5.2) Epicuro

 

    Sul terreno gnoseologico Epicuro è il pensatore a cui toccherà, in un certo senso, risolvere quelle contraddizioni che la confusione Leucippo/Democrito trascinava con sé. Lo farà conferendo coerenza all’atomismo attraverso alcune importanti innovazioni. Egli, infatti: a) ridimensiona l’importanza della “figura” degli atomi, introducendo col “peso” [1] un elemento più materiale a fondamento del moto, b) sostituisce il movimento vorticoso degli atomi (casuale in Leucippo, necessario in Democrito) con la loro caduta sulla verticale, c) perfeziona il concetto di casualità ma nello stesso tempo anche quello di autonomia, introducendo una declinazione (klisis) nella caduta che favorisce lo scontro tra gli atomi, ma la cui causa può essere sia esogena e sia endogena, d) riduce i processi conoscitivi esclusivamente alla sensazione, eliminando la conoscenza razionale di Democrito. Sul terreno dell’etica Epicuro sviluppa quella democritea in termini più spiccatamente sensistici ed edonistici, riallacciandosi anche a quella cirenaica [2] (colla quale è stata spessa confusa in epoca cristiana), ma “intellettualizzandola” ed eliminadone alcune rozzezze. Il piacere si radicalizza come principio eudemonistico unico del vivere (non senza derivarne qualche aspetto anche anche all’Etica Nicomachea di Aristotele) ma è un piacere assai più della mente che del corpo. Un piacere fisico-psichico temperato di intellettualità, realizzabile soprattutto attraverso l’eliminazione dello spiacevole e del turbativo, piuttosto che nella pura ricerca del godimento. Epicuro (come già Democrito) rifiuta il piacere smodato e intenso, considerato negativo in quanto transitorio, instabile e turbativo, mentre consiglia quello misurato ed equilibrato, in quanto foriero di uno stato in cui il corpo, la mente e la sensibilità personale contribuiscono ad una condizione di rilassata tranquillità, ideale per l’attività filosofica.

    Per comprendere adeguatamente l’evoluzione dell’ateismo antico e il suo sfociare nella teoresi epicurea occorre tenere conto del salto temporale che separa Democrito da Epicuro. Tra i due c’è quasi un secolo, e in mezzo le scuole post-socratiche, il pensiero di Platone e soprattutto quello di Aristotele, l’edonismo cirenaico, la matematica dei post-pitagorici, la medicina di Ippocrate, le ricerche naturalistiche di Teofrasto, la storiografia di Erodoto, Tucidite e Senofonte. Ma in meno di un secolo è soprattutto cambiato lo scenario politico; il mondo classico della polis è stato messo in crisi dall’espansionismo di Filippo il Macedone e suo figlio Alessandro sta per conquistare ed unificare il mondo antico verso Oriente. L’uomo greco perde via via la sua identità di cittadino integrato nella ristretta comunità della polis, diventando libero suddito di un grande impero, dove tradizioni ed usanze si diluiscono in un più vasto orizzonte. In tale clima anche la cultura filosofica assume una nuova configurazione, che rende più attuale l’atteggiamento cosmopolita e individualista che era stato di Democrito, il quale aveva in tal senso certamente precorso i tempi. La cooptazione di divinità extraelleniche allenta i legami della religione tradizionale con lo stato e si fa strada un pluralismo culturale prima sconosciuto, in cui anche l’ateismo ha modo di prendere piede.

    La dimensione individualistica che si va instaurando non può che allontanare le persone dalla sfera pubblica, conducendole verso la loro sfera privata; l’etica si sgancia così dalla politica, perdono validità le virtù civiche e si accentua la riflessione sulla singolarità individuale e sui problemi dell’esistenza. Tutto questo favorisce il grande successo della filosofia epicurea, che pure si sviluppa nella riservatezza della comunità chiusa del Giardino. Essa diverrà nota come una razionale e pragmatica lettura materialistica del cosmo e della natura e come base per l’instaurazione di un etica senza dèi. Essi vengono infatti trasferiti in un luogo del cosmo lontano dagli uomini e dai loro problemi, in una sorta di dorato ghetto di indifferenza e di beata apatia. [3] Un operazione per certi versi quasi più blasfema dell’aperto ateismo di un Leucippo e di un Democrito, poiché degli dèi qui non si nega l’esistenza, ma li si rende inutili, antropologicamente privi di alcun significato. L’aggettivo “divino”, che Democrito usava per qualificare gli atomi sferici (più “nobili”) del fuoco e dell’anima, viene assunto dal linguaggio filosofico epicureo per qualificare dei “modelli” di felicità e non per indicare essenze dalle quali attendersi qualcosa, sia nel male che nel bene.

    Epicuro nasce nel 342 a. C. in un zona periferica dell’Ellade; assimila attraverso buoni maestri indirizzi filosofici differenti e per alcuni versi antitetici (il platonismo e l’atomismo), a 32 anni incomincia a insegnare la “sua” filosofia, che è uno sviluppo di quella di Democrito. Vi è qualche apporto dei Cinici sul piano dell “autarchia” individuale, ma dove la provocatoria “naturalezza” di un Diogene, liberata dai bisogni imposti dalle convenzioni sociali (ed in quanto tale “contro” la società) viene fusa con l’edonismo cirenaico dando luogo a una ricerca del piacere intimo, che non si oppone alla società ma le diventa estraneo. La vita pubblica, con le sue tensioni e le sue polemiche, viene espunta dalla sfera individuale, venendo invece privilegiata la ricerca e la riflessione, col fine ultimo di conseguire l’aponìa, poiché l’assenza di dolore è già in se stessa la miglior forma di piacere stabile. La sfera del “pubblico” diventa così una realtà da evitare per i suoi effetti perniciosi sulla riflessione filosofica e quale impedimento peril raggiungimento della felicità. Quando Epicuro giunge ad Atene prende dimora in un sobborgo di periferia, in una casa circondata da un grande orto e prossima all’aperta campagna e questa casa in mezzo al verde diventerà il Giardino, un luogo silenzioso e confortevole, dove il maestro coi suoi allievi (in realtà un gruppo di amici) si incontra per rilassarsi, per riflettere e per conversare.

    L’epicureismo gode verso la fine del IV secolo a.C. di un contesto sociologico e culturale indubbiamente favorevole; la filosofia di Epicuro si diffonderà in seguito soprattutto verso Occidente, permeando (insieme allo stoicismo) la cultura romana; ciò fino all’irrompere del Cristianesimo e al suo successivo instaurarsi quale religione di stato. E tuttavia esso non verrà mai annullato, arrivando a lambire persino la trionfante teologia cristiana e ad insinuarsi tra le sue pieghe, e non sempre soltanto come esempio biasimevole di perversione e sregolatezza [4], vi sono anzi giudizi decisamente favorevoli [5]. I frequentatori del giardino sono una sorta di aristocrazia intellettuale e nello stesso tempo un esempio estremo di democrazia d’estrazione; esso infatti è aperto anche alle donne e agli schiavi, due categorie che per ragioni diverse erano state escluse dalla cultura classica. Ma Epicuro non era personaggio esente da pecche: dalle discussioni del giardino [6] era esclusa ogni altra filosofia che non fosse la sua; pur dovendo molto a Democrito egli negava di aver ripreso il suo pensiero (parrebbe arrivando persino a definirlo “giudice di chiacchiere”), instaurando infine tra i suoi allievi un vero e proprio culto della personalità.

    Diogene Laerzio ci rende una biografia di Epicuro sostanzialmente encomiastica, ma nella quale (per dovere di cronaca) riporta una serie piuttosto lunga di maldicenze e diffamazioni sul suo conto. Il suo carattere (pareva facile all’insulto e alla derisione) non risulterebbe tale da essersi attirato molta simpatia, ad eccezione di quella dei suoi discepoli, che rasentava spesso la devozione. Sembrerebbero però, queste diffamazioni, perlopiù dovute ad un sostanziale fraintendimento della sua filosofia, che presentandosi come fondata sul piacere non poteva che generare diffidenza, soprattutto tra i postplatonici e gli stoici. Vale la pena comunque di citare qualcuno di questi fenomeni diffamatori, perché potrebbero essere all’origine, o almeno concause, di atteggiamenti e scritti di Epicuro il cui contenuto è volto soprattutto a difendersi dagli attacchi al suo pensiero e alla sua vita privata [7].  Scrive Diogene:

 

    Lo stoico Diotimo, manifestò la sua ostilità a Epicuro calunniandolo molto amaramente con la pubblicazione di cinquanta epistole scandalose sotto il nome di Epicuro […] inoltre, prostituiva uno dei fratelli e conviveva con l’etera Leonzio e faceva passare per sue la dottrina atomistica di Democrito e quella edonistica di Aristippo […] E a Pitocle, che era un giovane bello: «Mi assiderò – scrive – ed aspetterò che tu, mio desiderio, giunga da me, simile a un dio» […] E viene anche citato un passo della sua opera Del fine, così: «Non so quale bene io possa concepire, se eccettuo i piaceri del gusto o le gioie dell’amore o i piaceri che derivano dall’udito o dalla contemplazione della bellezza» […] Ed Epitteto lo chiama cinedòlogo, ovvero predicatore di sconcezze, e lo critica molto aspramente. […] Inoltre Timocrate … riferisce che Epicuro era così dedito alla dissolutezza che vomitava due volte al giorno […] E che Epicuro molte lacune aveva nella preparazione scientifica, ma ancora maggiore ignoranza mostrava nelle questioni della vita quotidiana […] [8]

 

Per precisare subito:

 

Ma la follia di questi critici è evidente. Perché il nostro uomo ha sufficienti testimoni della sua invincibile probità di sentimenti verso tutti: la patria che l’onorò con statue di bronzo; gli amici, il cui numero fu tale […] l’ininterrotta continuità della sua scuola […] e l’innumerevole schiera dei discepoli […] e la gratitudine ai suoi genitori, la benefica generosità verso i fratelli, la mitezza verso i servi […] [9]

 

Fino ad una piuttosto improbabile religiosità unita all’amor di patria: [10]

 

Le parole non riescono a rappresentare la profondità della sua disposizione spirituale verso gli dèi e di amor di patria. [11]

 

E ad un’invece più probabile sobrietà e frugalità unita ad amicale socievolezza:

 

[…] E gli amici venivano a lui da ogni parte e vivevano insieme con lui nel giardino, come riferisce anche Apollodoro […] con un tenore di vita molto semplice e modesto. «Si contentavano – dice – di una ciotola di vino, ma di solito bevevano sempre acqua». […] Ed egli stesso dice nelle Epistole che si contentava solo di acqua e di un semplice pane. [12]

 

E relativamente alla sua formazione culturale:

 

Apollodoro nella sua Cronologia dice che Epicuro fu allievo di Nausifane [e di Prassifane]. Ma, invero, Epicuro lo nega e nella lettera ad Euriloco affema di essere autodidatta. [13]

 

Quella di negare sistematicamente ogni debito verso i pensatori precedenti è una vera e propria strategia di Epicuro, che in ogni occasione tende a valorizzare se stesso e a sottolineare l’originalità del suo pensiero. In questa prospettiva (a meno che si tratti di pura disinformazione) va anche posta la negazione dell’esistenza di Leucippo. Infatti, pur ammettendo di malavoglia “qualche” debito verso Democrito, egli potrebbe aver cercato di “eliminare” letteralmente Leucippo (da cui Democrito ha tratto praticamente quasi tutta la sua fisica) e “giocarsela” soltanto con l’Abderita sull’attribuzione dell’originalità delle proposte atomistiche.     

    Diogene Laerzio ci ha anche tramandato, fortunatamente, alcuni documenti originali di Epicuro che ci permettono di accedere direttamente al suo pensiero: tre Epistole, le Massime capitali e il Testamento [14]. Cominceremo con l’Epistola ad Erodoto, una sorta di compendio della fisica di Epicuro, destinato a coloro che non hanno la possibilità di studiarne a fondo la dottrina della natura. Ne riporteremo i passaggi principali, ovvero quelli che presentano delle varianti significative rispetto all’atomismo di Democrito, accompagnandoli con un breve commento o una nota a pié di pagina quando opportuno:  

 

(38) […] è in base alle sensazioni che dobbiamo tenere conto di tutte le nostre esperienze sensibili e in genere di ogni atto apprensivo immediato, sia esso un atto conoscitivo della mente o delle stesse affezioni, che si producono in noi per essere in grado di fare induzioni, sia su ciò che attende conferma, sia su ciò che sfugge al dominio dei sensi. […]

(39) Infatti che i corpi esistano è attestato universalmente dalla sensazione stessa che costituisce anche il necessario  punto di partenza per inferire con la ragione ciò che non cade sotto i sensi. [15]

 

Come avevamo anticipato, nel riprendere Democrito, Epicuro pone in sottordine la conoscenza basata sul ragionamento (secondaria) e si affida a quella fornita dai sensi (primaria). E precisa appunto che la sensazione è il “necessario punto di partenza” di ogni inferenza della ragione. In ciò si coglie il pragmatismo e l’empirismo di Epicuro, che vuole eliminare ogni fonte di equivoco relativamente alle nostre possibilità cognitive. Ma questa sua posizione riprende anche quella dei Cirenaici, che consideravano le sensazioni le uniche fonti di conoscenza. Epicuro passa poi ad alcune precisazioni che riprendono l’atomismo di Democrito nel sottolineare che gli atomi rimangono immutati nella dissoluzione dei loro composti. Essi, infatti, si muovono incessantemente ed eternamente nel vuoto e non vengono percepiti dai nostri sensi che sono attivi soltanto nei confronti delle sostanze composte. Dopo averci detto che i mondi sono infiniti (ma già lo sosteneva Leucippo) Epicuro riprende la teoria degli èidola democritei, con qualche interessante precisazione:

 

(46) […] queste immagini noi chiamiamo simulacri (èidola). Il loro movimento attraverso lo spazio, poiché avviene senza incontrare alcun ostacolo di corpi contrapposti, compie ogni percorso immaginabile in un tempo inconcepibilmente veloce: è infatti la presenza o l’assenza di urti che produce lentezza o velocità […] (47) […] perciò la sua velocità [dell’èidolon] sarà adeguata agli ostacoli incontrati […] (48) Oltre a ciò la produzione dei simulacri avviene con la stessa velocità del pensiero. Infatti dalla superficie dei corpi si diparte un continuo flusso di simulacri con una velocità pari a quella del pensiero. Questo flusso dalla superficie dei corpi è incessante [ma non vi è riduzione dl corpo in quanto la materia che lo costituisce si riforma continuamente]; tale flusso conserva per molto tempo la disposizione e l’ordine che gli atomi avevano nei corpi solidi, sebbene qualche volta avvenga che possa subire un certo disordine. Per di più nell’ambiente esterno a noi si verificano improvvise e rapide combinazioni o concrezioni (sustàseis) perché esse non richiedono che la pienezza del corpo si costituisca anche in profondità. [16]

 

Viene poi introdotta la “vibrazione” all’interno dell’atomo, grazie alla quale gli èidola che partono dall’oggetto ne conservano l’esatta forma:

 

(50) Tali immagini si muovono con grande velocità e per questa ragione danno la visione dell’oggetto nella sua unità e compattezza e per di più conservano la corrispondenza dell’oggetto da cui provengono conformemente all’armonico impulso che ha radici nella vibrazione degli atomi che avviene nella profondità del corpo solido da cui le immagini si dipartono.

 

L’èidolon dice sempre il “vero” dell’oggetto da cui parte, ma è la nostra mente che può distorcere i contenuti del messaggio:

 

    L’inganno e l’errore dipendono sempre da ciò che la nostra opinione aggiunge a quello che attende di essere criticamente confermato o almeno non contraddetto; ciò per un moto che in stretta connessione con la facoltà immaginativa e tuttavia da essa distinto produce in noi l’inganno. […] non si potrebbe dare alcun errore se non si producesse in noi un altro movimento connesso in qualche modo con la percezione intuitiva e rappresentativa ma anche  distinto da essa. È a causa di questo moto, dunque, che si verifica l’errore nel caso esso non riceva conferma o riceva prova contraria; se invece viene confermato e non riceve prova contraria abbiamo la conoscenza vera. [17]

 

Si ha qui l’impressione che Epicuro, dopo aver messo fuori dalla porta la conoscenza razionale (o autentica) di Democrito, la faccia poi rientrare dalla finestra, poiché ci pare che possa essere solo la ragione a farci evitare quel “movimento” improprio che distorce l’immagine e che per contro può effettuare la “conferma” del messaggio che ci è pervenuto dagli  èidola.  Per quanto riguarda l’udito e l’olfatto sono sempre i flussi eidolici a determinare la sensazione, ed essi viaggiano come suoni e come odori.

    Occupiamoci ora delle proprietà degli atomi e facciamo un passo indietro al paragrafo (43) dove Epicuro, certamente a conoscenza della Metafisica di Aristotele nella quale veniva rimproverato agli Atomisti di non aver chiarito la natura del moto degli atomi, prova a perfezionare la teorizzazione leucippeo-democritea. Troviamo così l’introduzione del concetto di un declinazione (in greco κλισις, tradotto poi da Lucrezio con clinamen) nella traiettoria degli atomi:

 

    Gli atomi poi sono in continuo moto (43) e gli uni cadono perpendicolarmente, gli altri declinano spontaneamente dal moto retto, gli altri rimbalzano per l’urto; di questi poi gli uni nel loro moto divergono lontani fra loro, gli altri trattengono questo stesso rimbalzo, quando siano respinti dagli atomi che ad essi si intrecciano, o quando sono contenuti da altri atomi fra loro intrecciati. [18]

 

Epicuro ci dice che alcuni atomi “declinano” spontaneamente, ma alcuni paragrafi più in là riprende l’argomento introducendo invece un elemento accidentale ed esterno, che chiama prima “ostacolo” e poi solamente “intoppo”:

 

    Per di più: è necessario che gli atomi (61) siano equiveloci, quando procedano attraverso il vuoto senza cozzare contro nulla: perché il pesante non si muoverà più veloce del piccolo e leggero, quando però non trovi ostacolo, né il piccolo del grande, avendo il suo corso sempre in una sola direzione quando nulla contro esso s’opponga; né più veloce sarà il moto in alto né quello laterale per effetto degli urti, né quello in basso per causa del proprio peso: Infatti fino a quando perduri l’una o l’altra specie di questi due moti, il movimento perdurerà veloce come il pensiero, fino a che qualche intoppo non vi si opponga, o dall’esterno, o dal proprio peso, contro l’impulso ricevuto da ciò che produsse il rimbalzo. [19]

               

    Nel vuoto il moto verticale degli atomi è completamente libero; che cos’è dunque che può produrre resistenza o impedimento sì da “deviare” tale moto? Epicuro non lo precisa. Ciò che se ne deduce è che la caduta in verticale degli atomi può, a causa di “qualcosa” di indefinito, subire una deviazione di traiettoria. Ma a mutare la traiettoria non può essere che un elemento “casuale” presente nel vuoto, che viene a trovarsi o che si pone sulla traiettoria dell’atomo. All’urto segue un “rimbalzo”,  contro cui il peso dell’atomo farebbe opposizione. L’urto avviene quindi con un oggetto esterno e casuale, ma pare che ad esso segua una sorta di “opposizione” interna; se ne deduce che: la declinazione avviene a) spontaneamente, oppure b) perché la traiettoria è deviata da un ostacolo incontrato nella caduta, ma in questo caso il peso dell’atomo “si oppone alla deviazione”. Abbiamo quindi due cause del clinamen, la seconda, esogena e casuale, a cui si oppone il peso dell’atomo e la prima in cui l’atomo “spontaneamente” devia dalla propria traiettoria. Ma questo farebbe pensare che l’atomo possegga una specie di libertà di deviare il proprio percorso, concetto peraltro non esplicitato, ma che farebbe pensare a quanto già Democrito aveva espresso come “automatismo” interno all’atomo (però non libero ma necessitato). Il concetto di questa supposta libertà verrà ripreso e tematizzato da Lucrezio nel De rerum natura (II, 252) trasferendo poeticamente il comportamento dell’atomo a quello dell’uomo, con un’operazione analogica di sicuro effetto lirico, ma di cui non può sfuggire l’arbitrarietà.

    L’epistola ad Erodoto prosegue trattando dell’anima e sostanzialmente ancora sulla linea di Democrito, ma con la preoccupazione di legarla indissolubilmente al corpo e fugare quindi ogni ipotesi sulla sua trascendenza rispetto ad esso:

 

(63) Dopo di ciò, facendo riferimento alle sensazioni, alle affezioni o sentimenti – così infatti assicureremo un saldissimo fondamento alla nostra teoria – bisognerà considerare che l’anima è una sostanza corporea composta di sottili particelle, sparsa per tutto l’organismo, assai simile ad un soffio mescolato a calore, affine all’uno e all’altro [20].

[…] Ciò è immediatamente manifestato dalle capacità dell’anima, dai sentimenti interni, dalle sue affezioni, dalle passioni, dalle intellezioni e da tutte quelle facoltà alla cui privazione cessiamo di vivere. (64) Bisogna ritenere con certezza che la causa della sensazione risiede nell’anima; essa non l’avrebbe mai avuta se non fosse in qualche modo contenuta nel restante organismo. [21]

 

Le sensazioni sono pertanto la fonte di ogni conoscenza e possono darsi all’uomo solo grazie all’anima, che è anche all’origine delle emozioni e dei sentimenti. Ma essa è fatta di materia ed è tutt’uno col corpo, in una sorta di sinergia per cui le sue funzioni vivificano il corpo e nello stesso tempo ne sono dipendenti, infatti: 

 

(65) […] Non è possibile, infatti, concepire l’anima come senziente se non in questo complesso di anima e di corpo, né pensare che essa possa avere i medesimi moti sensitivi quando il corpo che la contiene e la circonda non è più tale da consentirle quei suoi movimenti […] [22]

 

Quindi non è l’anima che vivifica il corpo, ma è il corpo che vivendo rende possibile il funzionamento dell’anima. Per Epicuro non solo l’anima non è immortale (come pensava Platone), ma non è neppure principio e fonte di vita per il corpo. D’altra parte, nulla di incorporeo esiste, se non il vuoto:

 

(67) Bisogna ancora considerare che ciò che diciamo incorporeo, secondo l’accezione più generale del termine, si riferisce a ciò che può esser pensato come esistente per se stesso; ma in realtà niente di incorporeo può essere pensato come sussistente eccetto il vuoto. [23]

 

Da qui il giudizio inappellabile sui seguaci di Platone:

 

[…] Perciò quelli che affermano che l’anima è incorporea vaneggiano; se lo fosse non potrebbe né agire né patire (68) mentre è evidente che l’anima possiede entrambe queste qualità contingenti. [24]

 

Come l’anima non esiste senza un corpo di riferimento, così le qualità essenziali di un corpo (forma, colore, dimensione, peso, ecc.) sono pensabili soltanto come inerenti ad esso [25], pur esistendo anche altre qualità puramente contingenti e definite per convenzione. Come pure è convenzionale la nozione di “tempo” in quanto mezzo “di misura”:

 

(72) si deve anche ritenere per certo che non possiamo porre il problema del tempo allo stesso modo di tutte le altre proprietà che si osservano nell’oggetto riferendoci alle anticipazioni [26] che troviamo in noi stessi, ma bisogna considerarlo in base a quella evidenza immediata per la quale noi diciamo “molto tempo” o “poco tempo”, […] [27]

 

    I mondi hanno origine nell’infinito e sono di forma diversa, così come diverse, ma non infinite, sono le forme delle cose che li costituiscono. Ma ogni mondo possiede una forma determinata, come determinata è la “natura” che genera gli esseri viventi e che si evolve “apprendendo” dalle circostanze. Così è accaduto che una sua parte, la ragione dell’uomo, abbia in seguito appreso e sviluppato le conoscenze primarie. Infatti:

 

(75) Bisogna anche supporre che la natura apprese molte e diverse cose e molti impulsi, costretta a ciò dalle circostanze; la ragione degli uomini, in seguito, ha perfezionato ed ha aggiunto nuove scoperte a quanto era stato indicato dalla natura più rapidamente in alcuni casi, più lentamente in altri, e in determinati periodi di tempo secondo un processo più rapido, in altri più lento. [28]

 

Questa integrazione dell’uomo nella natura da cui deriva è estremamente importante, perché determina una definizione della genesi del linguaggio a partire dalla natura stessa:

 

Per cui anche i nomi delle cose non furono originariamente stabiliti per convenzione, ma a crearli fu la natura stessa degli uomini che a seconda delle diversità delle stirpi, provando particolari emozioni e ricevendo particolari percezioni, emetteva anche l’aria in maniera propria improntata dal singolo stato d’animo e dalla particolare percezione secondo le differenze esistenti tra i luoghi in cui si trovavano a vivere. (76) Più tardi poi, di comune accordo nell’ambito di ciascun popolo furono stabilite particolari espressioni per potersi capire reciprocamente con maggiore chiarezza e concisione. [29]

 

Mentre Democrito privilegiava l’aspetto “convenzionale” del linguaggio Epicuro ne accentua invece l’origine “naturale”, integrando, sia il linguaggio sia l’animale che lo ha creato e lo utilizza, con la natura stessa.

    Secondo Epicuro un “qualcuno” (Dio o Primo Motore) che regolasse i movimenti degli astri ne sarebbe in qualche modo dipendente e ciò non si accorderebbe con la beatitudine che conviene a un dio, perciò il modo d’essere e di muoversi di essi dipende esclusivamente “dal modo in cui essi si originarono”. Ma neppure essi stessi sono dèi, proprio in quanto il loro movimento contrasterebbe col loro status divino. Opponendo così a una spiegazione causale di tipo teologico una spiegazione naturale e razionale il Nostro fissa un criterio estremamente importante rispetto al monismo di una causa divina o ad una divinità degli astri stessi, quello della pluralità delle cause naturali:

  

    Perciò, se giungessimo a rinvenire le molteplici cause delle rivoluzioni, del sorgere e del tramontare, delle eclissi e degli altri fenomeni simili, non dovremmo credere che su questo punto non si sia arrivati a quella conoscenza necessaria per il (80) raggiungimento della tranquillità e della felicità. […] Così se riterremo che un fenomeno possa verificarsi in una data maniera, ma riconosciamo che esso può verificarsi in più modi, conserveremo la tranquillità proprio come se realmente sapessimo che esso si verificherà in quella determinata maniera. [30]

 

Quindi l’approccio pluralistico alla realtà garantisce non soltanto la correttezza delle tesi cosmologiche, ma anche la condizione etica della tranquillità di chi sa di esser nel giusto. Infatti: 

 

(81) È necessario soprattutto riflettere su questo: il più grave turbamento dell’anima dell’uomo ha le sue origini nella credenza che i corpi celesti siano perfetti ed eterni e nello stesso tempo possano avere volontà, azioni, intenzionalità in contrasto col loro stato; […] [31]

 

    L’epistola ad Erodoto si chiude con una esortazione ad attenersi sempre alla sensazione, quale principio conoscitivo fondamentale, nei termini seguenti:

 

(82) […] La perfetta tranquillità dello spirito consiste nella libertà da questi errori e timori e nel tenersi fermi nella mente i principi generali e fondamentali. Per cui bisogna sempre attenersi all’immediatezza delle sensazioni e delle affezioni che si verificano in noi, secondo un criterio generale per quelle generali, secondo un criterio particolare per quelle particolari, e attenersi all’evidenza immediata in accordo con ognuno dei nostri criteri di giudizio. Se così ci comporteremo, sapremo trovar la causa dell’origine dei nostri turbamenti e delle nostre paure e ce ne libereremo indagando le ragioni dei fenomeni celesti e di tutti gli altri che tanto timore arrecano agli uomini. [32]

 

    L’Epistola a Pitocle inizia con una ripresa del principio della pluralità delle cause, ma essa tratta poi quasi esclusivamente dei fenomeni del cielo e dell’atmosfera considerati sotto i loro molteplici aspetti (astri, nuvole, tuoni, lampi, terremoti, ecc.) e quindi non riveste particolare interesse per la nostra ricerca. Riporteremo tuttavia la chiusa, nella quale Epicuro muove l’esortazione che segue:  

 

    Tutte queste cose, o Pitocle, tienile bene a mente: potrai così in molte occasioni star lontano dalle favole dei miti e potrai comprendere alte dottrine dello stesso genere. In particolar modo considera attentamente le dottrine che trattano dei criteri conoscitivi [33] delle affezioni e del fine a cui si rivolge ogni nostro ragionare. Quando le avrai bene indagate ti potranno far comprendere facilmente le cause dei fenomeni particolari. Coloro che non amano questo genere di ricerche non potranno mai conoscere bene tutto questo né raggiungere il fine a cui tende tale studio. [34]

 

    Passiamo ora all’Epistola a Meneceo, in cui Epicuro ci consegna il nucleo centrale della sua etica, quella che, secondo un termine ormai in uso, delinea il “quadrifarmaco”, ovvero quella sorta di terapia contro il male di vivere, contro i dolori e i turbamenti irrazionali, che permette il raggiungimento del piacere di vivere e della felicità spirituale. Questo eudemonismo radicale si esprime in quattro punti principali: a) Liberazione dal timore degli dèi, che per la loro natura non si occupano degli uomini, b) Liberazione dalla paura della morte, c) Acquisizione della consapevolezza che la felicità è facilmente raggiungibile, d) Apprendimento del modo corretto di sopportare il dolore, che è quasi sempre passeggero e comunque meno temibile di quanto si pensi. [35] Essa si apre così.

 

 (122) Nessuno che sia giovane indugi a filosofare, né divenuto vecchio si stanchi di filosofare, perché non si è mai né troppo giovani né troppo vecchi per acquistare la salute dell’anima. Chi dice che l’età per la filosofia non è ancora venuta o è già passata è come se dicesse che non è ancora giunta o è già passata l’età per la felicità. [36]

 

L’esortazione determina un rapporto indissolubile tra filosofia e felicità; questa va conseguita in ogni fase dell’esistenza e quindi non esiste un’età privilegiata per filosofare. Per il giovane filosofare significa maturare ed allontanare ogni timore per il suo futuro, per il vecchio significa mantenersi giovane ed essere soddisfatto di aver vissuto. Poiché solo la filosofia procura felicità, che è il massimo bene a cui aspira l’uomo. La frase successiva precisa:

 

[…] Per prima cosa considera la divinità come un essere vivente, immortale e felice, secondo quanto suggerisce la nozione del divino quasi impressa in noi dalla natura e non attribuirle niente che sia estraneo all’immortalità e discordante con la beatitudine. Perché gli dèi esistono: evidente è infatti la loro conoscenza. Ma non esistono nella forma in cui li concepisce il volgo togliendo loro ogni fondamento di esistenza reale. Empio non è colui che rinnega gli dèi del volgo, ma colui che riferisce agli dèi le opinioni del volgo. Infatti i giudizi del volgo a proposito degli dèi non sono prenozioni ma (124) false supposizioni. Perciò a causa di esse si usa ricondurre agli dèi i più grandi danni e i più grandi benefici. Non avendo intimità che con le proprie virtù essi accolgono coloro che sono loro simili, considerando estraneo chi non è conforme alla loro natura.

 

Il passo si presenta come una grande metafora filosofica, nella quale è dato cogliere i principi fondamentali dell’etica epicurea attraverso i vari passaggi che la compongono. Nella prima frase citata si afferma che la divinità va considerata “come” un essere vivente, immortale e felice, in accordo con la “nozione” che la natura ha “impresso”, soprattutto “non attribuendole” niente di discordante con l’immortalità e la beatitudine. Ma l’immortalità è degli atomi, che sono alla base di tutto ciò che esiste, mentre la beatitudine è l’apice della felicità a cui ogni uomo idealmente tende; quindi queste entità divine sono dei “modelli” filosofici ed assiologici di riferimento e non essenze dotate di divinità “reale”; perdipiù esse risultano comunque estranee all’uomo nel loro status di immortalità e isolata beatitudine. La frase « Perché gli dèi esistono: evidente è infatti la loro conoscenza.» acquista infatti un senso compiuto soltanto se l’“evidenza” viene riferita alla pregnanza dei principi etici di cui gli dèi sono investiti e dei quali sono soltanto “forma” linguistica. Epicuro è infatti consapevole che “immortalità” e “beatitudine”, in quanto principi astratti e fuori della portata dell’uomo (ma nello stesso tempo immaginati come reali) debbono ricevere un’investitura reale, ancorché puramente simbolica. Gli dèi sono pertanto “simboli” di un’umanità ideale a cui tendere attraverso la filosofia, tale da determinare un’altrettanto simbolica “assenza di morte” nell’orizzonte dell’uomo. Sul piano reale del vissuto vi corrisponde l’aponìa, che predispone alla meditazione filosofica e rende possibile la felicità che ne è suo compimento.

    Il fatto che gli dèi non esistano nella forma in cui “li concepisce il volgo” conferma questa tesi, poiché gli dèi ufficiali della mitologia greca per loro natura sono eminentemente “come li concepisce il volgo”, vale a dire coinvolti nell’umanità che non si dà la pena di pensarli ”filosoficamente”. Allora essi diventano come li si vuole, differendo solo per rango dall’uomo comune e presentandosi come entità che possono esser blandite con devozione ed offerte, al fine di ottenere da essi favore o protezione. Infatti «i giudizi del volgo a proposito degli dèi non dono prenozioni ma false supposizioni. Perciò a causa di esse si usa ricondurre agli dèi i più grandi danni e i più grandi benefici.» E’ difficile scorgere condanna più radicale di tutta la religione greca dopo quella di Senofane, ma Epicuro è riuscito a porla in modo da non incorrere in una  censura troppo severa, avendo egli asserito preliminarmente e con forza la “realtà” degli dèi. Ma non solo gli dèi “del volgo”, ovvero quelli della tradizione, sono “fuori” dalle prenozioni (dalle prolessi) che anticipano la conoscenza vera, che è quella conseguibile con la filosofia, perciò la frase finale corona emblematicamente (ed anche astutamente) la tesi soggiacente a tutto il periodo. Infatti, non avendo gli dèi che “intimità con le proprie virtù” (con le quali si identificano) essi possono “accogliere” soltanto l’attenzione dei loro simili (ovvero di quelli che filosofano), considerando estraneo chi non è conforme alla loro natura (cioè quelli che considerano gli dèi essenze “realmente” interessate agli uomini e alle loro vicende). Questa frase perderebbe ovviamente ogni senso qualora non la si connettesse alla premessa epicurea che gli dèi sono estranei alla vita degli uomini e che sono collocati in un intermondo privo di alcun rapporto col mondo umano. [37]

    Epicuro passa poi a parlare della morte, un altro elemento topico della sua filosofia, affermando che “niente è per noi la morte”, infatti:

    La retta conoscenza che la morte è nulla, per noi rende godibile la stessa condizione mortale della nostra vita, non prolungando indefinitamente il tempo ma togliendo il desiderio dell’immortalità. [38]

 

Infatti immortali sono soltanto gli atomi che ci costituiscono e che costituiscono la natura di cui facciamo parte, la quale, attraverso le prolessi, ci permette di intuire le cose del mondo e i principi gnoseologici ed etici che lo concernono. Chiude questo passo la frase famosa:

 

[…] quando ci siamo noi non c’è la morte, e quando essa sopravviene non ci siamo più noi. Ma il volgo ora fugge la morte come (126) il più grande dei mali ora la cerca come cessazione dei mali della vita. Il saggio, al contrario, non rifiuta la vita né teme la morte; non è contrario alla vita né ritiene che sia un male non vivere. [39]

 

Si noti che, qui come altrove, il termine “volgo” va contrapposto a “saggio” e non riferito all’estrazione sociale (che come sappiamo per Epicuro era priva d’importanza), ma piuttosto alla categoria di coloro che non perseguono la saggezza, ovvero non coltivano la filosofia (per questa ragione altre traduzioni sostituiscono il termine con la perifrasi “la maggior parte”). [40] Segue un rimprovero verso coloro che non amano la vita e si rammaricano di essere nati, ai quali chiede per quale ragione, coerentemente, non si suicidino. Occorre poi sapere che il nostro futuro non dipende dalla nostra volontà, ma nello stesso tempo non ci è del tutto indipendente: in altre parole (come traduce il Bignone) “non è né nostro né interamente non nostro”. [41] Viene poi affrontato il problema del desiderio, assolutamente centrale nell’etica di Epicuro, e che è espresso in modo straordinario nella sua lapidarietà da una frase a lui attribuita riportata da Giovanni Stobeo (Florilegium, III, 17, 23, p.495 Hense): «Se vuoi far ricco qualcuno, non aggiungere niente ai suoi beni, ma detrai qualcosa ai suoi desider.i». Poiché i desideri sono solo in parte naturali e perlopiù invece vani (e quindi negativi), essi vanno scelti o rifiutati in base ad una previa valutazione della loro natura:

 

[…] Infatti, una sicura conoscenza di essi sa riferire ogni atto di scelta e di rifiuto alla salute del corpo e alla tranquillità dell’anima: questo è il fine di una vita felice. Perché è in vista di questo che compiamo tutte le nostre azioni allo scopo di sopprimere sofferenze e turbamenti. [42]

 

Non si può non cogliere un interessante rapporto della filosofia epicurea col Buddhismo. Qui come là (ma in modo più radicale in questo) viene incriminato il desiderio vano, come sicura fonte di sofferenza, che allontana l’uomo dall’aponia (e in definitiva dall’eudaimonia) per Epicuro e dal nirvana per il Buddha. Dopo aver poi ribadito che «il piacere è principio e fine della felicità», ma che «non tutti i piaceri sono da ricercarsi, così come non ogni dolore è da rifuggirsi» Epicuro ci dice che bisogna sempre valutare attentamente “vantaggi e svantaggi”. Segue allora un altro aspetto fondamentale della sua etica, cioè l’autosufficienza (di derivazione cinica e cirenaica), che è fondamentalmente l’indipendenza dai desideri e dai beni non indispensabili:

 

(130) Consideriamo un grande bene l’autosufficienza, non perché sempre ci debba bastare il poco, ma perché se non abbiamo molto, dobbiamo saperci contentare del poco, profondamente convinti come siamo che tanto più piacevolmente si gode l’abbondanza quanto meno se ne ha bisogno, e che tutto ciò che è secondo natura è facilmente procacciabile, mente ciò che è vano è di difficile attuazione. [43]

 

Ritorna il concetto di “naturalezza”, di sintonia con la natura: che è insieme frugalità e “misura”. Con ciò Epicuro coglie l’occasione per fugare le maldicenze che avvolgono il suo pensiero:

 

    Quando noi diciamo che il piacere è un bene non intendiamo parlare del piacere dei dissoluti e dei gaudenti, come credono alcuni che o non conoscono la nostra dottrina o le sono avversi o la interpretano male, ma il non soffrire in quanto al corpo (132) e il non avere turbamenti nell’anima. Perché non banchetti o feste continue, non godersi giovinetti e donne, né il mangiar pesci o altro che offra una ricca mensa rendono dolce la vita, ma la sobria ragione che scruta a fondo le cause di ogni atto di scelta o di avversione e allontani le false opinioni che rendono gli animi colmi di inquietudine. [44]

 

Da ciò l’elogio della phrónesis (saggezza e prudenza), che è addirittura più importante (in quanto più basilare) della filosofia, in quanto da essa derivano tutte le altre virtù. Epicuro riassume poi i punti principali della sua esposizione (l’atteggiamento verso gli dèi, quello di fronte alla morte, quello delle aspirazioni “secondo natura”, quello del perseguimento della felicità) per stigmatizzare coloro che ritengono che tutto accada “per necessità” ed è evidente con ciò che si riferisce principalmente agli Stoici, ma non meno a Democrito, che come abbiamo visto aveva indebolito la “casualità” leucippea a favore di un maggior necessitarismo nel moto degli atomi, come si evince dalla frase seguente [45]:

 

[…] Era meglio infatti credere ai miti sugli dèi piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici: quelli offrivano una speranza con la possibilità di placare gli dèi con onori, mentre nel fato vi è una necessità implacabile. [46]

 

Epicuro è così preoccupato di difendere la libertà, e con essa la speranza di poter incidere sul proprio destino, che non esita a preferire al necessitarismo persino quella “religione del volgo” contro la quale si era scagliato in precedenza. Prima della frase di esortazione finale e commiato perciò egli fa da ultimo l’elogio della ragione, che sempre deve guidare i nostri atti, contro l’affidamento alla fortuna, della quale il saggio non deve mai tenere conto:

 

[…] è meglio cadere nella sfortuna con retta ragione che avere grande fortuna ed essersi comportati sconsideratamente; perché è preferibile che nelle nostre azioni qualcuna di esse, pur compiuta con ragione, non sia condotta a buon fine piuttosto che un’azione stolta sia condotta a buon fine dalla fortuna. [47]

 

A completamento di questa esposizione dell’etica epicurea riporteremo alcune delle 40 Massime Capitali e qualche altra del Gnomologio Vaticano (81 in tutto, ma parecchie corrispondono a Massime capitali); si tratta di quelle che ci pare aggiungano qualcosa o completino i temi trattati dall’Epistola a Meneceo. Cominciamo con le prime [48]:

 

II – Nulla è per noi la morte: perché ciò che si dissolve non ha più sensibilità e ciò che è insensibile non è niente per noi.

 

III – Non dura ininterrottamente il dolore della carne ma il massimo permane un tempo brevissimo; e quello che appena supera il piacere corporeo non dura molto tempo. Le lunghe malattie poi arrecano alla carne più piacere che dolore.

 

V – Non è possibile vivere felici se non si vive saggiamente, giustamente e bene, né una vita prudente, moderata e giusta senza vivere felici. A chi manca ciò non è possibile vivere felicemente.

 

VIII – Nessun piacere per se stesso è un male, ma i mezzi per procurarsi alcuni piaceri spesso recano molti più turbamenti che piaceri.

 

XI – Se non ci turbasse la paura dei fenomeni celesti e non temessimo che la morte possa essere per noi qualcosa che ci tocca da vicino e non ci nuocesse l’ignoranza del confine dei piaceri e dei dolori, non avremmo alcun bisogno della scienza della natura.

 

XVI – Poca importanza ha la fortuna per il saggio, perché le cose più grandi e più importanti sono preordinate dalla ragione, e così, per tutto il corso del tempo le governa e le governerà.

 

XXI – Chi ha chiara consapevolezza dei limiti della vita sa che è facile liberarsi dal dolore per ciò che manca e ottenere ciò che rende la vita perfetta, pertanto, egli non ha affatto bisogno di tendere a cose che comportino lotta.

 

XXII – Bisogna considerare attentamente il fine reale che ci è dato e fare in modo di riportare tutte le nostre opinioni ad una certezza evidente; altrimenti tutto sarà pieno di dubbi e di inquietudini.

 

XXVII – Di tutti i beni che la saggezza procura per la completa felicità della vita il più grande è l’acquisto dell’amicizia.

 

XXXI – Il diritto secondo natura è il simbolo dell’utilità reciproca al fine che non sia fatto né ricevuto danno.

 

XXXIII – La giustizia non è qualcosa che esista per sé, ma è una convenzione nata nei reciproci rapporti e in quei luoghi nei quali si sia stretto un patto di non recare o ricevere danno.

 

Ed ora alcune massime dal Gnomologio Vaticano:

 

XIV – Una volta sola si nasce, due volte non ci è concesso ed è necessario non essere più per l’eternità; tu però pur non essendo padrone del tuo domani rimandi la gioia; ma la vita se ne va in questo indugio ed ognuno di noi giunge alla morte senza aver mai goduto della pace.

 

XXIII – Ogni amicizia è desiderabile per se stessa anche se ha avuto origine dall’utilità.

 

XXV – La povertà commisurata al bene secondo natura è una grande ricchezza; la ricchezza senza misura è una grande povertà.

 

XXXIII – Grida la carne: non avere fame, non avere sete, non avere freddo; chi abbia queste cose e speri di continuare ad averle potrebbe contendere in felicità con lo stesso Giove.

 

XXXVIII – Assolutamente da poco è colui per il quale sussistono molte ragioni convincenti per abbandonare la vita.

 

LII – L’amicizia tutta intorno, con ritmo di danza trascorre la terra annunciando a tutti noi di destarci all’elogio della felicità.

 

LVIII – Bisogna liberarsi una buona volta dal carcere delle occupazioni quotidiane e dalla politica.

 

LXVIII – Niente basta a colui cui il sufficiente non basta.

 

LXXVII – Il più grande frutto del bastare a se stessi è la libertà.

 

    La preoccupazione che il Giardino continui a vivere come scuola di filosofia e di vita è in queste poche parole del suo Testamento:

 

[…] Ed in continua successione, a quelli che seguano la mia scuola, assegno la dimora del giardino, affinché, insieme con Aminomaco e Timocrate, secondo il loro potere, la mantengano, ed a coloro che succederanno ad essi come eredi, secondo il modo più sicuro di trasmissione, perché conservino il giardino essi pure, come quelli a cui l’abbiano a lasciare i discepoli della mia scuola. [49]  

 

 



[1] Si ricordi che già  Leucippo aveva teorizzato il peso come causa di stratificazione nel vuoto degli atomi, non però come causa del movimento.

[2] Epicuro riprende certamente l’etrica di Aristippo di Cirene nell’assunzione del piacere come fine ultimo della vita. Ne differisce in quanto l’edonismo cirenaico era di tipo dinamico, mentre Epicuro teorizza un piacere di tipo statico. Per Epicuro il fatto stesso dell’assenza di dolore (aponia) è già una condizione di piacere. A questa si affianca l’assenza di turbamento, l’atarassia, che nell’epicureismo successivo acquisterà sempre più importanza, diventando prevalente rispetto all’aponia.

[3] Vittorio Enzo Alfieri ha messo a confronto Democrito ed Epicuro sul problema della divinità, rilevando che mentre il primo adotta un punto di partenza gnoseologico il secondo si baserebbe su esigenze logico-metafisiche relative al suo ideale etico (Il concetto del divino in Democrito ed Epicuro in Studi di filosofia greca a cura di V.E.Alfieri e M.Untersteiner – Laterza 1950, pp.87-120). 

[4] Nota il Bignone: «Chi passi dalla lettura di alcuni frammenti, pur così scarni, delle lettere di Epicuro alle Confessioni di S.Agostino, o alle epistole e ai trattati di S. Giovanni Crisostomo, di S.Basilio o di Gregorio Nisseno, s’accorge che l’epicureismo fu il tramite, per cui l’antichità mosse a condizioni di spirito che il Cristianesimo sembra aver tratte dal proprio fondo.» (L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, vol.II, p.223) e più avanti:«Quando S.Agostino, negli anni più agitati della sua giovinezza, meditava di ritirarsi dal mondo coi suoi amici, in un asilo lontano, ove vivere tra la campagna e gli studi […] non faceva che rinnovare l’ideale stato del saggio epicureo […] (Confess., VI, 26)». (Ivi p.235)

[5] Lattanzio (Divinae Institutiones, III, 7, 7) nota: «Epicuro ritiene che il sommo bene consista nel piacere dell’animo, Aristippo in quello del corpo.» (in G.Giannantoni I Cirenaici, Sansoni 1958, p.324).

[6] Scrive a questo proposito Howard Jones: «La scuola aveva un’organizzazione di tipo gerarchico, dove il ruolo di guida (hegemon) aspettava a Epicuro, il solo a fregiarsi del titolo di “sapiente”. Ci si sottometteva alla sua autorità prestando solenne giuramento. Gli altri membri, chiamati philosophoi, potevano ricoprire le cariche di maestro (kathergemon) come Metrodoro, sostituto di Epicuro, e Polieno; di precettori (kathegetes) come Ermaco, il primo successore di Epicuro; e di discepoli (kataskeuazomenoi).» (in La tradizione epicurea – ECIG 1999, p.32.

[7] È quanto sostenuto da Ettore Bignone (uno dei maggiori studiosi di Epicuro) il quale vede, a cominciare dalla precipitosa e drammatica fuga da Mitilene (accusato di corrompere i giovani), un calvario esistenziale costellato da accuse di empietà e di dissolutezza che avrebbe portato il Nostro a una costante difesa del suo pensiero attraverso chiarimenti o vere e proprie sistemazioni concettuali. Secondo questo studioso Epicuro avrebbe impiegato buona parte del suo tempo e delle sue energie intellettuali per mettersi al riparo, per quanto possibile, dai problemi provocati dagli attacchi dei suoi detrattori (soprattutto i seguaci di Platone e Aristotele, e più tardi gli Stoici) che mettevano in difficoltà la stessa permanenza della sua scuola. Ciò spiegherebbe anche, in qualche fase, le sue esortazioni agli allievi a rispettare gli dèi proprio per allontanare da sé l’accusa di ateismo.

[8] Diogene Laerzio  Vite dei filosofi – Laterza 1983 – vol.II, pp.401-402 passim.

[9] Ivi, p.403.

[10] Nota il Bignone: «[…] Timocrate, come vedremo, accusava Epicuro anche di ateismo. […] Non bisogna infatti dimenticare quanto fosse pericoloso per un filosofo in quel tempo cadere sotto un accusa di empietà» (L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro - vol.I. – pp.475-476).

[11] Diogene Laerzio  Vite dei filosofi – Laterza 1983 – vol.II, p.403.

[12] Ivi p.404.

[13] Ibidem.

[14] A questi documenti va aggiunto il Gnomologio Vaticano (o Sentenze Vaticane). Questo gruppo di massime coincide in parte con le Massime Capitali e sono relative ad un manoscritto scoperto nel 1888   nella Biblioteca Vaticana da H. Wotke e H. Usener. A completamento del quadro complessivo della documentazione su Epicuro va precisato che esistono anche meno importanti frammenti di lettere e di passi di opere perdute. A questi vanno aggiunti gli scritti, le note e i giudizi di autori romani come Cicerone, Plinio, Plutarco, Sesto Empirico, ecc.

[15] Epistème ed éthos in Epicuro (a cura di L.Giancola) – Armando 1998, pp.78-79.

[16] Ivi pp.81-83 passim.

[17] Ivi p.84.

[18] Epicuro Opere (a cura di E.Bignone) – Laterza 1984 – p.45.

[19] Ivi p. 53.

[20]  Impossibile non cogliere qui un forte elemento di polemica nei confronti di Platone, il quale, nel Fedro (245 c e seguenti) aveva esplicitamente affermato: «L’anima è immortale; perché ciò che sempre si muove è immortale. Ora, ciò che provoca movimento in altro ed è mosso esso stesso da qualcos’altro [il corpo], se subisce un arresto di movimento, smette di vivere. Solo dunque ciò che muove se stesso, in quanto non può abbandonare se stesso, mai cessa di essere in moto, anzi è scaturigine e principio di moto di tutte le cose che sono mosse. Ora, il principio non è generato perché, mentre ogni cosa che nasce deve per forza nascere da un principio, questo invece non deve esser generato da niente: se altrimenti il principio procedesse da qualcosa, cesserebbe di esser ancora il principio».

[21] Epicuro  Epistème ed éthos in Epicuro (a cura di L.Giancola) – Armando Editore 1998 – p.89.

[22] Ivi p.90.

[23]  Ibidem.

[24]  Ibidem.

[25] Nota Domenico Pesce nel suo Epicuro (Laterza 1980 – p.43): «Per ottenere il suo scopo [garantire la validità oggettiva della sensazione] Epicuro si vale della dottrina delle categorie (ad Her 68-71) in cui di solito si ravvisa l’influsso di Aristotele ma che risulta, nella sua costituzione, lontanissima da Aristotele. Punto di partenza (ad Her 39-40) è l’affermazione veramente capitale che il tutto è costituito di corpi e di vuoto e che su questo stesso livello ontologico, che noi diremmo aristotelicamente della sostanza, ma che Epicuro designa come quello delle “nature compiute”, nient’altro è non soltanto esistente ma addirittura concepibile

[26] Il concetto di anticipazione o prolessi (πρόληψις) è comune anche alla logica stoica. Le anticipazioni sono quei concetti generali presenti nella mente mediante il quale vengono anticipati i dati dell’esperienza.

[27] Epicuro  Epistème ed éthos in Epicuro (a cura di L.Giancola) – Armando Editore 1998 – p.92.

[28] Ivi p.93.

[29] Ibidem.

[30] Ivi p.95.

[31] Ibidem.

[32] Ivi pp.95-96.

[33] Secondo Domenico Pesce (Introduzione a Epicuro – Laterza 1981 – pp.62-63) nell’Epistola ad Erodoto e nell’Epistola a Pitocle vi è da parte di Epicuro la messa a punto di una dottrina dei principi che si articola in sette punti: 1) Non c’è nascita dal niente né morte nel niente; donde segue che tutto è immutabile. 2) Il tutto è costituito di corpi e di vuoto. 3) I corpi sono o composti o semplici; questi ultimi sono gli atomi. 4) Il tutto è infinito; infinito è il numero degli atomi ed infinita è l’estensione del vuoto. 5) Le figure atomiche sono di numero inconcepibile, ma non infinito. 6) Il movimento degli atomi è eterno, essendo causato dal peso e dal vuoto. 7) Gli atomi differiscono per grandezza , figura e peso.

[34] Epicuro  Epistème ed éthos in Epicuro (a cura di L.Giancola) – Armando Editore 1998 – p.108.

[35] Del quadrifarmaco questo è certamente il punto meno convincente, ma va detto che Epicuro lo ha sempre difeso (vedi la IV massima capitale) e che Diogene Laerzio ricorda le seguenti su affermazioni in una lettera scritta ad Idomeneo in punto di morte: «Volgeva per me il giorno supremo e pur felice della mia vita, quando questo ti scrivevo. Tali erano i miei mali dei visceri e della vescica, che non comportavano eccesso di violenza. Pure ad essi tutti s’adeguava sempre la gioia dell’animo, nel ricordo dei nostri passati ragionamenti filosofici.» (Epicuro Opere (a cura di E.Bignone) – Laterza 1984 – pp.122-123).

[36] Ivi p.109.

[37] Va tuttavia rilevato che questa nostra lettura, aderente al giudizio prevalente sulla filosofia epicurea, non è condiviso da alcuni. Ad esempio, Domenico Pesce scrive: « […] a dispetto della stretta connessione che una mente moderna è portata a porre tra materialismo ed ateismo, nessuno dubita più della genuinità del sentimento religioso di Epicuro e della serietà del suo pensiero teologico. Vero è che questo sentimento e questo pensiero, proprio perché non debbono contrastare con le premesse del sistema, riescono alquanto singolare l’uno e paradossale l’altro, di modo che la teologia epicurea costituisce un unicum nella storia della filosofia.» (D.Pesce (Introduzione a Epicuro – Laterza 1981 – pp.87-88).  Opinione che a noi pare un po’ contorta, poiché, se la filosofia epicurea è un innegabile struttura di grande coerenza filosofica, non si vede per quale ragione dovrebbe diventare un unicum di incoerenza per difendere una supposta “serietà del suo pensiero teologico”.

[38] Epicuro  Epistème ed éthos in Epicuro (a cura di L.Giancola) – Armando 1998, p.110.

[39] Ivi p.110-111.

[40] È questo il caso della prestigiosa traduzione del Bignone (Epicuro Opere – Laterza 1984, p.32). 

[41] Ibidem.

[42] Epicuro  Epistème ed éthos in Epicuro – Armando Editore 1998 – p.111.

[43] Ivi p.112.

[44] Ivi. pp. 112-113

[45] Molti hanno visto in questa frase il motivo di fondo per l’introduzione della klisis (= latino clinamen) e cioè quello di difendere (analogicamente) la libertà dell’uomo nel determinare la propria vita. Secondo questa tesi, non solo Lucrezio avrebbe interpretato correttamente il pensiero di Epicuro, ma la klisis assumerebbe proprio una valenza etica e non fisica, come parrebbe logico pensare. Vedi anche il saggio La dottrina epicurea del “clinamen” di Ettore Bignone in L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro - vol.II - La Nuova Italia 1973, pp.409-456.

[46] Ivi pp.113-114.

[47] Ibidem.

[48] Ivi pp.115-123 passim.

[49] Epicuro Opere (a cura di E.Bignone) – Laterza 1984, p.79.