni disturbo dell'attività costitutiva dell'Io, ogni stabilizzazione che ha contribuito a renderlo cronico ed apparentemente irreversibile. Scavare la superficie della struttura – per meglio storicizzarla, per meglio coglierne la pregnanza semantica e la coerenza interna – significa spiare le sue increspature, mettere a fuoco la sua cifra individuale, svelare le sue zone d'ombra e le sue dimensioni implicite, riscoprendo, dietro la sua maschera irrigidita, il fluire segreto del desiderio e l'attesa inespressa del cambiamento: un cambiamento che potrà coinvolgere, in forme differenti, sia il paziente che il suo terapeuta.
L'indagine metodica sulla storicità, auspicata dallo stesso Husserl, diventa così uno strumento indispensabile per il clinico: l'intuizione eidetica, che lo avvicina al paziente rendendo possibile la cura, trova nella conoscenza storica un supporto fondamentale.
Il nostro tentativo di fondare filosoficamente una correlazione necessaria tra intuizione e conoscenza – si trattava, in questo caso, di una conoscenza di tipo storico - attende ancora una verifica empirica estesa e significativa, che realizzi la trasformazione di un'ipotesi teorica in una metodologia clinica.
In ogni caso, è stato già compiuto qualche passo, in una direzione analoga, da parte di psichiatri e di psicoanalisti che hanno utilizzato, ad esempio, le neuroscienze, ed in particolar modo la teoria della mente di Gerald Edelman: sfatando così il luogo comune che vede, in ogni approccio di tipo neurobiologico, un orientamento terapeutico reificante e necessariamente riduzionista.
Il caso di Arnold Modell sembra particolarmente significativo. Il concetto di memoria come ricategorizzazione – sviluppato da Edelman all'interno della sua teoria della selezione dei gruppi neuronali (altrimenti detta darwinismo neurale) – serve a Modell per superare la concezione, di matrice freudiana, relativa alla permanenza delle tracce mnestiche, recuperando invece una concezione dinamica – oserei dire proustiana – fondata sulla categoria della posteriorità (Nachträglichkeit), applicata dallo stesso Freud “all'idea che un ricordo venga ricopiato” e riattivato “per effetto di esperienze successive”. [38] La ricreazione di una memoria categoriale – processo che scandisce, nel paziente, la variazione del rapporto tra se stesso e il tempo – porta Modell a una diversa impostazione della relazione terapeutica, modulata soprattutto sulla possibile moltiplicazione dei livelli di realtà e sulla loro capacità, mutevole nel tempo, di riattivare vecchie immagini e di produrne di nuove. [39]
In questo caso, come si può constatare, l'ancoraggio al fondamento biologico – e alla sostanziale plasticità della matter of the mind rispetto all'influsso dell'ambiente e della storia - produce una visione dell'uomo molto distante sia da un innatismo fatalista sia da un determismo meccanicistico e riduzionista: una visione aperta, di conseguenza, all'uso della terapia come costruzione e rafforzamento di un Sè plurale, al tempo stesso “proteico” ed integrato, cioè portatore di nuove dimensioni dell'identità personale, di nuovi spazi di libertà soggettiva, riconosciuti ed attraversati sia dal paziente che dal suo analista. Il famoso racconto di Borges , La biblioteca di Babele – che ricalca i temi di una pagina filosofica di Jaspers – potrebbe rappresentare un'efficace metafora del Sè multiplo e plurale, visto come necessario complemento di un Io strutturato ed integrato. [40]
Tale impianto antiriduzionista contraddice il bilancio apocalittico di James Hillman, che assegna a tutte le “scuole terapeutiche” una sorta di vocazione liberticida: una vocazione che le porta a considerare il soggetto, attraverso “il gioco reciproco tra genetica e ambiente”, un effetto terminale, una “vittima”, un “mero risultato” dei determinismi che lo producono. [41]
La materia prima dell'attività mentale, secondo Modell, è la metafora, che si fonda sulla corporeità - percepita attraverso il tatto e le articolazioni - e quindi, per dirla ancora con Husserl, sul corpo proprio, sul corpo vissuto, sul Leib. [42] Questa concezione, che scopre nella metafora uno strumento creativo – uno strumento indispensabile, come voleva Roman Jacobson, lettore di Freud, ad ogni processo di simbolizzazione - viene sviluppata attraverso l'utilizzazione del modello “plastico” della memoria, caro ad Edelman: e la memoria, vista da Edelman come ricategorizzazione continua dell'esperienza individuale e del vissuto corporeo, rappresenta la base dell'attività metaforica e della stessa produzione artistica. Anche qui, il fondamento biologico gioca a favore di una maggior comprensione della storia del soggetto e delle sue esperienze individuali, e quindi delle sue possibilità espressive e creative. Il nostro corpo - la maniera di percepirlo, di viverlo, di “ricategorizzarlo” - rappresenta uno strumento indispensabile del pensiero. [43]
E' forse lecito pensare che l'attività terapeutica, supportata da queste acquisizioni provenienti dalle neuroscienze, potrebbe talvolta riorientarsi, superando l'impasse determinata – ad esempio nel setting psicoanalitico - dal predominio della parola, a scapito di una esclusione della dimensione corporea. La nostra, ovviamente, è solo un'ipotesi. La conoscenza dell'interazione tra corpo proprio e metafora – tra Leib e rappresentazione psichica verbalizzata – potrebbe, in altri termini, gettare nuova luce su alcune disfunzioni ideative, su alcune deformazioni deliranti, dando allo psicoterapeuta la possibilità di ricondurle, con relativa certezza, alla centralità del vissuto corporeo. Il delirio, dunque, come spia di un rapporto disturbato tra il paziente ed il proprio corpo. La successione, ovviamente, potrebbe essere rovesciata, rimanendo egualmente significativa: da un'anomalia percepibile (o intuibile) del vissuto corporeo alla comprensione di certe distorsioni rappresentative, oppure di un certo deficit della funzione metaforica.
In entrambi i percorsi, la conoscenza scientifica – in questo caso oggettivante ma non estraniante -produrrebbe un arricchimento qualitativo della relazione, aumentando le possibilità di un successo terapeutico. [44] La posta in gioco, qui, non può essere soltanto teorica: riguarda l'assetto complessivo di un sapere dell'uomo ed il suo inveramento nelle pratiche che lo rendono efficace e credibile. All'interno di
queste pratiche – cioè nella dimensione della clinica – scire per causas e scire per phaenomena trovano un fecondo terreno di integrazione: fatta salva, tuttavia, l'avvertenza epistemologica di affidarsi ad un modello di causalità circolare,
che include tra i fattori influenti (variabili nel tempo) anche lo psichiatra, cioè il soggetto capace di assumere, al tempo stesso, il ruolo dell'attore e quello dell'osservatore. L'alienista dinamico, di cui parlava Bateson, non è altro che questo. L'alienista statico, che pretende di mantenersi immodificato all'interno del processo terapeutico, sarà fatalmente portato ad assumere una postura estraniante ed a vedere nel malato un mero oggetto, una malattia, un'entità naturale ed astratta, fuori dalle vicissitudini del tempo e della storia.

Grandi Voci

N O T E
Dipartimento di Studi Storici, Università di Venezia.
Indirizzo e-mail: bio040@caronte.bio.unipd.it


1_ G. STANGHELLINI, Antropologia dellla vulnerabilità, Feltrinelli, Milano 1997, p.11. Nel testo, le espressioni o le frasi virgolettate prive di ogni riferimento sono prese da questo saggio ( ed è stata talvolta indicata, tra parentesi, la pagina citata ). Queste nostre riflessioni storico-epistemologiche – nate occasionalmente, a ridosso del saggio appena citato, e qui presentate senza nessuna pretesa sistematica - rappresentano una delle fasi preliminari di un lavoro di più ampio respiro, dedicato al tema dei rapporti tra coscienza, inconscio e storia.

2_ E. D. ESQUIROL, Delle passioni (1805), a cura di M. Galzigna, Marsilio, Venezia 1982, p. 141 e p. 73.

3_ Per una trattazione approfondita degli aspetti di carattere storico, rinvio a: M. GALZIGNA – H. TERZIAN, L'Archivio della Follia, Marsilio, Venezia 1980; M. GALZIGNA, La malattia morale. Alle origini della psichiatria moderna, Marsilio, Venezia 1992 (seconda edizione); M. GAUCHET – G. SWAIN, La pratique de l'esprit humain. L'institution asilaire et la révolution démocratique, Gallimard, Paris 1980. Si veda anche: G. LANTERI-LAURA, Psychiatrie et connaissance, Sciences en situation, Paris 1991; P. BERCHERIE, Les Fondements de la Clinique.I. Histoire et structure du Savoir psychiatrique, Ornicar?/Seuil, Paris 1980, e Les Fondements de la Clinique. II. Genèse des concepts freudiens, Navarin, Paris 1983; H. F. ELLENBERGER, La scoperta dell'inconscio, 2 volumi, Boringhieri, Torino 1976; P. PICHOT, Un siècle de psychiatrie, Synthélabo, Le Plessis-Robinson 1996; M. FOUCAULT, Storia della follia nell'età classica, Rizzoli, Milano 1976. Sul rapporto normale/patologico e sulla possibilità di definire la norma a partire dai suoi scarti, si veda il classico studio storico-epistemologico di G. CANGUILHEM, Il normale e il patologico (1943 – 1966), Einaudi, Torino 1998; all'interno dello stesso volume è stato inserito, come post-fazione, l'importante saggio di M. FOUCAULT, La vita, l'esperienza, la scienza, consegnato alla “Revue de métaphysique et de morale” nel 1984 (l'anno della morte) e pubblicato da quella stessa rivista nel 1985 (n.1, gennaio-marzo 1985), con il titolo L'expérience et la science.

4_ E. D. ESQUIROL, op.cit., p. 141.

5_ Ivi, p.148.

6_ Secondo la Swain, Pinel che toglie le catene ai folli diventa l'eroe dell'umanesimo repubblicano, e la sua azione terapeutica scandisce l'irruzione dei diritti dell'uomo (sic!!!) entro le mura dell'asilo (G. SWAIN, Le sujet de la folie, Privat, Toulouse 1977, pp.119-171). Ho già dettagliatamente analizzato e confutato questa interpretazione, che sottovaluta la componente sicuritaria e disciplinare del trattamento morale (M. GALZIGNA, La malattia morale, cit., pp.129-135): un'interpretazione fortemente ideologizzata, che si collega direttamente al dibattito politico-ideologico d'Oltralpe, nel quale – già sul finire degli anni 70 – si stava verificando una ripresa del pensiero neo-liberale, incentrato sulla problematica dei diritti dell'uomo e su una rilettura orientata di Constant e di Tocqueville. In questa congiuntura ebbero un certo peso il revisionismo storiografico di Francois Furet, i lavori di Marcel Gauchet e riviste come “Le débat” (tuttora in vita: diretta di Pierre Nora ed animata dallo stesso Marcel Gauchet). In questa nouvelle vague neo-liberale, uno degli avversari da sconfiggere (spesso in maniera non scoperta) era sicuramente Michel Foucault e, con lui, tutto il pensiero critico europeo incline ad analizzare il rovescio dispotico della ratio democratico-liberale (dalla scuola di Francoforte all'antipsichiatria, da Habermas alla filosofia di Gilles Deleuze).

7_ “Un ospedale di alienati è uno strumento di guarigione”, afferma E. D. ESQUIROL (Des maladies mentales, Bruxelles 1838, t. II, p. 144). Al ruolo curativo dell'istituzione manicomiale in Pinel accenna correttamente anche G. STANGHELLINI, op.cit., p. 45. Sulla problematica attuale della correlazione tra istanza terapeutica e contenitore istituzionale, si veda il recente scritto di F. PETRELLA, Intervento farmacologico vs intervento psicologico: la questione dell'integrazione, in “BioLogica”, 1998 (in press) e nella rivista on line “Polit” (Psychiatry on Line) 1998 (
http://www.publinet.it/pol/ ). Sulla stessa problematica cfr., sempre di F. PETRELLA, Turbamenti affettivi e alterazioni dell'esperienza, Cortina, Milano 1993, pp. 405-528.

8_ Si veda – tra i non pochi esempi possibili - l'induzione farmacologica della distonia cinetica (chiamata anche parkinsonismo iatrogeno), in: G. KUSCHINSKY – H. LULLMANN, Farmacologia e tossicologia, Piccin, Padova 1998, p. 317 e sgg.

9_ Volume sesto, 1979, ora in: F. BASAGLIA, Scritti,Einaudi, Torino 1982, vol. II, pp. 411-418.

10_ N. ELIAS, Coinvolgimento e distacco. Saggio di sociologia della conoscenza, Il Mulino, Bologna 1988.

11_Su questo si veda l'importante analisi di A. FONTANA, Il vizio occulto. Cinque saggi sulle origini della modernità, Transeuropa, Ancona – Bologna 1989, pp. 49-83. Sul rapporto tra sovranità e disciplina cfr. A. FONTANA, Polizia dell'anima. Voci per una genealogia della psicanalisi, Ponte alle Grazie, Firenze 1990 (in particolare pp.116-133). Le “voci”, già uscite nell'Enciclopedia Einaudi, sono: Angoscia/colpa, Castrazione/complesso, Censura.

12_ Per il riferimento bibliografico si veda la nota 28.

13_ FERENCZI – GRODDECK, Corrispondenza (1921 – 1933), Astrolabio, Roma 1985, pp. 62 – 69.

14_ S. FERENCZI, Diario clinico (1932), Cortina, Milano 1988, pp. 59 – 65.

15_ Cfr. F. GUATTARI, Una tomba per Edipo, Bertani, Verona 1974, p. 366; ma si veda soprattutto: G. DELEUZE – F. GUATTARI, L'anti-Edipo, Einaudi, Torino 1975.

16_ Così F. GUATTARI, in “La quinzaine”, 30 giugno 1972. Una prosecuzione della “schizo-analisi” proposta da L'anti-Edipo la troviamo in un'opera uscita a Parigi nel 1980: G. DELEUZE – F. GUATTARI, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Enciclopedia Italiana, Roma 1987, 2 volumi.

17_ Su questa critica, e sul rapporto tra coscienza costituente e coscienza costituita, si veda: H. EY, La conscience, PUF, Paris 1963 e, tra gli psicopatologi italiani, B. CALLIERI, Percorsi di uno psichiatra, Edizioni Romane, Roma 1993, pp.149-166. Sul rapporto fenomenologia-genealogia e sul rapporto Husserl-Foucault si veda: Conversazione con Michel Foucault , in “Il Contributo”, gennaio-marzo 1980, pp. 23-84; M. FOUCAULT, Malattia mentale e psicologia, Cortina, Milano 1997, in particolar modo pp.51-65; M. FOUCAULT, Introduction, in: L. BINSWANGER, Le Rêve et l'Existence, Desclée de Brouwer, Paris 1954, pp. 9-128 (si veda anche l'edizione italiana: L. BINSWANGER, Il sogno e l'esistenza, Introduzione di Michel Foucault, SE, Milano 1993); H. DREYFUS – P. RABINOW, La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, pp. 55-61. Personalmente, ho cercato, commentando Binswanger, una via d'uscita all'antagonismo tra fenomenologia e genealogia: cfr. M. GALZIGNA, Le strutture della presenza (il saggio compare come introduzione a L. BINSWANGER, Il caso Suzanne Urban. Storia di una schizofrenia, a cura di E. Borgna e M. Galzigna, Marsilio, Venezia 1994, pp.23-54). Sul tema cfr. anche G. LEBRUN, Notes sur la phénoménologie dans Les Mots et les Choses, in AA. VV., Michel Foucault philosophe, Seuil, Paris 1989, pp. 33-53. Sul rapporto tra intenzionalità (soggetto sovrano) e costituzione soggettiva (soggetto assoggettato), si vedano le sottili argomentazioni di Alessandro Fontana, che legge nell'ultimo Foucault un tentativo di mediazione tra le due posizioni: cfr. A. FONTANA, La lezione di Foucault, in AA.VV., Effetto Foucault, a cura di P. A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 1986, pp. 15-23.

18_ Cfr. E. PACI, Funzione delle scienze e significato dell'uomo, Il Saggiatore, Milano 1963, p.470. L'influenza di Husserl sulla filosofia italiana passa soprattutto attraverso il magistero di Enzo Paci: attraverso la rivista “aut aut”, da lui fondata nel 1951, attraverso la sua grande ed ineguagliata summa fenomenologica del 1963 ed infine, più specificamente, attraverso la sua coraggiosa e pionieristica opera di collegamento e di confronto tra la fenomenologia husserliana e le scienze dell'uomo.

19_ Ivi, p. 229.

20_ E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee, Il Saggiatore, Milano 1961, p.529. Le sottolineature sono mie. L'opera, nel testo, viene citata con il titolo tedesco abbreviato: Krisis.

21_ Ivi, pp. 395-396. La sottolineatura è mia.

22_ Ivi, p. 530.

23_ Ivi, p. 39.

24_ Ivi, p. 530.

25_ E. PACI, op.cit., p. 474.

26_ E. HUSSERL, op.cit., pp. 45-46.

27_ Ivi, p. 530.

28_ J. RUESCH - G. BATESON, Comunication. The Social Matrix of Psychiatry, Norton, New York-Penguin Books Canada Ltd., Markham, Ontario 1987 (con prefazione di P. Watzlawick, scritta appositamente per questa edizione): si veda soprattutto il capitolo 9 (da noi utilizzato), dedicato all'epistemologia psichiatrica e firmato esclusivamente da Bateson. La prima edizione risale al 1951: è già presente, qui, il profilo essenziale della teoria del double bind.

29_ Cfr. N. ELIAS, Teoria dei simboli, Il Mulino, Bologna 1998, p. 203 (è l'ultima opera del noto storico e sociologo Norbert Elias, pubblicata nel 1989, cioè un anno prima della morte, all'età di 92 anni: un lucido ed appassionato testamento spirituale).

30_ Di Bateson mi limito ora a citare l'ultima silloge di scritti, uscita in USA nel 1991: G. BATESON, Una sacra unità. Altri passi verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano 1997; di Edelman (premio Nobel per la fisiologia e la medicina nel 1972) basti menzionare la più recente opera teorica di grande respiro, uscita in USA nel 1992: G. M. EDELMAN, Sulla materia della mente, Adelphi, Milano 1993.

31_ E. BORGNA, I conflitti del conoscere. Strutture del sapere ed esperienza della follia, Feltrinelli, Milano 1988, pp. 191-192.

32_ Cfr. G. LANTERI-LAURA, La chronicité en psychiatrie, Synthélabo, Le Plessis-Robinson, 1997, p. 23.

33_ E. D. ESQUIROL, Des maladies mentales, Baillière, Paris 1838, vol. II, p. 428.

34_ G. LANTERI-LAURA, op.cit., pp. 67-68. La traduzione e la sottolineatura sono mie. Il primo capitolo (qui citato) di questo saggio era apparso nella rivista storica “Annales” (3, 27, maggio-giugno 1972, pp.548-568), senza suscitare, che io sappia, un dibattito proporzionato alla novità e alla radicalità delle tesi sostenute. Sullo scacco dei grandi asili – “les magnifiques établissements” – che hanno contribuito a far crescere “le nombre des incurables” – si vedano le osservazioni critiche molto puntuali di MARANDON DE MONTYEL, La nouvelle hospitalisation des aliénés, in “Annales Médico-psychologiques”, 1896, t.I, p. 60.

35_ Cfr. C. MIEVILLE, Chronicité: chronicisation ou chronification?, in “Archives Suisses de Neurologie, Neurochirurgie et de Psychiatrie”, n.126, 1980, pp. 229 – 243. Si veda anche: A. ANGELOZZI, Consapevolezza, disidentità e cronicità in psichiatria, in “Psichiatria generale e dell'età evolutiva”, fasc. 4, 1995-1996, pp. 467-474. Cfr. M. MANICA, citato alla nota 45.

36_ E. BORGNA, Come se finisse il mondo. Il senso dell'esperienza schizofrenica, Feltrinelli, Milano 1995, pp. 74 – 77. Il tema è stato ripreso anche più recentemente: cfr. E. BORGNA, Le figure dell'ansia, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 32 – 37. Sarebbe interessante – utilizzando i dati dell'etnopsichiatria - un'analisi critica comparata della cronicità in società industriali ed in culture preindustriali. Per ragioni di spazio ho solo accennato al problema.

37_ Cfr., al proposito, un intervento di Franco Basaglia, del 1966, su Deliri primari e deliri secondari, ora in: F. BASAGLIA, op.cit., Einaudi, Torino 1981, vol. I, pp. 376-383.

38_ Cfr. G. EDELMAN, op.cit., p. 282. Sul problema cfr. pp. 277-292.

39_ Cfr. A. H. MODELL, Other Times, Other Realities: Towards a Theory of Psychoanalytic Treatment, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1990.

40_ Sulla problematica del Sè plurale, qui solo accennata – e che verrà ripresa più avanti, nella seconda parte – cfr. R. J. LIFTON, The Protean Self: Human Resilience in Age of Fragmentation, Basic Books, New York 1993. Sul tema mi sia consentito il rinvio a: M. GALZIGNA, Euforie e malinconie del cibernauta. Il Sè plurale e la rete infinita, in corso di pubblicazione sulla rivista on line “Polit”, 1998 (
http://www.publinet/it/pol/ ).

41_ J. HILLMAN, Il codice dell'anima. Carattere, vocazione, destino, Adelphi, Milano 1997, pp. 20-21. Al determinismo dell'ambiente, della genetica o della costellazione edipica, Hillman contrappone quello che è in realtà, nonostante le sue intenzioni, un altro tipo di determinismo, altrettanto cogente ed univoco: il determinismo del daimon, “portatore del nostro destino”. Il daimon è molto di più di uno stile di vita, che si forgia e si modifica nel tempo; è in realtà vocazione, destino, “immagine innata”, “carattere”: un “già dato”, un qualcosa che esiste fin dalla nostra nascita, e che una terapia corretta ed eticamente orientata dovrebbe far emergere e trionfare. Ci sia consentita qualche annotazione ironica, che tuttavia ritengo epistemologicamente fondata: peccato che solo pochi eletti possano, nell'arco della loro esistenza, identificare un daimon, una vocazione, con o senza l'aiuto di una psicoterapia! Peccato, anche, che molti individui scoprano in se stessi più vocazioni, più demoni, tra i quali si scatena spesso un lacerante conflitto. A mio parere Hillman entra in contraddizione con lo stesso Jung, sua riconosciuta guida intellettuale, che individua nella psicologia analitica una prospettiva liberatoria, proprio perché capace di far assumere ad ogni individuo la pluralità di personae che lo abitano. Per uno junghismo critico, che valorizza la complementarietà tra un Sè multiplo ed un Io integrato, si veda M. TREVI, L'altra lettura di Jung, Cortina, Milano 1988.

42_ Cfr. A. H. MODELL, The Private Self, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1993. Sulla produzione metaforica, fondata sull'associazione per somiglianza, a cui corrisponderebbe, secondo Jacobson, l'attività simbolica studiata da Freud, cfr. R. JACOBSON, Two aspects of language and two types of aphasie disturbance, in: Foundamentals of language, Mouton, L'Aia 1956, pp. 80-82. Per Lacan, come è noto, che sviluppa le tesi di Jacobson, la freudiana condensazione – attività fondamentale del lavoro onirico – si serve della metafora, mentre lo spostamento è assimilato alla metonimia. Cfr. J. LACAN, Il seminario.Libro III. Le psicosi, Einaudi, Torino 1985, pp. 254 – 274.

43_ Sul corpo visto come fondamento del pensiero e della metafora, si veda l'importante lavoro di linguistica cognitiva di G. LAKOFF, Women, Fire, and Dangerous Things. Wath Categories Reveal about the Mind, University Press of Chicago, Chicago 1987. Segnalo anche un recente articolo di Edelman relativo ad un approccio alla creatività fondato sulla relazione tra corpo e metafora: G. EDELMAN, La metafora muta. Arti figurative e cervello, in “MicroMega”, 2, 1998, pp.206-226. Sulla consapevolezza dell'interazione mente-corpo e sui suoi effetti terapeutici – relativi soprattutto ad un aumento delle capacità di contenimento – si vedano alcune pagine illuminanti contenute nel recente saggio di R. SPEZIALE-BAGLIACCA, Colpa, Astrolabio, Roma 1997, pp. 237 – 243. Sull'importanza della “conoscenza” relativa ai “dati psico-biologici” ai fini di un “successo terapeutico” e di una possibilità di indurre un vero e proprio “cambiamento strutturale”, si veda J. E. GEDO, Riflessioni su ermeneutica e biologia, in “Psicoterapia e scienze umane”, N. 4, 1997 (importante, nell'argomentazione di Gedo, il riferimento a Modell).

44_ Contro la “mistica della persona” - ed a favore di una varietà di “piani di conoscenza” (di ipotesi, di teorie scientifiche, eccetera), visti come necessaria “premessa” ad ogni comprensione, ad ogni intuizione dell'altro - rimane a mio avviso ancora valido l'intervento di A. BALLERINI e P. ROSSI, A proposito di alcuni presupposti culturali del concetto di persona, in “Giornale di Psichiatria e di Neuropatologia”, fasc. II, 1970, pp. 291-302 (ringrazio Albertina Seta, che mi ha segnalato questo articolo). Sulla necessaria integrazione di soggettività e oggettività all'interno della relazione analitica si veda il recente articolo di G. O. GABBARD, A reconsideration of objectivity in the analyst, in “The International Journal of Psycho-Analysis”, vol. 78, 1997 (part I).

45_ Punto di vista, questo, già presente in quello che può essere considerato il padre fondatore dell'indirizzo antropoanalitico italiano: D. CARGNELLO, Alterità e alienità, Feltrinelli, Milano 1966, p. 15 e passim. Sulla cronicità segnalo ora l'interessante rassegna di M. MANICA, Figure della cronicità. Cronicizzazione, cronificazione e gruppo curante (in “Quaderni Italiani di Psichiatria”, vol. XII, n. 5, ottobre 1993, pp. 427 – 439), che ho potuto leggere solo dopo aver ultimato questo testo.