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il gruppo "Fuori programma" & Università degli Studi di Padova presentano Familiarizzando con... Comunicazioni sovrapposte nel gioco del paradosso Relatore: Gianfranco Cecchin FuoriProgramma: Ringraziamo il Prof. Cecchin, che ha accettato il nostro invito, e il Prof. Marhaba che ci ha sempre sostenuto. Vorremmo presentare Gianfranco Cecchin, psichiatra, psicoanalista e terapeuta della famiglia, rappresentante della scuola sistemica di Milano. Azzardiamo nel presentarlo con il titolo del suo primo libro che è "Irriverenza": quando dice irriverenza vuol dire irriverenza verso le idee del terapeuta, verso le idee che generalizziamo. I nostri incontri vogliono essere una irriverenza verso quelle che sono le idee fisse, verso quelle che sono le idee pretese come Verità. La presenza di Cecchin ha per noi oggi questo significato: irriverenza che è rispetto, l'atto di irriverenza come un atto di rispetto verso gli altri e verso se stessi. CECCHIN: Parlando della solitudine ho pensato che nel nostro lavoro è impossibile fare qualcosa se non si riesce a creare un gruppo con cui discutere, litigare, inventare delle idee: in questo campo, in questo mondo della psicologia quando uno è da solo in qualche modo si perde. Io appartengo al gruppo di Milano, nato come gruppo di otto persone e modificatesi poi nel corso del tempo: l'idea è che senza un gruppo non si riesce a lavorare in qualche modo. Ho studiato medicina a Padova e alla fine della Facoltà ero pieno di dubbi su cosa fare/cosa non fare, mi sentivo un po' a disagio, anch'io avevo lo stesso disagio che voi avete raccontato: dovevo fare qualcosa di diverso e ho deciso di andare negli Stati Uniti per un training, prima in medicina generale, poi in psichiatria e psicoanalisi. Mi sono divertito, è stato interessante, ho raccolto parecchie idee e lì ho incontrato la dott.ssa Selvini che faceva delle conferenze a New York sull'anoressia secondo il modello psicoanalitico. A quel tempo, quando ero a New York a fare psichiatria, il concetto di terapia sistemica non esisteva, era tutta psicoanalisi e psichiatria organica classica, come adesso . Quello che stava nascendo di nuovo era in California, a Palo Alto con il gruppo di Bateson e Watzlawick. La Selvini era in Italia ma seguiva il gruppo di Palo Alto quando ad un certo punto decise di creare un gruppo di terapia familiare a Milano. La sua teoria era che, seguendo il gruppo di Palo Alto, si potesse fare terapia familiare anche in Italia e fu così che iniziarono gli incontri con Watzlawick. Io ero in contatto con Boscolo e la Selvini ci propose di tornare in Italia a fare qualcosa di diverso. In America, nel frattempo, era diventato tutto regolare, preciso, organizzato secondo un'idea classica di psichiatria: essendomi stufato dell'America, tomai in Italia e a Milano creammo questo gruppo copiando il metodo di Palo Alto: Watzlawick era il nostro maestro e supervisore. La Selvini, che era già famosa, riceveva due-tre famiglie anoressiche alla settimana e su queste iniziammo a sperimentare le idee di Palo Alto da noi chiamate "strategiche-sistemiche". Prima eravamo un gruppo di otto persone, poi c'è stata una divisione quando la Selvini fece notare che c'era troppo psicoanalisi. A quel punto alcuni colleghi non accettarono di abbandonare le loro idee per fare qualcosa di troppo diverso così siamo rimasti in quattro: Selvini, Boscolo, Prata e io. Abbiamo cominciato a vedere le famiglie seguendo questo approccio. All'inizio avevamo copiato completamente il modello strategico: questo significa vedere come un sistema funziona e vedere cosa si può fare per modificarlo. I sistemi umani sono sistemi di comunicazione, gli esseri umani si mettono insieme e comunicano inevitabilmente e comunicando creano dei patterns, dei sistemi. Il sistema più semplice e disponibile in natura è la famiglia anche perché la famiglia è disponibile a farsi vedere, mentre un sistema come una ditta è già più complesso. La famiglia è un sistema ben osservabile. La nostra domanda era: "che tipo di organizzazione ha inventato questa famiglia per poter stare insieme?". Una volta capito come la gente si organizza per stare insieme, se quello stare insieme implica patologia, sofferenza, malessere e sintomi, modificando il modo di stare insieme probabilmente anche la patologia se ne andrà. Il nostro principio è che non esiste la patologia individuale: ancora adesso siamo convinti che la patologia individuale è sempre l'aspetto di una relazione. Non e' è mai un depresso da solo ma ci vuole sempre la collaborazione di qualcuno per essere depresso; uno non fa l'alcolista da solo se non c'è qualcuno che lo aiuta, e così pure per un drogato. Noi partiamo dall'idea, o dal pre-giudizio, che l'essere umano da solo non c'è. Il concetto sistemico non è però relativistico, per cui tutto va, ma è aderente a delle idee precise e costanti ad esempio una delle idee fondamentali è quella di Watzlawick per cui è impossibile non comunicare: quando un essere umano o un essere vivente fanno qualcosa inevitabilmente comunicano, ed è impossibile non rispondere a una comunicazione. Queste idee già ci spiegano un sistema: un sistema è questo gioco. La comunicazione è inevitabile, non possiamo non comunicare e non rispondere. Queste due regole sono fondamentali. Quando noi osserviamo degli esseri umani facciamo attenzione a cosa ci dicono e a come si organizza questa comunicazione anche perché la comunicazione tende a ripetersi, per una economia del vivente, per cui se una persona diventa protettiva verso il bambino questo comportamento si ripeterà nel tempo. La protezione stimola una risposta che può essere di disponibilità o non disponibilità a farsi proteggere, si crea dunque un pattem che è ripetitivo: ogni giorno ci sarà un atto di protezione e un atto di debolezza e si creerà un sistema: noi osserviamo come questo sistema si organizza e cambia nel tempo infatti ci sono sempre variazioni per cui un bambino che si faceva proteggere, crescendo, non accetta più quella protezione e allora si tratta di vedere come il genitore risponde al messaggio diverso che arriva dal bambino, come la gente si adatta. Questo comunicare e rispondere è una continua negoziazione. Ogni essere umano quando incontra un essere umano deve decidere cosa fare. Ad esempio alcune coppie parlano molto, si tratta di una continua negoziazione che implica un continuo movimento su quello che ci si aspetta dall'altro, è un movimento mai definito una volta per tutte. Altre coppie non hanno più niente da dire e allora il sistema è finito oppure stanno aspettando il momento per sferrare qualche attacco violento. La negoziazione non è mai conclusa nei rapporti e in questo continuo movimento in cui la gente deve definire cosa sta facendo insieme all'altro si creano i cosiddetti sistemi per cui quando vediamo un sistema vediamo dei comportamenti che sono comunicazione: ci sono parole, movimenti, sentimenti, patterns cioè rituali ripetitivi. Prendendo una coppia o una qualsiasi famiglia vediamo che ogni famiglia avrà venti-venticinque rituali che ripete senza accorgersene, ad esempio la cena, la televisione, i rituali della domenica: si tratta di regole che se vengono interrotte creano malessere e di cui la gente non si accorge proprio perché sono rituali fuori della coscienza. A volte le cose non vanno bene, c'è la possibilità di confondersi perché la nostra capacità di comunicazione è molto complessa: parliamo, ci muoviamo, comunichiamo in molti modi e la possibilità di confondersi è così molto alta. Ad esempio si può dire una cosa ed essere capiti in modo diverso oppure parlare ad un certo livello ed essere intesi ad un altro livello: per esempio se uno mi dice "ti voglio tanto bene" ma con un gesto mi comunica il contrario nasce la confusione per cui devo ascoltare il movimento fisico o la parola? La possibilità di confusione è molto alta per cui qualche volta si creano delle storie, dei giochi che portano anche alla follia. A volte per potersi salvare uno diventa matto e allora la patologia è comunicazione, vista da noi è un modo per essere irriverenti al sistema così com'è, è un tentativo di fuga che crea un altro problema infatti quando uno viene definito "matto" stimola negli altri certi comportamenti: ogni schizofrenico ha almeno cento persone che lo definiscono schizofrenico e che lo mantengono così come è per cui c'è lui e ci sono altri parenti, c'è il sistema medico e la società intera. Quindi la patologia individuale per noi sistemici è sempre l'effetto di un gioco di comunicazione. Ogni gruppo umano crea delle relazioni e queste sono giochi che possono portare alla felicità o a un malessere tremendo che non sempre si capisce e allora c'è spesso bisogno di un mediatore che venga da fuori per capire cosa sta avvenendo; un soggetto da solo non sempre si tira mori. Qual è la funzione del terapeuta? Andare a vedere quale è questo gioco e vedere come si può interrompere. I metodi tradizionali erano di prescrivere un rituale diverso, per cui cambiando il rituale cambia il modo di pensare, oppure di prescrivere un sintomo per cui si ordina di continuare a fare quello che si sta facendo dando una connotazione positiva di quello che avviene. Una scoperta interessante dal punto di vista sistemico è che più patologia c'è e più c'è una connotazione negativa nel sistema cioè la gente sta insieme e continua ad accusarsi a vicenda per un sacco di cose, quindi più alta è la patologia e più sono le parole critiche verso l'altro; quando cala questo livello di critica allora la patologia diminuisce. Uno dei lavori della terapia è interferire con questi giochi micidiali che la gente si fa a vicenda e introdurre la connotazione positiva di quello che sta avvenendo. Quando vediamo una famiglia dobbiamo tenere presente che gli esseri umani vivono in storie per cui dobbiamo vedere quale è il gioco che sta facendo, quali sono gli equilibri nella definizione del rapporto e quale è la storia che loro hanno e che spiega quello che sono. Ognuno di noi ha una storia che spiega quello che è, non possiamo non averla e le storie sono co-costruite con le persone importanti della nostra esistenza. Le storie in genere mantengono il gioco cosi com'è. Possiamo raccontarci storie eroiche, es. "io provengo da una famiglia colta, mio nonno era un avvocato eccellente e mio figlio sarà uguale..," ed entrando in questo gioco il figlio diventerà come il nonno, è una profezia che si auto-avvera perché la storia lo richiede oppure possiamo raccontarci storie negative per cui "noi siamo una famiglia degenere, mio padre era un alcolista, mia madre una drogata..." e in questo caso noi non possiamo far niente nella vita, ogni tentativo di fare qualcosa crolla, fallisce. Alla fine si ricade sempre nella definizione individuale per cui "tu sei stupido", "tu sei ignorante" ma in realtà uno sta seguendo uno script, una storia... Questa è una idea interessante: andare alla ricerca dello script che una persona sta seguendo. Per ognuno di noi vale questa domanda: "quale script sto seguendo? chi me lo ha dato?" quali sono le persone significative della mia esistenza che mi hanno detto che questa era la mia carriera, che questo succederà a me, che diventerò in un certo modo e non in un altro? Noi siamo tutti immersi nella comunicazione con altri esseri, in una storia che spiega quello che stiamo facendo e in una serie di rituali che ci prendono l'esistenza, tanto è che noi di quello che facciamo ne sappiamo il 20% circa e molte di queste cose le facciamo senza pensarci. Anche un gruppo sociale è una storia per esempio le nazioni che hanno grande stima di sé hanno una storia molto eroica. Quando le storie cominciano ad avere un alto livello di negatività comincia l'invasione del verbo essere: "tu sei ignorante", "tu sei un fannullone", "tu non sei sano di mente" ecc. si cominciano a dare definizioni dell'altro ed è interessante notare che quando si danno definizioni dell'altro si prende solo un pezzo del sistema e lo si isola dal sistema. "Tu sei bravo" non significa niente se non lo metto in relazione a qualcosa quindi uno dei lavori della terapia sistemica è di impedire che le persone parlino sempre usando il verbo essere e già in questo modo qualcosa si muove. Si tratta di fare comparire anche nel linguaggio la relazione, la persona che osserva questo comportamento. Il comportamento preso di per sé porta alla diagnosi, che è il nemico principale della terapia sistemica; quando si fa diagnosi si usa molto il verbo essere per cui "tu sei schizofrenico", "tu sei anoressico" ecc. Se una persona dice "tu sei fobico" in realtà non significa niente, è un totale vuoto di significato perché il comportamento viene preso e isolato dal contesto sociale. Questa è una tendenza molto forte e la difficoltà dei terapeuti sistemici è quella di riuscire a parlare con la gente senza usare il verbo essere. E' un esercizio molto difficile perché nella vita quotidiana continuiamo a usare il verbo essere e questo è anche necessario per la sopravvivenza giornaliera infatti per vivere nel quotidiano devo pensare in modo lineare, se penso in modo sistemico non riesco a prendere il tram. Però quando uno vuoi capire cosa sta succedendo, ad un livello più profondo, il verbo essere diventa pericoloso. Allora ci sono dei principi sistemici molto chiari: è impossibile non comunicare, la gente continua a mettersi in relazione con gli altri e a cercare di capire chi è in relazione all'altro. Una persona non è niente, non può esistere il verbo essere se non in relazione a qualcos'altro. "Tu sei un genio" non significa nulla ma "tu sei un genio" in quanto tuo padre ti ha definito così o in quanto nella tua famiglia c'era un genio e tutti si aspettavano che pure tu lo fossi, non potevi diventare altro che quello che sei. Uno non è ciò che è indipendentemente da chi lo vede. Da qui viene anche un'altra idea molto importante e utile per cui una persona non esiste se non c'è qualcuno che lo vede: quando noi vediamo una persona/un paziente ci chiediamo chi lo vede, per chi quella persona esiste, se non c'è nessuno che ti vede tu non ci sei. Se prendiamo un bambino che non ha una madre e un padre che lo guardano, che lo accarezzano, che gli parlano il bambino diventa autistico e dopo un po' non esiste. Quei pochi bambini che sono stati allevati dai lupi, rari casi, non hanno sviluppato il linguaggio, il pensiero. E' solo attraverso il contatto umano con l'altro essere umano che ti vede che tu puoi esistere, e allora è utile chiedersi ogni volta che vediamo una persona: "per chi questa persona esiste?". Se proviamo a fare un calcolo ognuno di noi esiste per 3, quattro, per un certo numero significativo di persone per le quali ci siamo. Se quelle persone scompaiono o cominciano a dire "tu non ci sei" alcuni possono impazzire. Ci sono alcuni adolescenti che stanno sempre lì accanto alla mamma in attesa che la mamma li veda e continuano a dire: "mia mamma non mi vede", "non mi vuole", "vede sempre mia sorella e non me" e continuano a fame di tutti i colori e anche dicendo a queste persone di trovarsi qualcun altro non c'è niente da fare. Questo è spesso incurabile, è difficile convincere una persona a rinunciare a correre dietro all'altro. Nell'innamoramento patologico succede così : uno rimane lì in attesa che l'altra persona lo riconosca e se quello fugge sempre, gli si corre dietro per sempre. Fa parte dello stesso discorso. Diciamo che ognuno di noi elegge un certo numero di persone, le incarica di decidere che lui esiste. Una domanda utile da fare è: "quali persone tu hai eletto per decidere che tu ci sei o non ci sei"? Se una persona è sicura di sé, per cui fin da bambino ha incontrato persone che lo hanno supportato dicendogli "tu sei bravo", "tu sei simpatico", allora diventa più elastico e riesce a muoversi meglio scegliendo le persone disponibili ma ci vuole una forza ulteriore forte per stabilire quali sono le persone che decidono che tu ci sei. La maggioranza della patologia che vediamo nelle coppie si riferisce a questa discussione: "tu mi vuoi o non mi vuoi?" "sono sicuro che mi vuoi o no?" . Qui ci sono dei rituali feroci per esempio se una moglie un giorno si dimentica di cucinare perché non aveva tempo, immediatamente il marito dice: "mia moglie non mi vuole più, non mi riconosce più, come ha fatto a dimenticarsi una cosa del genere, non ha pensato a me, non c'ero" e allora inizia il panico perché si è spezzato! il rituale che confermava che tu c'eri... Ogni coppia (genitori-figli, amici, marito-moglie) organizza dei rituali speciali che danno la conferma della propria esistenza. Ci sono persone che vedendosi ogni quindici giorni ricevono la conferma che loro ci sono uno per l'altro ma se il ritmo diminuisce nasce il dubbio; uno deve sempre rassicurarsi che le persone da lui incaricate davvero lo vedano. D: Non ho capito molto bene l'importanza che la terapia sistemica da alla storia del'individuo perché mi sembra limitativo dire che se una persona proviene da una famiglia con determinate problematiche automaticamente gli verrà imposta dalla situazione questa problematica... Descritta così la storia sembra una storia molto deterministica per cui il passato determina il presente, noi non pensiamo cosi ma piuttosto è il passato che per noi viene costruito dal presente: se una coppia è felice di stare insieme e se chiediamo loro di raccontarci come si sono incontrati probabilmente costruiranno una storia molto romantica e, anche se ognuno di loro ha una storia diversa, insieme costruiscono una storia positiva. Se vent'anni dopo, quando stanno litigando, facciamo la stessa domanda ci racconteranno una storia tutta nuova rispetto a quella di prima e allora la storia si adatta al presente; se non andiamo d'accordo vediamo tutte le cose negative del passato: il passato è un modo per spiegare il presente per cui noi quando siamo insieme con le altre persone costruiamo una storia che spieghi quello che sta succedendo e che non ha niente a che fare con la verità o con la realtà infatti dal punto di vista sistemico non ci interessa quello che è successo "davvero" ma cosa la persona pensa che sia successo. Esempio: "quando tuo marito ti ha lasciata, secondo tè, cosa era successo?" A noi non interessa se è vero ma interessa cosa era vero per quella persona, se lei ha vissuto così quella certa cosa, allora per lei era vero. Se uno dice: "vengo da una famiglia di drogati" o "vengo da una famiglia di alcolisti quindi andremo tutti a finir male" non c'è il concetto di storia deteministica ma riconosco che è stata costruita una storia che determina quello che sta succedendo, è la storia che li fa continuare, non il fatto che è successo. E' importante come uno vede i fatti. La terapia sistemica per questo è l'opposto del lavoro giudiziario, non andiamo alla ricerca del fatto vero ma delle storie costruite. Ognuno di noi ha una storia e la costruisce insieme agli altri, c'è sempre una negoziazione. Agli inizi della terapia sistemica Watzlawick diceva che noi dobbiamo guardare solo al presente lasciando perdere la storia, il presente spiega tutto, quello che uno riesce a fare, il sistema che si muove. L'idea era di evitare il concetto psicoanalitico del passato che determina il presente. Se mia mamma mi ha trascurato questo ha aspetti negativi sul mio presente ma al terapeuta sistemico interessa quando tu hai sviluppato quell'idea che tua mamma ti ha trascurato e ti ha trattato male. Può essere una invenzione, magari è stata la zia che ha detto che tua mamma ti trascura. L'idea sistemica è molto più ottimistica di quella psicoanalitica perché l'idea che il passato determina il presente è molto più pessimistica: quello che è successo è successo, quello che hai perso hai perso. Invece l'approccio sistemico è diverso, anche se c'è stata violenza si domanda: "quando hai trovato la forza di sopravvivere?", "cosa ti ha dato l'energia per sopravvivere?", "con chi hai parlato, chi ti ha dato le idee che si può vivere lo stesso?". Ognuno crea la sua storia, e se sta male crea storie molto negative, il terapeuta cerca di inventare insieme con il cliente un'altra storia che però sia plausibile ed è nella conversazione continua che uno comincia a introdurre altre possibilità. D: allora si tratta di una rilettura della storia passata? Sì, una rilettura, una ricostruzione che però non è un imbroglio perché la storia passata non è mai vera e nemmeno quella che uno ti racconta, è sempre interpretata da qualcuno e uno la interpreta a seconda di quello che succede nel presente. Se uno va alla ricerca di cosa è veramente successo fa un lavoro di indagine, da Pubblico Ministero ma a noi interessa sapere cosa pensi che sia successo e che effetto ha avuto. Un paziente mi ha detto: "mia moglie è diventata cattivissima, mi ruba i figli..." allora io ho chiesto quando ha iniziato a pensare una cosa del genere e lui ha risposto: "sono i parenti di lei che criticano me e loro sono così importanti per lei che si è messa dalla loro parte". Allora io chiedo "come mai sua moglie ha sposato lei se erano così contrari?" e così si crea una storia un pò diversa. "Perché sua moglie ha iniziato adesso a criticare il marito e non allora?" Cerchiamo di introdurre un pensiero un po' diverso. D: lei ha parlato di rituali e allora mi chiedevo che ruolo ha il rituale all'interno della storia e all'interno della terapia nel momento in cui si fa la ricostruzione della storia? I sistemi viventi sono in continuo movimento, ci troviamo ogni giorno per fare una certa cosa senza renderci conto del rituale. Ad esempio prendiamo una coppia religiosa che dice di essere stata unita da Dio, supponiamo che questa sia la storia che entrambi condividono e allora dicono di andare ogni domenica a messa per celebrare quella loro unione: quel rituale conferma la storia che loro hanno costruito. Se uno di loro dice di essersi stufato di andare in Chiesa allora mette in crisi tutto. Quindi il rituale conferma la storia, lo tiene vivo. In un altro caso posso dire che "noi siamo insieme perché tu sei una casalinga perfetta" e quindi se la moglie cura la casa in modo perfetto conferma la storia, anche questo è un rituale. I rituali confermano la storia che uno ha inventato. D: come lei concilia, e se li vede in contraddizione, questa dimensione che vede l'individuo come sistema che entra in comunicazione con altri sistemi, che possono essere studiati in maniera più o meno deterministica, cioè io posso individuare delle regole generali nell'interazione di questi sistemi. Come mettere in relazione questa dimensione con una soggettività che, secondo me, non può essere determinata. C'è comunque una dimensione soggettiva dell'uomo che è impossibile determinare in maniera aggettiva secondo lei e secondo il suo approccio? Partiamo dal preconcetto che un essere umano non si sviluppa se non è in relazione con gli altri e quindi non sviluppa nemmeno l'individualità, la soggettività. Cos'è la soggettività? Il problema è proprio questo: una persona è un aggregato di tutte le persone che ha incontrato nella sua esistenza. Anche Freud diceva che una persona incorpora i modelli del padre, della madre, delle persone importanti ecc. Una persona crescendo diventa autonoma per cui invece di aver bisogno della persona concreta sempre lì presente 1' ha incorporata, si sente approvato per quello che fa anche se la persona non è lì fisicamente. Qualcuno comincia a sentire anche delle voci perché sono le voci di questi personaggi che danno valore all'esistenza quindi la soggettività è un aggregato di persone importanti che uno ha riconosciuto e da cui si fa riconoscere. Anche la persona più solitaria ha una relazione con qualcuno di speciale per lui; noi esistiamo sempre in relazione a qualcuno. Quando uno ha dei dubbi del tipo "mi vuoi" o "non mi vuoi" allora si aggrappa a qualche personaggio e non lo molla più e allora diciamo: "non sei autonomo", "sei dipendente" perché non c'è stato questo processo di incorporazione. Questa è una idea psicoanalitica in realtà. D: secondo me il vissuto di sofferenza interno del soggetto permane anche quando si ha una visione più razionale della situazione cioè credo che la sofferenza per poter essere rivissuta in un senso diverso debba passare attraverso una rielaborazione. Credo che l'affettività sia qualcosa di diverso dallo stile cognitivo per cui sono orientata verso un modello più psicoanalitico. Cosa ne pensa? Le ricostruzioni delle storie che facciamo sono molto emotive, anche drammatiche, non sono solo cognitive. Non si tratta di spiegare in modo razionale quello che avviene ma si tratta di ricostruire una storia dove gli elementi positivi prevalgono su quelli negativi anche in modo totalmente irrazionale. Ad esempio chiedo al ragazzine del filmato che vedremo tra poco: "quando hai deciso di occuparti totalmente di tua madre? Forse quando hai scoperto che tuo padre se ne infischia totalmente di lei... Adesso con quello che fai la stai tenendo viva, la tieni in piedi, la fai impazzire ma la tieni viva". Questo discorso sconvolge sia la madre che il padre. Rivolgendomi al padre dico: " perché lei non interviene , non è un po' esagerata questa coppia, questa madre e questo figlio sempre insieme a litigare?". Quella che stiamo facendo non è una ricostruzione razionale ma emotiva. Invece di dire "tu sei matto" noi diciamo "siamo ammirati per quello che stai facendo". Si tratta di inventare una storia che sia attraente, emotiva. Stavamo parlando di riti: ogni sistema familiare ha il suo rito. Anche il matrimonio è un rituale che ha un significato diverso in ogni cultura e in ogni gruppo sociale. Cosa vuoi dire essere sposati? Una cosa ovvia è che quando due sono insieme, siccome non si fidano tanto di essere insieme, non sono sicuri di amarsi/non amarsi e allora meglio invitare un centinaio di persone che glielo dicano, che gli facciano regali così gli sposi possono dire: "forse è vero che stiamo insieme" ma se lo fanno da soli non sono sicuri di essere insieme. C'è bisogno di questa conferma, di essere visti. Dopo è importante che siano i parenti ad approvare, ci sono molte difficoltà nei matrimoni quando la maggioranza dei parenti non approva cioè non è avvenuto il rituale e lì dura per sempre: "i tuoi genitori non mi hanno mai voluto", "mia mamma il giorno del matrimonio ha sempre pianto" ma come viene rielaborato, il significato che gli diamo, non è una cosa cognitiva, è un sentimento: mia mamma piangeva di felicità o di disperazione o perché si sentiva sola. Dipende da come uno interpreta questa situazione. E' interessante il caso di una signora depressa, lasciata dal marito. Chiedendole cosa ci fosse stato di così straordinario da diventare matti lei risponde che in realtà era da anni che non andavano più d'accordo ma ora stava male per aver perso la posizione di donna sposata. Non aveva perso l'uomo ma la posizione perché essere sposata per lei aveva un significato particolare, lei era riconosciuta dalla società, dai parenti come donna sposata. Non le mancava il marito ma il "ruolo". Questo ovviamente non è valido per tutte le persone, non diamo un valore universale alle cose. Il matrimonio, il suo senso viene vissuto in modo del tutto privato da ognuno. Anche la nascita dei figli, le separazioni hanno un significato sempre particolare. Adesso in California sta diventando usuale fare cerimonie di separazione per ufficializzare la cosa, anche questo è importante perché mentre i matrimoni vengono fatti con un rituale collettivo le separazioni rimangono una cosa segreta: questo fa parte della cultura cattolica che vede la separazione in senso negativo. D: come si valuta con il suo approccio il grado di patologia? La patologia è sempre definita dalla società. Più l'ambiente è negativo, più vale il verbo essere, le definizioni, le accuse e più malessere c'è e questo malessere può manifestarsi con ciò che le persone tradizionalmente definiscono patologia: la persona può smettere di mangiare e viene definita anoressica, stare sempre a letto e non muoversi più di casa e allora diciamo che è depressa. Di fronte a tutte queste cose che vengono definite patologiche, se tradizionalmente possiamo dire "cosa c'è che non funziona nella sua testa?", a noi interessa cosa non funziona nel suo sistema, nella sua storia, nella storia che ha inventato con gli altri, come mai si è incagliato in una posizione di questo tipo, perché non riesce a uscirne, chi collabora a tenerlo così ecc. Naturalmente è la persona stessa che collabora e il fatto stesso di essere definito come patologico che senso ha sul suo sistema? Sappiamo che la definizione stessa di patologia mantiene il sistema così com'è; lo rinforza e quindi si creano strutture forti ed entrare all'intemo di queste strutture non è semplice, c'è troppa gente che collabora, specialmente nella schizofrenia se prendiamo un adolescente prima che entri nella rete della carriera psichiatrica può ancora uscirne ma quando uno è già entrato dentro nella camera, comincia a non far più niente, smette di studiare, lascia l'università, sta sempre a casa, arriva a 24 anni 25 anni. Un ragazzo disse a Cecchin "se sto meglio mi trovo ormai indietro di fronte agli altri, ho paura di stare meglio". Ad un certo punto uno si inchioda in una posizione e non ne esce più, ci sono persone che fanno di tutto per rimanere come sono. C'è poi tutto il sistema dei servizi sociali, degli ospedali che sono sistemi organizzati anche loro attorno al rituale di avere qualcuno lì. Noi osserviamo tutti i sistemi, dalla famiglia alla società, all'economia, alla politica: sono tutti sistemi che si auto-organizzano e tendono a mantenere una certa struttura. D: in un approccio come questo in cui la comunicazione ha un ruolo fondamentale come ci si pone nei confronti di una famiglia in cui qualcuno non comunica, ad esempio se c'è un soggetto autistico... Anche il non parlare è comunicazione. Il parlare è solo uno dei tanti modi per comunicare. L'autistico ha una sua comunicazione, di solito è un soggetto che ha una autorità tremenda: riesce a far correre i genitori, i parenti e tutti sono al suo servizio. Quando arrivano queste famiglie, molto organizzate, se proviamo ad aiutare i genitori a disobbedire un po', il bambino ne fa di tutti i colori per ristabilire il sistema. Questa è comunicazione e a noi interessa come i genitori rispondono al comportamento del figlio, cosa fanno per mantenere questa posizione, non stiamo lì a cercare se sono loro ad avere introdotto quella comunicazione ma ci interessa come ora organizzano il sistema per mantenere il trauma così com'è. D: lei come si pone di fronte a queste famiglie? Prendo l'esempio di una famiglia che comunicava urlando, i bambini continuavano a muoversi e a far rumore. Abbiamo deciso di osservare quando i bambini si calmavano cioè che tipo di conversazione c'era in corso quando i bambini si calmavano . Parlando con i genitori i bambini si calmavano quando si parlava dei suoceri di lei e si agitavano di nuovo se si parlava della relazione con i bambini; di nuovo parlando della suocera: silenzio. Quando ho iniziato ad appoggiare la madre il bambino si è seduto sulle mie ginocchia senza parlare mai. Ma iniziando a parlare dei bambini di nuovo loro si agitavano quindi non è importante la parola ma già il movimento comunica ad esempio quali sono le cose di cui parlare e non parlare. I bambini capiscono tutto, anche gli autìstici. Se i bambini cominciassero a parlare prima dei due anni comincerebbero a non capire più niente prima, cioè in un certo senso uno deve imparare a capire gli altri attraverso il non verbale, i bambini già a due anni capiscono quasi tutto di quello che sta avvenendo, la parola spesso confonde. La razionalià in un certo senso li separa un po' dal rapporto. Certi terapeuti portano nella sala dei bambini i giocattoli, i fogli da disegno ecc. Noi non abbiamo niente: i bambini possono fare tutto ciò che vogliono, tutto è comunicazione. Un ragazzo appena entrato ha chiesto esplicitamente di voler andare a giocare di là, poi è rientrato e ha voluto una penna e infine riesce a dire che "è inutile venire qui!" poi spegne la luce, disturba; allora Cecchin chiede perché il terapeuta non può parlare con la mamma e il papa: il bambino, di 7/8 anni, dice che non può parlare con loro perché loro non sono i suoi genitori, il papa è un altro (infatti la mamma si era spostata con lui quando già aveva un altro bambino) e allora non si può fare terapia familiare perché "questa non è una famiglia". Lui stava disturbando perché voleva comunicare qualcosa. Anche il dormire è una comunicazione, diventa un messaggio quindi dobbiamo fare attenzione a queste mosse. Noi come terapeuti costruiamo storie cercando di intuire quello che sta avvenendo. D: mi sembra che il fattore terapeutico, per la terapia sistemica, risieda nella modificazione della narrazione e allora mi chiedo se per questo non rischia di restare troppo staccata dall'esperienza e diventare un po' una speculazione intellettuale ricevendo l'accusa che è stata fatta anche alla psicoanalisi. All'inizio si utilizzavano due metodi: l'intervento paradossale e la prescrizione dei rituali. Facciamo l'esempio della famiglia in cui la figlia, la mamma e il papà stanno sempre insieme, ogni volta che la mamma e la figlia vogliono fare qualcosa arriva il papà che interviene oppure se il papà vuole uscire con la mamma interviene la figlia ecc. In ogni caso è proibito essere coppia, ogni volta che si crea la coppia arriva sempre un terzo e per questo c'è un malessere continuo, non è possibile distaccarsi. Un rituale classico è quello dei giorni settimanali suddivisi in modo tale che il lunedì è riservato alla mamma e alla figlia e il papà non deve intervenire, il martedì è quello della figlia e del papà e la mamma deve stare fuori dalla diade, il mercoledì è riservato alla mamma e al papà e la figlia rimanere fuori e per gli altri giorni della settimana la prescrizione è di comportarsi in modo caotico come sempre. Questo è un rituale che tende a spezzare, a disturbare un sistema: se loro riescono ad obbedire ad un rituale così c'è un cambiamento forte ma spesso non ci riescono. Spesso trovano scuse per giustificarsi per cui c'è sempre qualcosa che ha impedito di farlo; riescono a inventarsi sempre qualcosa per non farlo però discutere anche sul perché non sono riusciti nel compito diventa argomento interessante. Un altro intervento paradossale è dire che "è vero che voi siete venuti qua per guarire ma guarire è molto pericoloso anzi in terapia vorremmo impedirvi di guarire perché abbiamo visto che avete la tendenza a star meglio, che se voi guarite succede un disastro...". Si tratta poi di dare una spiegazione, una storia, per esempio: stando meglio probabilmente il figlio scapperà di casa, i suoceri faranno un disastro, la figlia diventa più attiva e scapperà via con un certo uomo ecc. Questo discorso è paradossale perché ti dico "vieni per non guarire"; ma questi erano i primi interventi mentre oggi tendiamo a raccontare nuove storie, a reinventare insieme una storia che abbia un futuro, in genere quando uno sta male inventa storie in cui non c'è un futuro. Es. prendiamo il caso di un ragazzo che andava all'università ma stava ormai sempre a casa con la mamma, il papa trovava il figlio sempre a parlare con la mamma e lo rimproverava perché non faceva nulla, così il ragazzo aveva imparato a non parlare più quando arrivava il papa, mangiavano insieme nel silenzio. La mia domanda è stata: "che coppia è secondo tè quella dei tuoi genitori?", questa è una domanda classica. E lui mi ha risposto che non sono adatti a stare insieme, "sono diversi ma stanno insieme perché ci sono io". Allora a questo punto se lui diventa sano i genitori si separano. Dopo si fa la domanda alla coppia "cosa pensate che possa aver detto vostro figlio?" a quel punto il marito: "quando ho sposato mia moglie pensavo che avesse un po' di cervello ma è tutta casa e cucina, se la sera voglio fare una conversazione con lei di politica o di filosofia lei si alza e se ne va". E lei ribatte che quando l'ha sposato pensava che fosse più romantico ma invece pensa sempre al lavoro. Allora perché state insieme? "Perché ci aspettiamo che l'altro cambi" è stata la risposta. A questo punto come facciamo a fare una connotazione positiva di una storia di questo tipo? Uno coglie la contraddizione cioè che la coppia nonostante tutto continua a stare insieme e allora abbiamo costruito una storia dicendo al ragazzo che in realtà i suoi genitori formano una coppia quasi perfetta, tra loro due c'è un amore raro; non è facile trovare un uomo che per ventitré anni rimane ad aspettare che la moglie cambi, la maggioranza degli uomini non fa così. E dove trovi poi una moglie che per ventitré anni aspetta che lui tomi a casa con un fiore, che faccia un atto romantico? questo è amore classico basato sull'aspettativa, è l'amore del Dolce Stil Novo. Il discorso è assurdo, paradossale ma positivo: loro non possono dire che non è vero. In quel momento lì il ragazzo si alza e dice: "io non metto più piede qui dentro", la moglie dice "non avrei mai immaginato che noi fossimo una coppia romantica". Lì c'è stato uno shock e qualcuno può dire che intervento sia questo. Ho avuto anche da litigare con i miei colleghi per questo intervento ma siccome c'è la connotazione positiva della stabilità abbiamo reinventato una storia basandoci su questo. Anche se sembra assurdo dobbiamo rischiare dicendo ai genitori: "quello che fate è perfetto" e nello stesso tempo è importante far capire al figlio che lui non c'entra niente con loro e che sarebbe utile anche per lui che si mettesse a far qualcosa per conto suo, qualcosa che non aveva fatto finora. La volta successiva la coppia è tornata senza il figlio: era andato in Israele per due mesi, ha trovato un kibbutz da dove poteva telefonare solo una volta ogni tre settimane. In questa seduta si riprende il discorso della coppia romantica e si chiede alla moglie: "se lei avesse un uomo più romantico, affettuoso, protettivo, seduttore, riuscirebbe a tollerarlo lei?". Allora si mette a raccontare che nella sua famiglia maschilista non si è mai sentita importante, riconosciuta e si è ricordata che c'era un corteggiatore che era tutto affettuoso e le portava i fiori ma a lei non dava soddisfazione. Le faccio notare che "allora sarebbe pericoloso se il marito diventasse così, lei dovrebbe scappare, comincerebbe a dire "non è vero, non è possibile che un uomo mi tratti così, non è la mia storia", cioè non rientra in quello che lei vede come la sua storia, non come storia deterministica. Lo stesso al marito chiedo: " se sua moglie invece di far finta di essere un po' stupida tirasse fuori un po' la sua intelligenza lei come reagirebbe?" Allora lui si ricorda che ai tempi dell'università c'era una ragazza molto brillante ma l'ha lasciata, era una bravissima avvocatessa ma l'ha lasciata e allora faccio notare che, sarebbe pericoloso anche per lui se avesse una donna che non facesse finta di essere stupida come fa lei. Comunque, rivolgendomi a entrambi: "se per caso vi viene voglia di cambiare fatelo molto lentamente, andateci piano e forse è meglio rivederci fra tre mesi e vediamo cosa succede". Questo è un po' un esempio di intervento con rituale, paradosso e storie. D: tutto questo mi sembra molto convincente ma tornando all'esempio che lei ha fatto prima, quando all'interno della famiglia c'è un figlio che si sente poco apprezzato, poco amato e soffre di questa differenza si mantiene anche nella vita quella equazione a ripetere, come si dice in psicoanalisi, per cui nella vita si ricerca quell'uomo o quella donna che perpetuino quel sentimento che fa soffrire. Io mi chiedo: quando la sofferenza è inscritta nell'anima come si fa a uscirne mediante questo approccio? Cioè un conto è riconsiderare, reinventare la storia e un conto cambiare lo stato di sofferenza interno... Se noi pensiamo che tua madre veramente non ti apprezzava allora non vediamo futuro invece noi andiamo a cercare come mai una persona si è messa in testa un'idea così, come mai è nata questa idea. Ricordo una ragazza che mi disse: "mia mamma non mi ha mai amato" e le risposi che non poteva essere vero perché se un bambino non è amato da nessuno muore e lei era ancora viva. Allora si tratta di vedere come mai lei si è messa in testa questa idea. Si tratta di sfidare la ragazza : "probabilmente sua mamma l'ha vista e l'ha amata ma lei è furiosa di gelosia per sua sorella..." La storia cambia se lei riesce a modificare la sua teoria. Si può ricostruire questa storia e darle un'altra connotazione es. "quante volte hai rifiutato tu tua madre?" oppure: "tua madre era cattiva ma anche tu forse hai fatto scappare tua mamma, ti vedo dalla faccia che sei cattivissima...". D: io non penso che tutti i problemi psicologici derivino semplicemente da dinamiche relazionali di sistemi sbagliate che quindi mi fanno credere delle cose che non sono vere in realtà di per se stesse ma sono soltanto mie credenze. Ci sono delle situazioni di sofferenza, un trauma, una cosa reale, tangibile che provocano una sofferenza profonda dell'Io, del sé profondo che secondo me non è possibile pensare di poter rielaborare semplicemente a livello cognitivo perché la rielaborazione della comunicazione, il capire che il mio pensiero su mia mamma che mi vuole male è soltanto un mio modo di interpretare delle cose è comunque ad un livello cognitivo. Io penso che alcuni casi di sofferenza siano ad un livello più profondo e che non sia sufficiente cambiare le coordinate in cui io posso rivedere una situazione per, automaticamente, eliminare il dolore e la sofferenza. Anche queste storie profonde, queste sofferenze profonde sono il risultato di una storia. Da come lei pone la domanda sembra che le sofferenze siano vere e le storie siano superficiali ma anche la sofferenza fa parte di una storia. Quando mamma ti maltratta tu lo vivi, lo interpreti, lo soffri a tuo modo ma è una storia. Anche il lutto è una rielaborazione di una storia, dei rapporti che c'erano e ora non ci sono più, la persona che se ne è andata è vista in maniera diversa da prima; da come lo racconto io sembra che sia facile ma non è facile costruire una storia ma quello che vorrei farvi capire è che non esistono sofferenze reali e storie irreali. La sofferenza fa parte di una storia. Possiamo dire: c'è speranza o non c'è speranza, anche quello fa parte di una storia. D: all'interno del sistema familiare quanto è importante cambiare ogni singola parte oppure concentrarsi sul singolo che somatizza il disagio senza necessariamente modificare l'intero sistema familiare? Per la teoria sistemica non è possibile che uno cambi senza modificare tutti gli altri membri del sistema per cui se uno si concentra a cambiare una persona deve accettare le conseguenze che se uno cambia una persona deve cambiare anche gli altri. Se li vediamo tutti insieme si fa prima invece di trattare uno alla volta e dopo recuperare le conseguenze che il cambiamento ha sugli altri. Noi partiamo dall'idea che uno da solo non fa niente quindi dobbiamo pensare alle conseguenze sugli altri. Se uno è depresso questo ha un'influenza sui parenti, sulla moglie ecc. Come quando uno fa psicoanalisi per cui si hanno ripercussioni su chi vive con lui es. si creano separazioni, divorzi perché l'altro "rimane indietro". Se uno va in terapia cambia il rapporto anche con il partner oppure il terapeuta diventa un terzo nella relazione, che ha un effetto dirompente nella coppia. Ogni coppia si inventa un terzo: gli esseri umani riescono sempre a complicare la loro vita; se uno è da solo non riesce a star da solo e allora si accoppia con qualcuno poi qualche volta fa un figlio per aumentare il disturbo, se non c'è il figlio può coinvolgere un amante o la suocera, c'è sempre la ricerca del terzo e quando il terzo è entrato magari c'è la ricerca di un quarto. D: è difficile immaginare quando i tempi sono pronti per il cambiamento ad esempio i genitori possono rivolgersi a lei per aiutare il figlio ma non rendersi conto che anche loro hanno una parte di responsabilità. Come fare per cambiare un sistema in tutte le sue componenti? Quando uno dice quale è la sua motivazione vuole cambiare o no? La maggioranza dei sistemi tendono a rimanere quello che sono, a essere statici. Piuttosto di cambiare uno accetta delle sofferenze tremende anche di fronte a situazioni assurde. Ma quando uno sta male abbastanza per cui inizia a produrre sintomi tremendi allora cerca la terapia. La maggioranza delle famiglie vorrebbe togliere il sintomo e rimanere come era prima, nella confusione totale come era prima. La gente anche se sta male si trova bene dentro i rituali, dentro i suoi sistemi. Questa è una contraddizione permanente; è difficile che uno dica: " sto male e voglio cambiare tutto attorno a me". D: l'essere arrivati da parte di un ragazzina a fare una affermazione radicale come "odio mia madre", "odio mio padre", "odio mia sorella" è sicuramente frutto di una lunga storia fatta di certezze e di incertezze, di autoconvinzione e di sensi di colpa per il fatto di avere fatto una affermazione del genere e soprattutto non è una cosa che può essere così stabile nel senso che in una seduta le può dire "odio mia madre " e tre sedute dopo "amo mia madre". Il paradosso come può rendere dialettica una situazione del genere? come possono convivere due situazioni del genere e quindi ammorbidarsi all'interno di una terapia, di un modo di essere che non sia così radicale cioè "odio " o "amo " mia madre. Qui torniamo alle relazioni, quello che interessa a noi è la relazione cioè cosa fa la madre con il bambino, cosa fanno insieme, quante volte devono dirsi "ti odio". Dire ti odio fa parte della relazione, non devo guardare alla sostanza della parola. In ogni relazione c'è eros e thanatos, gli amori forti sono basati anche su forte aggressione. Ci sono amori tortissimi dove uno deve andare a casa e picchiare la moglie ogni giorno però non oserebbe mai lasciarla. Lo stesso vale per la moglie che dice: "mio marito mi vuole tanto bene anche se mi picchia, io non posso lasciarlo". Dire "ti odio" non vuoi dire niente significa solo che è una relazione forte. A noi interessa che linguaggio usa la gente per stare insieme. L'amore non è quello del cinema, nelle relazioni umane c'è sempre un elemento di violenza e qualche volta arriva al punto che diventa pericolosa. Se un bambino dice di odiare la madre si tratta di vedere quando lo dice, cosa sta succedendo quando lo dice in modo da capire se è un modo di tenerla lontano perché troppo seduttiva, forse troppo incestuosa. Quindi ci sono delle coppie per cui lei dice che il marito ripete di volersi separare. Allora chiediamo quante volte glielo dice e scopriamo che è da un anno che lo ripete. Anche questo diventa un rituale; certe persone riescono a stare insieme se possono dire di volersi separare dall'altro, se ogni volta che si vedono possono ripetere questo rituale si sentono meglio. Sono cose umane. La ricerca del rituale è importante. D: nell'intervento dobbiamo tener conto solo del sistema famiglia o anche di altri sistemi? Noi partiamo dalla domanda: "qual'è il sistema significativo intorno a quella persona che mi può spiegare perché lui sta male?" Spesso è la famiglia ma qualche volta può essere la scuola o l'azienda in cui uno lavora. Se uno è in convento è più importante quel sistema perché per lui è significativo. Ad esempio se un insegnante telefona per segnalare un bambino con famiglia disastrata allora noi diciamo alla maestra di raccontarci che problema ha lei con quel bambino. Spesso, sentendo la famiglia, questa dice che la maestra è un disastro: ci sono due sistemi in competizione; la famiglia è terrorizzata che il terapeuta, essendo parte della struttura statale autoritaria si schieri con la maestra così spesso la madre difende il bambino. Il problema è spesso la relazione tra scuola e famiglia. Gli insegnanti sono spesso tremendi, convinti di essere migliori della mamma. A volte si invita la maestra o il preside a fare una seduta con la famiglia. Qui torniamo ad un altro problema: ogni famiglia si organizza per conto suo e quando il bambino va a scuola incontra un'altra storia, un'altra narrativa allora lì la madre e le maestre possono iniziare a combattere e magari vanno avanti a cambiare scuola. Il bambino deve uscire dal sistema famiglia ed entrare in una narrazione, in una storia più larga che è quella della scuola elementare. I ragazzi poi devono fare il servizio militare, anche quello è un altro shock: escono dall'ambiente del piccolo gruppo ed entrano in un altro ambiente dove alcuni non sopravvivono. L'altro movimento è uscire di casa e costruire un'altra famiglia, sposarsi ma alcuni non ce la fanno, restano sempre in famiglia e allora lì nascono queste storie che non finiscono mai. MARHABA: a me risulta che la scuola sistemica di Milano sia l'unica scuola psicoterapica italiana citata all'estero. Risulta dai miei ex-studenti, che adesso fanno gli psicologi in Inghilterra, che l'unico citato in Inghilterra come terapeuta sei tu. Noi italiani come psicoterapia non abbiamo una tradizione culturale particolare, abbiamo preso tutto da fuori. La domanda è: "in quanti casi si può dire che il vostro approccio funzioni, che sia mediamente soddisfacente? per esempio ci sono situazioni in cui voi escludete che si possa intervenire? qual 'è la percentuale di successi nella media? ". Noi arriviamo più o meno, come anche altre scuole, intorno a un 60%. Ma la cosa più utile credo che sia l'aver formato terapeuti più contenti; il burn-out non esiste nei nostri operatori mentre per gli altri approcci è molto facile cadere nella disperazione; per noi c'è sempre un'idea, c'è sempre l'aspetto umoristico, divertente, le storie sono elaborate insieme e i gruppi di operatori escono dal burn-out. MARHABA: riguardo alla percentuale di successi quali indici usate voi per dire che è andata bene, che la persona dica di star meglio. Avete dei criteri che indichino il miglioramento, la guarigione, l'evoluzione del soggetto... Guardiamo se un soggetto riesce a organizzare la sua vita in modo abbastanza autonomo, ad esempio vediamo se uno schizofrenico riesce a tornare alla vita di ogni giorno, a mantenere un lavoro... MARHABA: dunque si tratta di criteri pragmatici... Sì, si guarda la vita di ogni giorno. Vi cito il caso di un ragazzo schizofrenico che se la cava da solo però ha bisogno di spaventare ogni tanto i genitori allora noi cerchiamo di rassicurarli perché è un suo rituale. Si cerca di aiutarli ad avere un po' più senso dell'umorismo. Questo ragazzo, definito schizofrenico, adesso lo vedono come 'maleducato'. MARHABA: una idea molto attuale è quella di fare una psicoterapia integrata; l'idea dell'integrazione delle psicoterapie nasce dal presupposto che si possano trovare i nuclei forti di ciascuna scuola e in particolare di quelle considerate come gli zocccoli duri cioè la psicodinamica, la scuola cognitiva e quella sistemica e tentare una integrazione. Alla luce di quello che ha detto Cecchin questo mi sembra diffìcilissimo perché da quello che è emerso e 'è un nostro convincimento diffuso, demolito da Cecchin, per cui esisterebbero sofferenze reali e storie superficiali. Quello che la maggioranza di noi pensa è che la storia riguardi un livello che comunque è un livello più superficiale o altro da questi presunti zoccoli duri, essenziali, che sono dentro l'anima e ci vengono dalla tradizione essenzialistica e psicoanalitica, che a sua volta poggia su un senso comune occidentale molto forte. Quindi l'idea sistemica è divergente dal senso comune occidentale: anche I ' idea di non usare il verbo essere, di non etichettare parlando in termini di "tu sei", "io sono" è lontana dal nostro senso comune. Cecchin ha usato parole molto forti, ha detto che "anche la storia di una sofferenza è una storia", "non esistono sofferenze reali e storie superficiali" e su questo, secondo me, ci sarebbe tantissimo da riflettere perché a questo punto, almeno per come vedo io in questo momento, chiaramente non si può fare nessuna integrazione fra sistemica e psicodinamica perché partono da punti di vista radicalmente diversi e su questo bisognerebbe riflettere. Noi accettiamo il discorso della storia, del raccontarsi ma ci sembra sempre che riguardi un livello più superficiale, che ci siano dei traumi, delle sofferenze profondissime, che sono oggettive in qualche modo, e che vanno analizzate diversamente. Pongo il problema, non sto dicendo che una sia vera e l'altra falsa ma che, per come l'ha posta Cecchin, non e 'è conciliazione possibile perché anche la sofferenza, l'abbandono più radicale da parte di un padre, l'abbandono più radicale da parte di una madre o il trauma più aggettivo e profondo sono una storia quindi ci troviamo di fronte a due alternative, bisogna scegliere o un paradigma o l'altro, non si può tentare di conciliarli. Questo porta delle ripercussioni incredibili perché allora uno può dire: "i sentimenti reali che provo per qualcuno allora cosa sono? " e questa è una domanda che vorrei farti cioè "e 'è qualcosa che sfugge a una storia o no? ". No, non esiste niente al di fuori, è quello il problema. Noi siamo immersi nella costruzione della realtà. Wittgenstein si chiedeva: " può cadere un albero in mezzo alla foresta se nessuno lo vede?". La risposta è no se non c'è qualcuno che lo descriva, che lo veda. D: in questo tipo di teoria, non essendoci una realtà di alcun tipo, dobbiamo intervenire su una realtà che è costruita ma che cosa ci da quella traccia per decidere la direzione in cui andare? Lei prima diceva di reinventare storie per cambiare il proprio modo di vedere la realtà ma se non ho alcun punto di riferimento esterno a qualsiasi storia possibile come posso indicare quale è la storia giusta, la traccia da seguire? Questo è un dramma filosofico per cui ci chiediamo se possa esistere una realtà vera al di fuori di ciò che noi vediamo. Per qualcuno che crede in Dio esiste una realtà al di mori di noi e quello è il più tranquillo di tutti. Se noi usciamo da quello schema li è molto pericoloso e subentra la domanda: "come possiamo fidarci noi della realtà che stiamo costruendo?", "c'è qualcosa di più vero di quello che vediamo?" e questa è metafisica. Vediamo dei gruppi sociali che si mettono insieme e costruiscono realtà tremende ad esempio la Germania di Hitler. Una delle idee del costruttivismo è l'idea del consenso per cui uno costruisce sempre insieme agli altri il senso della realtà, questo è il "costruzionismo sociale". Ogni cultura ha creato delle realtà, in Iran ad esempio hanno una teoria circa la famiglia, il significato di essere donna, uomo ecc. a cui credono pienamente come fosse vero e se uno esce da quella verità lì soffre e allora è sofferenza vera, non vera? C'è il consenso che crea certe realtà. Noi siamo in Occidente e continuiamo a dibattere su cosa è la realtà sperando che ci sia una realtà vera dietro tutto quello che vediamo. D: ai corsi di "psicologia dinamica" la resistenza è intesa in un certo modo, è l'opposizione inconscia del soggetto ad accedere a certe dinamiche profonde, ma sotto un punto di vista diverso diventa l'incapacità del terapeuta di trovare una strada... Lei cosa ne pensa? Si dovrebbe trasformare la domanda e chiedersi se è utile o no pensare così. Ci sono posizioni, come ha detto il professor Marhaba, che potrebbero essere inconciliabili. D: in un certo senso la possibilità di ricostruirsi o di co-costruirsi volta per volta ci da una garanzia di soffrire di meno, è quello che trasforma, in un senso un po' particolare, la vita da tragedia in commedia... Può darsi che sia una questione anche politica nel senso che si è visto quanto sia pericoloso credere troppo fermamente in una ideologia, essere fondamentalisti. Nella nostra prospettiva non possiamo mai sapere se quello che costruiamo sia valido o no; ci inventiamo qualcosa per sopravvivere, per vedere se stiamo meglio o no. Questo mi pare molto affascinante, c'è sempre il dubbio. D: io vorrei andare un po' più oltre nel senso che non e 'è nemmeno un solo modo di raccontare la storia e non è neanche solo la storia contro la causa perché io posso raccontare storie in tanti modi. Mi sembra di capire che la storia in questo contesto è intesa un po' come griglia interpretativa in grado di cogliere gli elementi che si possono modificare. Ma io posso intendere la storia in un modo completamente diverso come espressione di un vissuto quindi raccogliere la storia e i vissuti della persona che ho davanti e gli elementi di sofferenza senza pormi l'obiettivo di modificare delle cose in maniera oggettiva.. Poi mi viene in mente un'altra cosa, che vorrei chiedere al professor Marhaba, relativa alle antinomie: secondo lei questo approccio quale posizione occupa nell'antinomia antropomorfìsmo/meccanomorfìsmo? MARHABA: preso in forma radicale come lo esprime Cecchin è una meta-approccio. La maggior parte delle antinomie vengono scardinate cioè se tutto è storia allora anche quella meccanomorfica e antropomorfica è una lettura, non c'è più una sostanza delle cose. Qui ci sarebbe da approfondire, ad esempio potremmo mettere a confronto una linea essenzialistica, come quella psicodinamica, con questa della storicizzazione o della costruzione. Espresse in questa forma sono inconciliabili. Sarebbe interessante un confronto fra le meta-argomentazioni che ciascuna delle due può portare. Quando facciamo qualcosa siamo sempre inclusi in una storia, è inevitabile, quando uno esiste partecipa totalmente ad una storia. E' molto utile chiedersi cosa stiamo facendo per tenere in piedi certe storie e quindi diventarne coscienti. Anche la parola resistenza non ha senso dal punto di vista sistemico, se la chiamo resistenza è una forma di dittatura come se qualcuno non dovesse resistere quando cerco di influenzarlo. La resistenza è una risposta al mio intervento: io faccio qualcosa e l'altro risponde resistendo. Se il terapeuta afferma che "tu sei resistente" non ti riconosce il diritto di rispondere. La risposta dell'altro viene definita così come resistenza. D: per chi fosse interessato a questo tipo di approccio quali sono i corsi più utili all'interno dell'indirizzo clinico? Lo studio della psicologia individuale è una buona base, dopo si tratta di estendere e di vedere il tutto in un sistema più vasto. Se uno diventa un esperto ad intuire i pensieri dell'altro è importante, poi si tratta di vedere come questa capacità si inserisce in un contesto relazionale. (seguono il filmato di una seduta ed i saluti) Sbobinatura FuoriProgramma
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