Padova,
16-02- 2001
indice conferenza Grandi Voci


 
Prof. BRUNO CALLIERI


PSICOPATOLOGIA CLINICA E ANTROPOLOGIA


Parte 3°


Armezzani: “In questo pomeriggio mi sembra che sono rimasti proprio gli irriducibili, allora..
A questo punto io penso che dovremmo sfruttare l'occasione di avere qui il Professor Callieri oltre che Di Petta per rispondere alle vostre domande, ai vostri dubbi, a tutto quello che volete. Io sfrutterei questo tempo, poi, lo dico adesso, alle 16.15 devo andare via quindi vi saluto già, vi ringrazio per la vostra presenza numerosa di venerdì, che ho apprezzato moltissimo. Noi abbiamo modo di rivederci, abbiamo altre iniziative in pectore per i prossimi mesi, i prossimi anni, quindi, fate riferimento al sito della TerraSanta per qualsiasi notizia ed informazione e quindi, magari se hai degli indirizzi li manderemo. Comunque per tutto quello che riguarda iniziative, prossimi convegni, giornate di studio, seminari, io passo a loro qualsiasi informazione e là trovate notizie, questo per il futuro, poi ci vediamo, siamo sempre anche qua, purtroppo. Se avete bisogno di informazioni bussate alla porta.. Quindi io adesso lascerei la parola.. Abbiamo lasciato sedimentare in questo tempo le cose dette ieri e oggi, naturalmente se volete fare ancora domande anche a Di Petta sul seminario di ieri lo consideriamo un unico gruppo di lavoro quello di oggi e quello di ieri quindi ecco..”

Callieri : “Se ci resta tempo…”

Armezzani: “Ecco, sì, non abbiamo avuto tempo di parlare di quest'altro tema che il Professore aveva preparato che era la dimensione dell'incontro con lo psicotico, cioè era la continuazione, il naturale sviluppo di quello che aveva detto questa mattina, sulla priorità dell'Essere-con-l'altro e quindi tenete presente che anche domande su questo tema potete farne in modo che lui possa sviluppare anche questo aspetto dell'incontro con lo psicotico. Io vi lascio la parola, siamo in pochi, l'atmosfera è rilassata e quindi direi anche senza microfono chiunque vuole porre domande..

Intervento: “Nella conferenza di questa mattina ho sentito che ha citato autori di ambito psicoanalitico ed ha sottolineato dei punti della loro opera che possono incontrarsi con…”

Callieri: “Di ambito?”

Armezzani: “Di ambito psicoanalitico”

Intervento: “psicoanalitico.. Bion, Kohut… ed ha citato dei punti della loro opera nei quali nota ci possa essere un punto di incontro tra la fenomenologia e queste teorizzazioni. Io vorrei sapere invece cosa pensa Lei di quella parte di autori, soprattutto appartenenti all psicologia dell'Io, che mi sembra abbiano ancora un grosso peso nell'ambito psicoanalitico, che parlano della analisi, della psicoterapia come di un qualcosa che debba avere finalità adattive, come un qualcosa che serve perché un individuo sia più adattato all'ambiente; comunque che tentano di condurre il discorso del rapporto terapeutico in questa ottica di adattamento.”

Callieri: “Come tipo la Hornay e compagni..”
Mah, mi viene in mente anche Hartmann..”
Hartmann, sì, in particolare.. Mah, questo è un punto che mi ha già fatto molto pensare e discutere con colleghi riversati nell'ambiente dell'antropologia culturale, perché a me pare che tanto per noi fenomenologi quanto per gli psicologi, e questa psicologia dell' Io poi è particolarmente attuale ancora oggi negli Stati Uniti, ci sia da fare molta attenzione alle componenti culturali che determinano questo tipo di domande. Io direi che ogni teoresi, analitica o non, ha bisogno di un terreno di base, da cui manifestarsi, e sul quale prosperare. Ora, il problema della psicologia dell' Io nasce, per quel poco che io ne so, in un ambito in cui è necessario, proprio come ambiente culturale, pensiamo all'ambiente culturale statunitense degli anni '30 e degli anni '40, in cui è necessario stemperare le diversità che le dimensioni culturali di provenienza esercitano su anglo-americani, irlandesi-americani, italo-americani, ebreo-americani, indio-americani, cino-americani, con tutta una distinzione di curvature diverse nel loro modo di essere, sia in ambito nevrotico, sia anche in ambito psicotico. Non per nulla, questo delle finalità adattive, è un discorso che è stato recentissimamente ampliato all'ambito della psicofarmacologia, che a seconda dei gruppi di provenienza dei pazienti da trattare, anche farmacologicamente, io ci ho fatto uno studio su questo, vedono che il modo di rispondere è diverso a seconda della cultura di provenienza. Per esempio: uno stato di eccitamento ha bisogno di una certa dose di Largactil se il paziente è un italo-americano, ha bisogno di una quantità minore o maggiore, dello stesso farmaco, quantitativamente elaborato, se proviene da una cultura di origine diversa. E questo si è costruito, questa constatazione molto ampia, ha costruito, ha dato adito a dei tentativi di risposte differenziali di tipo genetico ai farmaci, risposte differenziali di tipo psicologico ai farmaci, di tipo genetico, e risposte differenziali ovviamente diverse a seconda delle diversità delle culture ad adattarsi a certe esigenze ambientali. Non solo, ma anche, la capacità di inserirsi in ambienti molto flessibili o meno. Detto questo, quindi diciamo una base socio-culturale, capiamo bene perché Hartmann, che ha una origine ben determinata, come tanti altri colleghi della psicologia dell'Io che poi hanno dato luogo, poniamo, alla struttura della pianura ungarica di Kohut, perché tanti colleghi abbiamo avuto questa esigenza di passare, proprio pragmaticamente, da un sottofondo che tutto appiattiva in una uniformità archetipica di risposte, e gli Junghiani non sono ancora arrivati a questa distinzione differenziale, e invece una diversità di risposte a seconda della matrice culturale di provenienza; qui la duttilità della prassi di origine freudiana ha determinato la possibilità del passaggio a un più o meno scopertamente dichiarato neo-freudismo. Ecco perché io facevo riferimento anche alla cara Hornay. Certamente si inserisce a questo punto di vista un discorso che è stato poi quello che ha dato a dito a certe proteste del tipo marcusiano del adattamento all'ambiente, come segnale di un'avvenuta guarigione o di una avvenuta compensazione. Il tema che Lei ci propone in discussione è un tema pesante, perché ha delle implicazioni socio-politiche da un lato, e dall'altro lato porta, diciamo quasi inavvertitamente, la psicoanalisi delle pulsioni a scivolare nell'ambito di una psicoanalisi più delle relazioni. In fondo, l'adattivo è collegato al concetto di relazionale. E' che, una volta che va prendendo sempre più piede l'impostazione di questa psicologia post-freudiana, o neo-freudiana, parlo degli statunitensi, naturalmente una volta che questo cresce si apre di più l'orizzonte all'accettazione di altri tipi di psicoterapie fino all'accettazione di psicoterapie più o meno settarie, come ad esempio la……. (?), tutti questi gruppi che poi voi…
Quindi la mia risposta a questa Sua domanda è indirizzata in duplice senso, vanno approfonditi degli studi socio-politici e socio-economici che condizionano questo passaggio da una psicologia dichiaratamente poggiata sulle pulsioni e quindi su una metapsicologia indiscutibile, su questi tipo di orizzonti che, peraltro, è anche ampiamente rappresentato, a una psicologia diciamo pure psicoanalitica, che è molto più aperta alla relazione, sia per la spinta,
avevo accennato poc'anzi, data 60 anni fa da Sullivan, con il ruolo della psichiatria interpersonale, e tutto quel gruppo
che è enorme, sia perché la pressure, la pressione esercitata da altre componenti culturali, non ultima quella esistenzialista che negli Stati uniti, specie nella Scuola di Chicago, ha ricevuto una forte impronta, basti fare due o tre nomi, ma Rollo May è uno fra i tanti, ecco questo tipo di pressione indubbiamente ha esercitato qualcosa sui colleghi dell'American Psychoanalitical Association. Oggi comunque, per quello che ne posso sapere io, qui da noi, e quando dico da noi dico non solo in Italia, ma in altre parti in Europa, mi riferisco in particolare alla Francia, c'è una generale messa in questione, senza dire messa in crisi ma mettere in questione, mettere sul tappeto tutta la validità della problematica post-freudiana, primo fra tutti, non c'è bisogno forse che ve lo dica ma io ci sono stato molto attento, è la scuola lacaniana. Lacan veramente ha fatto una compatta, pesante irruzione sulla psicoanalisi francese. Oggi, per esempio, nella Enciclopedia universale Francese, tutti gli articoli di psichiatri, psicopatologia e psicologia sono direi 9 su 10 di marca lacaniana. L'école de Paris detta legge. Dove invece troviamo un uniformarsi forse anche un po' piatto alla vecchia analisi ortodossa freudiana è nell'America del Sud, in particolare l'Argentina, che è il grosso vivaio del freudismo attuale. Direi le grande reservoire, la grossa riserva. La collega, Maria Lucrecia Rovaletti, che dirige il reparto di psicologia fenomenologica che è molto fiorente all'università di Buenos Aires e siamo molto amici, mi diceva che loro sono inondati da una impostazione vetero-freudiana che negli ultimi anni ha assunto le dimensioni quasi di una crociata come recupero di un padre che era stato tradito dai suoi figli. Dall'altra parte assistiamo invece, specie nella Gran Bretagna, a delle dimensioni che radicalmente sono diverse, se voi pensate che cosa ha significato per la psicoanalisi all'epoca degli anni '30-'40, la figura di Melany Klein con tutto il problema del suo rapporto battagliero con Anna Freud, voi vi rendete perfettamente conto dell'influsso che il kleinismo ha sulla psicoanalisi attuale della (?) eccetera, e voi riuscite a capire quanto variegato sia il destino di un certo freudismo, come si è andato molto.. (?). C'è un altro punto che mi preme di sottolineare in base alla Sua domanda. Io personalmente non sono, diciamo, né per natura ne per elezione un radicale degli estremismi, me lo perdoni l'amico Di Petta, penso però che non possiamo ridurre una terapia del singolo, con tutto quello che ha detto, solo alle finalità adattive in una società che diventa sempre più intollerante della libertà del singolo e quindi io a questo punto preferisco che sia data libertà al nevrotico di gestire la propria nevrosi piuttosto che obbligarlo in un certo qual modo a una terapia, e in questo senso mi scuso di doverlo di dire in un ambiente che è tutt'altro che, ambiente in generale, è favorevole a quello che dico io, in questo senso io credo che il comportamentismo ha delle gran colpe delle quali dovrà sicuramente rendere conto, non subito forse, ma indubbiamente sì, perché sotto il comportamentismo c'è questo enorme, pesante tentativo di ipotecare la libertà delle scelte del singolo.
C'è qualche… soddisfatto o dobbiamo rivedere certi punti?

Intervento: “Io volevo fare un'affermazione, più che altro anche da una domanda che Di Petta ci proponeva ieri in maniera magari così sferzante. La situazione della fenomenologia oggigiorno, nel senso storico ed epistemologico, nel senso che i fenomenologi, proprio perché parlano del vissuto, sono obbligati a farlo sotto una forma narratologica…”

Callieri: “Sotto una forma?”

Intervento: “Narratologica... e quindi per questo tacciati di essere poeti, letterati, filosofi.. diciamo la scusa ufficiale delle scienze…”

Armezzani : “Mica è un'offesa….. magari essere poeti”

Intervento: “ Questa è la scusa ufficiale delle scienze per non voler accogliere questa cosa. Quello che volevo chiedere io è se Lei poteva tracciare uno stato attuale e quindi anche raccogliere questa domanda che si è persa ieri, del Prof. Di Petta, della fenomenologia e di come invece si potrebbero trovare altri sistemi per.. perché poi appunto in questa disputa si passa per poeti ma di questi vissuti di cui si parla si perde completamente tutto…”

Callieri: “Grazie, la domanda è molto, molto stimolante. Mi rincresce che è andata via Francesca Sbraccia perché ho dato a lei un lavoro recente mio sulla verità narratologica o verità esistenziale, che è uscita adesso nella nostra attualità in psicologia, perché in questo mio piccolo contributo c'è secondo me l'abbozzo di tutto quello che, secondo me, dovrebbe essere presso di noi lo sviluppo di una ulteriore critica alla metapsicologia. Cioè l'incidenza di quanto questa dimensione narrativa ha su tutti noi e forse anche un po' di più su certi pazienti. Ho finito recentemente di leggere un libro di un interesse estremo che vi consiglierei, recentissimo, di Ricoer, edito dalla Press Universitè de France (?), dal titolo: “……….”, Memoria, Storia, Oblio, non dimenticarsi, dove il lavoro della memoria, quindi del ricordare, è intimamente legato, voi sapete che Ricoeur è l'autore di quella trilogia “Le …” Il Racconto, cos'è il racconto, dove egli integra certi aspetti di una teoresi freudiana che rischiava di diventare costruita rigidamente sulla accettazione di tematiche, non voglio eccedere nei termini, ma di tematiche che potevano essere in parte mitologizzate ed equivocate. Ecco da questo punto di vista si muove, soprattutto oggi nella scuola svizzera di Basilea, schaff, tutta questa revisione linguistica del narrare, da cui poi ha mutuato (?) . E quindi la mis an question, la messa in discussione, di certe mitologie analitiche, che al loro tempo hanno invece costituito quasi il pericolo di ipostatizzarsi, prendiamo il mito di Edipo, ma non è solo l'Edipo, ne abbiamo tanti. Ecco, da questo punto di vista, di questa corrente diciamo culturalista della psicologia e psicopatologia di oggi, noi dobbiamo veramente accettare questo spiraglio di critica che ci offre una visione narratologica nel rapporto con il paziente, la dovremmo accettare perché ci consentirebbe di guardare le cose non attraverso delle griglie radicalmente univoche e legiferate, ma attraverso delle griglie che di volta in volta sono diverse e che, in un certo qual modo, sono esse stesse espressione, creativa o meno, o frutto di nevrosi, questo non mi interessa, espressione della storicità del singolo. Perché il singolo è farsi storicamente, non è semplicemente essere portatore di un evento valido una volta per tutte, e magari continuamente rimescolato in espressioni diverse. Il singolo, c'era una frase di un filosofo famoso che diceva: “L'uomo è uomo in quanto si fa ogni giorno uomo”. Questo metteva naturalmente un po' in discussione tutto questo aspetto di una base. Quindi il problema della narratologia a cui Lei mi induce, adesso sentiamo quello che dice Gilberto Di Petta, in aggiunta a questo che ho detto io o forse illuminando di più, secondo me oggi potrei dire, dai miei anni, che l'analisi del futuro necessariamente deve essere un'analisi narratologica, deve essere un po' più scaltrina, non dobbiamo farci irretire da schemi precostituiti, che quasi sempre, con ben sapete sono di origine metapsicologica, con ogni rispetto per un metapsicolgia che sappia però muoversi e che non resti irrigidita in griglie prefissate. Tu aggiungi…”

Di Petta: “La ringrazio Professore, tutto questo secondo me diventa molto più plastico, evidente nel momento in cui noi teniamo presente che qui si compie, qui c'è una forbice, il passaggio dall'Io al Da-sein, cioè dall'Io alla Presenza,
dall'Io all'Esistenza. Allora se intorno all'Io possono organizzarsi ancora discorsi riduzionistici, meccanicistici, intorno al problema della presenza, dell'Essere-qui, dell'Essere-con, dell'Esser-ci, attorno alla categoria dell'Esistenza, tutte queste cose si frantumano, allora se noi osserviamo l'evoluzione all'interno della psicoanalisi stessa, ci accorgiamo come, il Professore l'ha sottolineato bene….Sì…”
All'interno della stessa psicoanalisi c'è stato il passaggio dal modello archeologico freudiano al modello narratologico, per cui la verità non è più quella che si scava da sotto gli strati, no, la collina di Hisserlich, dove sotto sette strati si trova la città di Troia, no, la verità è costruzione, al limite anche invenzione, la verità è quella che viene fuori nel vissuto, ma tutto questo i fenomenologi l'hanno saputo dal principio. Le storie di vita che comincia a descrivere Binswanger, quando si cimenta con gli psicotici, perché i fenomenologi sono stati i primi che dagli ospedali psichiatrici, perché in fondo Freud non ha mai avuto a che fare con le persone che voi vedete nel vostro tirocinio, se non indirettamente “Le memorie del Giudice Schreber”. Binswanger stava al sanatorio Bellevue, Minkowski e lo stesso Bleuler sono passati per Zurigo, che per certi versi è stato matrice fondante della scuola di Benedetti, cioè voglio dire, in Italia, Cargnello, ospedale psichiatrico di Sondrio, Callieri, ospedale psichiatrico di Guidonia, cioè la fenomenologia è nata da quella sorta di monasteri che sono stati per duecento anni gli ospedali psichiatrici, all'interno dei quali folli e alienisti, come venivano chiamati una volta, sono vissuti completamente segregati dal mondo. Quindi voglio dire, a un certo punto Paul Ricoeur dice una cosa stupenda: “La vita è un racconto alla ricerca di un narratore”, la vita di ognuno di noi è una storia in cerca di qualcuno che la racconti. Perché questo qualcuno non possiamo essere noi, e questo qualcun altro che cerca non può essere il paziente?. In fondo la metafora, su cui anche Paul Ricoeur ha riflettuto a fondo, diventa lo strumento del fenomenologo, la metafora; il tacco che si rompe mentre la paziente di Binswanger scivola sul ghiaccio, per cui cade, è la caduta, è la rottura della trama della sua esistenza. Che cosa si organizza intorno al tacco di una scarpa che si rompe…. Quindi questa categoria dell'Esistenza mi sembra veramente fondamentale come punto di passaggio, che ci consente poi di trovare un comune denominatore tra noi e quelli che venivano chiamati gli alienati, cioè è tutto un campo continuo di umanizzazione dell'alienazione che, quando si riteneva che la follia fosse una cosa divina, non veniva fatto perché comunque il folle veniva riconsegnato, sì, ad un universo di senso, ma era extra umano, diabolico o divino non ha importanza. Oggi c'è la mitologia neurochimica, per cui tutto quello che accade è frutto di meccanismi cerebrali inceppati, quando poi ci dimentichiamo che gli studi non sono fatti su cervelli umani ma su cervelli ci ratti da laboratorio, che non hanno nulla rispetto all'organizzazione morfo-funzionale, stranamente complessa dell'encefalo umano, e, in fondo il salto che la fenomenologia fa compiere a tutto questo discorso è l'iscrizione del mondo psicotico e del mondo normale all'orizzonte della stessa comune Lebenswelt, quindi all'orizzonte dello stesso mondo della vita, che poi uno utilizzi il linguaggio, in fondo, per descrivere il vissuto, non mi sembra che uno debba viverlo con senso di colpa, quando certe parole, certi suoni, soprattutto il linguaggio della fenomenologia che è un linguaggio che parte dalla voce stessa dei pazienti, l'abbiamo visto…. Allora negli anni '50 con il magnetofono, i pazienti che descrivevano le stelle che si spengono, il sole nero della malinconia, insomma sono cose che io non so con quale altro termine noi le potremmo definire, certo non con una formula matematica.”

Callieri: “Ecco…”

Simone: “Stavo pensando ad un concetto che era emerso questa mattina. Noi consideriamo l'Alterità come un elemento estraneo ma che è costitutivo del singolo. Pensavo alle allucinazioni, per esempio le allucinazioni uditive, io sento una voce, questa voce è una voce reale, è una voce a tutto tondo, è assolutamente materia che entra in contatto con me e che io esperisco, io sento una voce vera. Se questa voce io la sento come vera è un Altro, è Altro da me, se è Altro da me allora io in qualche modo mi definisco anche rispetto a questo Altro da me. A questa voce. Allora come possiamo immaginare, non so, di declinare il concetto, il problema della simmetria, della proporzione, della sproporzione, rispetto ad una situazione del genere?”

Callieri: “Certo, rispetto a questo problema dell'asimmetria mi sembra molto appropriato. Il collega tocca un punto della psicopatologia fondamentale, che è quello dentro proprio nel campo psicopatologico.., che è proprio questo problema ci permette poi di rispondere a Lei. La differenza che c'è tra allucinazione (voci) e allucinosi, che sarebbero allucinazioni critiche, accettate. A prescindere, dal punto di vista clinico, da configurazione ampiamente diverse sindromiche delle allucinosi, pensiamo alle allucinosi alcoliche, le allucinosi da sostanze, da mescalina, da intossicazioni croniche, da nefrite cronica, da un lato, e a questo fenomeno così strano e difficile a dirsi che è quello del disturbo psico-sensoriale, cioè non di un disturbo sensoriale, perché la voce non è un'allucinazione, ma ha una componente di carattere psicologico che supera largamente la riduzione alla sensorialità. Ecco, la differenza tra questi due mondi fa vedere come dovremmo aspettarci in uno la radicale presenza, quasi come un aneurisma dissecante dell'aorta, che peraltro resta sempre dell'aorta, pur dissecandola, in una la presenza interna di una perturbante, di un'Alterità disturbante, di un alter ego nemico, se vuoi, ma che intanto c'è e poiché c'è mi permette di dire Io, e dall'altra invece questa voce, insinuante, non passibile di qualunque tipo di critica, che proviene o dall'esterno, o dall'interno, o è diretta direttamente a me, o da uomo o da donna, o è semplicemente la voce di due che parlano di me, facendosi ascoltare da me, c'è tutta questa enorme gamma spazio-temporale delle articolazioni delle voci, voci ad esempio scaglionate nel tempo, una voce che dice in questo momento una critica a me e dopo qualche minuto la voce che gli risponde a me, ma non subito, ecco queste che avevano indotto il grande psichiatra francese Graziano Gaetano De Clerambault, di parlare di automatismo mentale, era bellissimo anche questo concetto, come se si sganciasse qualche cosa e funzionasse per suo conto. Mi sta pur bene, mi sta bene un discorso di neuro riduttori, di neuro recettori, di disturbo di equilibrio particolare dal punto di vista delle modulazioni neuro-chimiche, però mi sta bene anche l'inquadramento che abbiamo prospettato questa mattina perché mi consente di fare più mio l'evento, più o meno drammatico, di colui che lo vive. Certo meno drammatico se assiste incuriosito, o impassibile, o apatico a questi colloqui vocali, più tragico se sono voci imperative e a cui deve obbedire. Quante volte, con buona pace dei criminologi e mi dispiace che Schenardi è andato via, noi consideriamo colpito dal raptus di un momento un dramma che si conclude con delle voci imperative che hanno con cui io ho lottato sempre e poi non ho più potuto resistere ed ho dovuto obbedire. Questi drammi interiori sul piano del piano del criminologo sfuggono, ma è inevitabile che sia
così. Ora, quello che Lei propone adesso, il problema della Alterità come estraneo, fa venire a mente quella mirabile pagina di Freud sul suo momento di depersonalizzazione ad Atene, quando egli nel 1906, mi pare, è lo descrive in una lettera al fratello, ha un momento di depersonalizzazione radicale. Oppure le depersonalizzazioni che sono state descritte molto bene dalla psicoanalista fiorentina Magherini, la sindrome di Sthendal l'ha chiamata, quando con grande partecipazione emotiva tu straniero entri in un mirabile museo di Firenze e ne esci diciamo pure stravolto. Ebbene in tutti questi casi, patologici o non, da rottura di equilibri emotivi delicati e fragili già da prima, oppure erano compatti e sono crollati improvvisamente come un castello di carte, non sappiamo certo per quali misteriose vie, ecco, in tutti questi casi il problema della irruzione dell'estraneo, del perturbante, diceva Freud, Unheimlichkeit, il non essere di casa, tutta l'irruzione di questa cosa qui viene percepita come un Alter che viene dal di fuori, anche se noi lo percepiamo che magari si sia andato formando da dentro ma poi prende corpo per rivenirci addosso. Tutto questo ha a che vedere molto con quello che io avevo appena accennato oggi, il passaggio dall'Estraneo, lo Straniero, ve lo ricordate avevo accennato a Camus, e l'Alter. Alterità a priori non è Estraneità. Quando Cargnello scriveva, nel lontano '66, “Alterità e Alienità”, la prima edizione, eravamo già molto legati da amicizia, lui si faceva un enorme cruccio perché diceva che Alterità non è solo un Alter Ego, ma Alterità è anche qualche cosa di radicalmente diverso, di inassimilabile all'Ego, di corpo estraneo mal digerito e mal digeribile, e quindi una apertura al panorama tremendo della dissociazione. Io mi ricordo ancora questi discorsi, lui era uno scrupolosissimo nel linguaggio, ed erano discorsi delle volte interminabili. Con me c'era Bobi, purtroppo scomparso, poi ci fu molto più tardi Borgna; insomma, Cargnello ti prendeva e ti stendeva per terra, perché era un martello di precisismo, discussione, cavillo della parola, però indubbiamente, in questo ha scavato molto nella coscienza del formulare i termini del discorso. Io ve le devo dire un po' queste cose, perché sono vecchio, le ho vissute, sono state veramente vissute, è stupido che io non ve le dia, come dire, su un piatto d'argento, fatene quello che volete ma Cargnello ha fatto questo, insomma, in un momento in cui regnava radicalmente, come oggi, d'altra parte, una psicologia che però invece di questi neuro recettori si modulava sulla istopatologia, sulle fettine e sui tracciati elettroencefalografici, questo era quando io ero giovane medico. Ecco, quindi quando Lei chiede, come la mettiamo questa voce? C'è un Alter, è un connotato ineludibile l'Alter nel fenomeno voce o è destinata veramente a ……?(?).
Io credo purtroppo che sia questa la seconda ipotesi, convivere con le proprie voci è sempre molto difficile, qui i farmaci ci possono davvero aiutare. Però dobbiamo pagare lo scotto dell'appiattimento dell'emozione. Io ho in animo in questo momento, mentre vi parlo, Maria Teresa, una orami invecchiata psicosi allucinatoria cronica, di cui sono molto amico, ormai vive in… ha 62 anni, una bella giovane era quando la vidi, ora vive in assoluta solitudine, è morta pure la madre, l'unica cosa che la tiene al mondo sono delle assurde telefonate con me, e poi riduzione agli estremi. Lei vive da praticamente 35 anni l'invasione nel suo habitat segreto, intimo, è una donna di un rigore e pudicizia sessuo-fobica, radicalmente, essere invasa da voci lubriche di carabinieri. Prima erano dei carabinieri che, contrariamente ai loro pennacchi, le proponevano cose lubriche. Poi sono diventate invece voci più suadenti, più suasive; lei mi telefonava e mi diceva: “Non vorrei cadere dalla tentazione a che questi veramente di notte veramente vengano”. Poi da tanti che erano sono diventati uno solo, lei non prende medicine particolarmente, non le ha volute mai prendere perché era contraria, perché era radicalmente immersa in questa tremenda realtà interiore, però da un lato temeva che le medicine gliela potessero togliere, lei aveva paura di questo. Ebbene, proprio recentemente mi ha parlato e mi ha detto: “Caro Professore..” Ogni tanto mi chiama per dirmi le cose più assurde, ma crede in quello che le dico io, in tutto fuorché in questo.. “Quante gocce di Valeriana devo prendere, quante volte al giorno?” oppure “Le rape cotte mi fanno male o no? L'uovo al tegamino lo posso prendere al mattino?” tutte domande di questo genere e mai fatte una sola volta ma ripetute dopo nemmeno due minuti, la seconda telefonata: “Mi scusi, non ho capito bene, ripeto la domanda..” Tutto questo, l'ultima volta che l'ho vista, pochissimi giorni fa, mi domanda preoccupata: “Professore, mi sta capitando una cosa terribile..”
“Che è successo Maria Teresa?” “Non sento più la voce…”. Per lei è stato un crollo, questa compagnia interiore che è crollata.. Per me…sono preoccupato anche io, voglio dire, è segno che sta cadendo qualche cosa, o di invecchiamento precoce in questo cervello, o la fine di una pagina, di un capitolo di storia interiore, come si diceva poc'anzi, un capitolo di storia interiore in cui io posso dire che Maria Teresa non è MAI stata sola. Ha evitato una solitudine interna alla quale invece, adesso è troppo lungo raccontarvi la storia, era stata consegnata da una storia di vita tremendamente isolata. E allora io mi domando delle volte, che significato possano avere queste voci estranee, ma sono poi veramente estranee se ci sono così compagne, diuturne e notturne, da indurci, a telefonare al medico di cui lei si fida per dirgli: “Mi sta accadendo una cosa tremenda…Non ho più la voce”. Ecco questa è una domanda che mi pongo, il mistero di queste cose, cari amici, non finisce mai. Comunque la domanda è molto acuta, spero che sia parzialmente soddisfatto della risposta. Dico solo parzialmente, perché dovendo parlare, mi vengono in mente tanti altri casi che mi indicano, che mi porterebbero a dire esattamente l'opposto di quello che Le ho detto, cioè che non si vede l'ora di liberarsi dall'Estraneo, e spesse volte l'Estraneo che la voce ci dice abitare esternamente è invece dentro di noi. E allora qui, la finestra del quarto piano di viale Eritrea , dico il fatto che sto pensando, mi richiama e mi impedirebbe di dirlo, se precipitata, se non fosse caduta sul telone di un bar, rompendo le ossa al signore che stava di sotto. Quindi sono tante sfaccettature diverse. Quello che a me pare di dovere dire a voi, mi pare che Maria Armezzani sarebbe contenta se sentisse dire questo, quello che mi pare di dovervi dire adesso, è che è molto più arricchente per noi imbattersi in un Altro così problematizzato fuori di noi e dentro di noi, che non illuderci di averlo sistemato con due o tre ricettucce o una iniezione ogni quindici giorni, dopo due o tre anni vediamo cosa diavolo succede. Questa è una verità, questa è una opzione di libertà, che io credo debba avere non solo il medico alienista, come giustamente diceva lui, ma anche il medico alterista, come diciamo oggi.

Intervento: “Volevo dire, nel convegno di Vigodarzere, a Padova, quello su Cargnello….
Rossi Monti ha fatto un intervento sul binomio prassi-teoria rispetto alla psicoanalisi ed alla fenomenologia..
diceva, riporto le sue parole: 'La comprensione in una psicologia fenomenologica serve più ad un arricchimento del patrimonio personale di conoscenza del terapeuta, che a un cambiamento del paziente che verrebbe anzi “empaticamente” defraudato della propria specificità'. Ora, il fatto che Lei ha detto oggi dell'incontro terapeuta-medico, di un dare ed una vere, sembrerebbe quasi che il paziente non riceva niente, sembra quasi da quanto dice. ”
Nel rapporto medico-paziente, e nell'incontro tra un dare ed un avere, che cosa riceve il paziente e come avviene il suo cambiamento nell'incontro con il medico?”

Callieri: “Mah, io credo che non debba ricevere niente da me, deve cogliere dentro di lui certi suggerimenti, ne abbiamo discusso recentemente ad Urbino, con Rossi Monti, quando abbiamo inaugurato questo corso, non è un dare ed un avere, è un possedersi vicendevole di esistenze. Non ha nulla a che vedere con questo dare ed avere, che mi fa venire in mente, per converso, , Fromm . No, non è così, io penso che veramente in questo senso noi dobbiamo dirci con questi pazienti soltanto, questo se lo ricorda bene Gilberto, compagni di strada, facciamo un pezzo di strada insieme. Poi ognuno andrà per la sua strada. Più di questo noi non possiamo fare, ci illudiamo, ma quando facciamo quel pezzo di strada insieme lo dobbiamo fare con tutta la nostra presenza, vale a dire radicalmente. Io su questo consiglierei a voi giovani di essere assolutamente intransigenti, sulla totalità dell'essere compagni di strada. ……..Ecco, La aspettavano. Mi sa che questa è una domanda da Gilberto, però. Vediamo.”

Simona: “Io volevo intervenire rispetto al discorso che ha fatto Lei sull'incontro tra intersoggettcità ed interpersonalità e soprattutto rispetto a quello che ha detto in questi ultimi minuti, mi sono resa conto ed ho riflettutto sul fatto che in questi anni di studio sui libri si è molto discusso, o ci viene comunque insegnata questa nozione della simmetria tra paziente e terapeuta che non c'è, si parla sempre di relazione asimmetrica, del terapeuta con le sue nozioni che aiuta il paziente.”

Callieri: “Proprio quello che dicevamo adesso poc'anzi, no? Brava…”
Simona: “Sempre in relazione al contatto con i pazienti psicotici, che noi abbiamo, personalmente mi sono resa conto di come in questa asimmetria non la colga nella relazione. Anzi… anche quando Patarnello è intervenuto parlando di questa asimmetria, realmente nel qui-ed-ora della relazione, io non l'ho mai colta. Anzi io credo che lo psicotico abbia una sensibilità tale che tocca delle tua corde inauditamente profonde, forse anche per il ruolo che noi…”

Callieri: “Ti scuote dalle fondamenta..”

Simona: “..e questo non so se è ben legato al ruolo che noi abbiamo in ospedale che non è né di assistenza né di terapia. Forse questa condizione ci permette di tastare….”

Callieri: “Questo è un ruolo privilegiato. E' un ruolo di carenze gravi istituzionali, ma privilegiato. Che ti permette un contatto, che altrimenti con il tuo bel camicino non avresti.”

Simona: “forse sì.. ed io ho, anzi credo, dal mio punto di vista, che questa non simmetria permette la reale condivisione della relazione, la comunicazione che io vado a condividere, non con una posizione privilegiata. Infatti mi sono molto ritrovata quando Lei ha detto che non è un dare ed un ricevere ma è un cammino che si percorre assieme, che però è diametralmente opposto a quello che noi leggiamo nei libri. Perché, comunque, negli esami di colloquio, dove ti insegnano così pedissequamente come affrontare un colloquio con un paziente, al di là che esso sia nevrotico, border o psicotico, io non ho… “

Callieri: “Però Lei capisce, cara amica, che non si può insegnare come affrontare un incontro. E' come dire ad un pianista come puoi suonare questo pezzo? Ci sono cento modi diversi, non c'è un modo uniforme. Non solo, ma io vi dirò, parlo da una esperienza ormai cinquantennale, che ci sono dei giorni che le cose mi vanno molto meglio con i pazienti, non so perché, e non dipende forse nemmeno dai pazienti, e delle volte molto peggio, senza con questo dire che è necessario per ognuno di noi sei anni di trattamento psicoanalitico, lui fortunatamente si è riscosso ad un certo punto. Ecco, questo però mi fa pensare, questo che dici tu, che avevo preparato, poi dopo se abbiamo tempo, che la dimensione dell'incontro con il paziente, con lo psicotico, diciamo in generale, è una dimensione, oggi lo possiamo dire con sicurezza, empatica. Non è una dimensione concettuale, non è una dimensione che Husserl avrebbe potuto toccare, pur essendo il nostro maestro, è una dimensione empatica, è diversa. L'ha potuta toccare l'ebrea convertita Edith Stein, proprio perché probabilmente era adusa a dei pathos enormi, da filosofa husserliana ebrea a carmelitana. C'è un passaggio immane, e le pagine sull'empatia certo Husserl le avrà lette quasi con fastidio, nella mia fantasia me lo immagino. Non so se le abbia mai pur lette. E poi c'era sempre questa differenza incolmabile tra un professore universitario tedesco e la giovane ebrea, non dimentichiamolo. Quindi la dimensione empatica dell'incontro, e qui io, proprio un discorso a cuore aperto, da vecchio psichiatra a giovani psichiatri, direi, questa è una via che dovete per forza portare avanti, anche se sul principio vi graffia molto le mani, pazienza, però è una via che avete scelta, fatti vostri, non c'è niente da fare. Io me lo sono tante volte domandato, ma chi me l'ha fatto fare di fare lo psichiatra, non potevo fare il dentista, a quest'ora sarei stato ricco… chissà perché, forse perché ognuno di noi ha dentro di sé questo desiderio di andare sullo scomodo, perché è andare sullo scomodo. Prima lei e poi tu..”

Anna: “Si stava parlando dell'incontro, adesso. Prima si era detto che se noi incontriamo un'altra persona, incontriamo anche l'Altro dell'Altro, che sono io. Quindi ci troviamo di fronte, in un certo senso, non soltanto a Lei, ma anche a quello che Lei vede di me. E secondo me due sono le situazioni drammatiche in cui posso trovarmi: 1)il fatto che non sia d'accordo con quello che Lei vede di me .2) o che, addirittura, mi renda conto che lei non mi stia vedendo affatto. E qualche volta in ospedale si ha la sensazione di non essere nell'Altro, nella percezione dell'Altro. E questo è uno dei momenti….ieri si parlava di paura…uno dei momenti allucinanti, che bisogna sopportare… e Lei ha parlato di empatia adesso e credo l'empatia sia una di quelle cose a cui ci si aggrappa e si spera che esista un contatto… ”

Callieri: “Hai ragione.. Brava, hai proprio ragione… Scusa, e infatti di questo fa fede una cosa, a lui l'ho detta tante volte, quando io dopo sei anni di ospedale psichiatrico, per avere litigato con il nostro datore di lavoro, me ne sono andato, molti striscioni sono apparsi dentro l'ospedale, certamente non scritti dai tenitori dell'ospedale, che dicevano: “Callieri non te ne andare”. Probabilmente erano queste persone che avevano capito che io gli avevo smosso bene le acque, a questi qui, perché le acque hanno, aspettano sempre, quelle quiete, per lo più, di essere smosse. Un acqua cheta non può andare, tu la devi frugare, qualche nuvoletta deve venire fuori sempre, e poi lì c'è la vita. Tu che mi dicevi?”

Chiara: “Stavo pensando.. stiamo girando tutti intorno allo stesso discorso, quello dell'incontro, quello che ha la valenza affettiva più forte. Stavo pensando all'incontro con lo psicotico, come una rottura nei nostri schemi, una rottura in tutto ciò che è certo, di tutto ciò a cui tu ti aggrappi, della sensazione di mancanza, di non avere la terra sotto i piedi e di morte della tua… ieri si parlava di possibilità di esistenze, della possibilità di poter esistere in diverse maniere, e penso che nell'incontro che abbiamo avuto noi con queste persone abbiamo scoperto la possibilità di re-inventarci ogni giorno di più. Perché ogni giorno c'era la morte della nostra immagine che rinasceva nell'incontro con l'Altro. Incontro… il momento più forte era scoprire che dall'altra parte eri passato e che magari non eri tu Anna, non ero io Chiara, ma era un'immagine. Però non era più lui da solo nel suo mondo ma era un Noi, ed in quel Noi c'eravamo anche noi, come una figura, come un qualcosa di impalpabile… Così come lui… lui , perché parlo di un paziente in particolare che abbiamo conosciuto… però come lui ci aveva trasmesso il suo mondo tanto da arrivare al punto di poter vedere quasi la stessa cosa, e nonostante lui vedesse la montagna in un palazzo ed io vedessi un palazzo, e stavamo guardando la stessa identica cosa, noi eravamo nel suo mondo con un Noi, con un'immagine..
Il giorno dopo era una nuova immagine che dovevi creare e la cosa della morte e della rinascita che continuava a proseguire era il fatto di questo sottile filo dorato che continuava ad esserci, cioè il fatto di non aver comunque perso niente, comunque c'era un nesso, c'era un qualcosa, anche se non sembrava..”

Callieri: “Complimenti, perché non è qualcosa di recitato a memoria, è di autentico. A questo intervento tuo mi piacerebbe tanto che rispondesse Gilberto.”

Di Petta: “E' una cosa che ci incanta sempre, siamo due giorni che parliamo di psicosi, parliamo di qualcosa che è considerata ancora oggi degenerativa, cioè qualcosa che è paragonata come dicevo ai paesaggi lunari, polvere, sassi, silenzio, solitudine, autismo, autismo povero, schizofrenia negativa tipo II, riduzione ai lobi frontali, riduzione dei piani temporali, addirittura deficit cognitivi, ci siamo sorbiti anche questa, studi neuropsicologici, pazienti schizofrenici in base… che sono stati .. (?) con le check-list, per vedere se sapevano fare il raccontino della WAIS. Voi ci state testimoniando quello in cui noi abbiamo creduto e continuiamo a credere, che, e utilizzo una frase che tiro fuori da qualcosa che forse appartiene più al Prof. Callieri come orizzonte, anche spirituale di riferimento, sicuramente non a me, la pietra scartata dai costruttori è diventata testata d'angolo. Noi stiamo continuando a parlare di qualcosa che ci sta trasformando mentre ne parliamo, e qualcosa nella quale scopriamo una ricchezza inaudita. Anche se poi non sappiamo bene dove andiamo a parare, non sappiamo quanto, delle nostre esistenze personali, questo naufragio, che facciamo, comunque, sempre insieme al paziente come viandante, dover ci porterà, chi saremo dopo ogni paziente, da quello che dice l'ultima amica che ha parlato, chi saremo dopo la prossima trasformazione, dopo il prossimo incontro? Io ci tengo a lasciarvi anche con questa immagine, di questa storia straordinaria tra un clinico e una donna, e mi riferisco ad Enrico Morselli e alla paziente Elena. Elena, 25 anni, pianista, diplomata al conservatorio di Milano, dotata di una straordinaria sensibilità, si ricovera nel maggio del 1925 presso la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali del Prof. Besta, che era un neurologo di chiara fama. Giovanni Enrico Morselli, laureatosi a Pavia nel 1924, allora era un ragazzo che aveva l'età vostra, e Morselli incontra Elena. Qui stiamo parlando di qualcosa che è addirittura pre-fenomenologico, perché in quegli anni non possiamo dire che c'era un'attenzione fenomenologica, le cose cominciavano ad organizzarsi ma, insomma, siamo molto lontani, ma siamo molto lontani anche da qualcosa che è pre-psicoanalitico, perciò io ritengo che sia fondamentale, e noi non sappiamo esattamente come è andata la storia tra Elena ed Enrico. Però sappiamo che hanno, diceva il Prof. Callieri, condiviso un incontro ed un percorso all'interno di quella struttura. Da un lato, da parte di Elena, vengono i segni netti del costituirsi di una esperienza forte di significato, Elena attinge ad un Autre Monde, cioè questa dimensione altra, inafferrabile dal martelletto che cerca i riflessi, dall'elettroencefalografo che graffia la carta col pennino, però c'è, Enrico lo sente, e dentro di lui passa subito la preoccupazione per ciò che è primario e secondario, ciò che endogeno, esogeno, ciò che è sviluppo, ciò che è processo. Il Dottor Morselli si coinvolge completamente nel tentativo di afferrare i brandelli di quest'altro mondo e di quest'altra vita a cui Elena, la paziente schizofrenica, allude. Il carattere vivido, per esempio, estremamente partecipato dell'esperienza allucinatorio-delirante di Elena, e le notti in cui l'infermiera di turno sveglia questo giovane medico di guardia, ed egli si trova di fronte alla scena di Elena, come un fantasma o, mi piace dire, come una musa di Klimt, curva sul pianoforte, suona delicatamente e disperatamente le “Polacche” di Chopin, o “Il chiaro di luna” di Beethoven. Sono quadri che anche da soli smontano, sono quadri che smontano per sempre, ogni presunta anaffettività, difettualità delle sindromi schizofreniche. Non si può parlare di psicoterapia vera e propria, forse non se ne potrà mai parlare, noi fenomenologi siamo condannati a curare le persone senza dirlo, senza dire neppure che le stiamo curando, che le abbiamo curate. Certamente Morselli è una persona che ha studiato, che cita anche l'impianto freudiano, ma quello che il loro incontro fa saltare ogni tipo di setting, perché nell'ambito di una struttura come quella, come sono quelle in cui voi incontrate l'esperienza psicotica, non si può assolutamente parlare di setting, non si può parlare di setting quando Maria Teresa telefona a Bruno Callieri per comunicargli la comparsa o la scomparsa delle voci, lì siamo in un campo che va oltre ogni possibile prescrizione di contesto terapeutico, e a un certo punto Besta ha scaricato la paziente, cioè il primario neurologo dice, per me, non so, boh, occupatene tu. Quindi ecco che, da dove parte il nostro incontro, parte da dove cessa ogni tentativo da parte degli altri, da dove gli altri scaricano, noi cominciamo, dove cominciamo? Dalla disfatta; ci sono uomini che accettano di combattere battaglie quando pensano di vincerle, uomini che accettano di combatterle quando hanno 50 possibilità di vincere, 50 possibilità di perdere, ci sono uomini che accettano di combattere battaglie sapendo che sono perdute in partenza. Elena durante le sue crisi deliranti parla in francese, quindi è completamente dissociata e Morselli le risponde in francese, accorre al suo capezzale durante le crisi, le impedisce più volte il suicidio accompagnandola in camera con dolcezza, accetta di conversare con lei tutta la notte. Alla dimissione, nel 1928, Elena appare sufficientemente reintegrata, Morselli continua a vederla sul piano dell'amicizia. Quanti pazienti professore Lei ha seguito per amicizia, al di fuori ed al di là di ogni contesto di ordine terapeutico. Elena muore, Elena muore per un processo infettivo che subentra ad un certo punto, Morselli ne scrive la storia. E' difficile poter dire cosa è stato questo incontro, è difficile formalizzare questa relazione, certamente c'è una componente estetica, lirica, artistica, Elena legge e commenta Mallarmè, Baudelaire, D'Annunzio, Proust. Agli occhi di Morselli Elena si presenta come una figura tragica, delicata di donna ricolma di sensibilità e d'inespressa e non vissuta sensualità, che si avvia lentamente a svanire, come la Ellen West di Binswanger. Quante di queste esistenze sono state eternate, sono state fissate, sono state giustiziate, nel senso che a loro è stata resa giustizia dagli uomini, non voglio più neanche dire dagli psicopatologi, ma dagli uomini che le hanno incontrate. Morselli fa di tutto per sottrarre Elena alla malattia, ma non può sottrarla al suo destino, e a un certo punto c'è tutto, e in fondo anche la morte viene accettata come esito, epilogo, di una sensibilità troppo grande per poter accettare dei compromessi con l'esistenza. Ci sono momenti che, di fronte allo psicotico, noi dobbiamo pensare anche questo, dobbiamo pensare che ci sono follie che salvano dalla morte, che ci sono follie che consentono ad alcuni tragitti esistenziali la prosecuzione di vite altrimenti improseguibili. E poi, la ricerca successiva che Morselli fa di Elena, quando si chiude in casa, nel giugno del 1932, prende la mescalina per sperimentarne gli effetti su se stesso, a un certo punto vede la Salomè danzare e le mani di Chopin correre sul pianoforte. Elena, la visionaria allucinatissima, in quel momento forse è ancora con lui. E volevo anche chiudere questo intervento che il professore mi ha consentito di fare, con una citazione. Con una citazione che viene da una psicoanalista, non da un fenomenologo, lei si chiama Arrigoni Scortecci, Nina Arrigoni Scortecci. Dice: “Quello che questi pazienti cercano in una tale situazione non è uno specialista, come viene segnalato da più parti, quanto piuttosto un viandante”. Forse più semplicemente questa fantasia esprime qualcosa che ha più a che fare con il dolore dell'Esistenza, il desiderio di trovare sulla strada qualcuno che percorra la stessa strada, qualcuno che porti in posti illusori, dove sia possibile iniziare una nuova vita, dove nessuno sappia chi sei, che cosa fai e non fai, cercando dove ci sia qualcuno a cui accompagnarsi, a cui raccontare, essendo creduti, la storia inverosimile della propria vita, la singolarità del mondo allucinatorio e delirante, in una condizione di reciproco anonimato, di parità , che nulla chiede e nulla deve. Sono, questi pazienti, gli ……e ….. della vita, gli Charlot che con la loro malinconia camminano per le strade del mondo, senza una attività costante, non saprebbero mantenerla, senza relazioni coinvolgenti, sarebbero carboni ardenti, senza mete, sarebbero beffarde, fate morgane.”

Prof. Callieri: “Grazie per l'intervento. Adesso volevo sentire se c'era qualche altra vostra sollecitazione di chiarificazione, perché dopo volevo dire, in conclusione, due parole su un altro tema. Prima sentiamo però se c'è qualcheduno di voi che vuole sollecitare questo momento magico di incontro ed anche di cronologie così differenti. Bene, allora prima di finire, questo nostro vivere oggi in questo ambiente universitario, e questo è un ambiente universitario indubbiamente, innanzitutto devo ringraziare voi per l'attenzione che avete mostrato, anche a una tematica che è insolita, perché è una tematica che esige, come dire, una tensione dell'attenzione non indifferente. Io ho scritto recentemente un lungo contributo sulla fenomenologia dell'attenzione, l'ho pubblicato su “Formazione in Psicologia”(?) e ritengo che questo problema dell'attenzione dovrebbe essere da noi psicologi e psichiatri molto più attentamente studiato, scusate il giochetto di parole, di quello che fin qui si è fatto. Il problema dell'attenzione è un problema che è poi legato con (?) alla densità dell'incontro, un incontro disattento non è un incontro. Un incontro disattento mi fa pensare a quello che dice un caro amico psicoanalista, Lucio Russo, mi fa pensare alla cosiddetta indifferenza dell'anima. Ecco, quindi vi ringrazio di questo. Perché ho potuto verificare che non ci sono poi tutti questi limiti di tempo, mezz'ora, tre quarti d'ora, quando c'è la mutua attenzione, si può andare avanti anche oltre l'ora, l'ora e mezza. E poi dovrei dirvi, in chiusura di questo che abbiamo detto oggi, un consiglio che mi sembra giusto fare a voi, non dobbiamo dimenticare che, diversamente da ogni altra esperienza, di ogni altro medico, proprio diversamente, che ci fa essere veramente diversi, è che è sul piano verbale che si realizza, nella sua piena autenticità, l'incontro dello psichiatra, o dello psicologo, col mondo dello psicotico. Questo incontro tramite il linguaggio; che significa questo? Che lo strumento essenziale dello psichiatra è il logos, logos come matrice io direi della sua creatività terapeutica; la terapia non è per noi una arida, attenta, coscienziosa messa in atto di schemi prefissi, consigliati dai manuali, la terapia come la intendo io è continua creatività nel rapporto con l'altro, è un continuo aprirsi di orizzonti, delle volte anche a sghimbescio, spesso illuminanti appieno la vita che ci sta di fronte, drammatica o gioconda che sia. La consapevolezza che in me si è sempre accresciuta di questo, l'importanza del linguaggio, e che mi auguro si accresca anche in voi, giustifica perché oggi ci sia una così crescente attenzione ai problemi, allo studio dei problemi del linguaggio. Io ho avuto la fortuna di parlare con degli eccellenti linguisti al laboratorio di linguistica dell'università di Siena, faccio un po' parte del gruppo linguistico dei senesi, in fondo poi Siena è la patria della lingua italiana, e ho trovato fra costoro, una capacità di comprensione dei problemi che noi psichiatri sentiamo dover esporre agli altri di gran lunga superiore a quella che avrei trovato in un'aula di pura medicina. Questo è importante, perché questa consapevolezza che ci fa vedere come ci dobbiamo avvicinare sempre di più ai problemi del linguaggio, significa che noi dobbiamo mirare sempre di più alla comunicazione dei significati, anche i paradossi. La comunicazione dei significati come analisi della semantica linguistica. Se io avessi un potere didattico io introdurrei, obbligatoriamente, lo studio della semantica linguistica nei corsi di psicologia, ma uno studio attento, accurato, che vada alle flessioni della semantica linguistica dei trovatori, sublimi poeti, di tanti secoli fa, alla semantica linguistica degli orizzonti culturali attuali tra i più diversi dai nostri o dai più degradati. E allora vorrei chiudere, ovviamente, con una parola di un grand uomo, ne abbiamo parlato poco anche perché pieno di contrasti, ma quello che ha detto ha detto, Martin Heidegger, il quale dice: “Il linguaggio è la dimora dell'essere. Al suo riparo abita l'uomo.””
(Applausi)
“Grazie, vi ricambio volentieri. A ben rivederci, se Maria Armezzani ce lo consente.”