5.2) Epicuro
Sul terreno
gnoseologico Epicuro è il pensatore a cui
toccherà, in un certo senso,
risolvere quelle contraddizioni che la confusione
Leucippo/Democrito trascinava
con sé. Lo farà conferendo coerenza all’atomismo
attraverso alcune importanti
innovazioni. Egli, infatti: a) ridimensiona
l’importanza della “figura” degli
atomi, introducendo col “peso” [1] un elemento più materiale a fondamento del
moto, b) sostituisce il movimento vorticoso
degli atomi (casuale in Leucippo, necessario
in Democrito) con la loro caduta sulla verticale,
c) perfeziona il concetto di casualità ma
nello stesso tempo anche quello di autonomia,
introducendo una declinazione (klisis) nella caduta che favorisce lo scontro tra
gli atomi, ma la cui causa può essere sia
esogena e sia endogena, d) riduce i processi conoscitivi esclusivamente
alla
sensazione, eliminando la conoscenza razionale
di Democrito. Sul terreno
dell’etica Epicuro sviluppa quella democritea
in termini più spiccatamente
sensistici ed edonistici, riallacciandosi
anche a quella cirenaica [2]
(colla quale è stata spessa confusa in epoca
cristiana), ma
“intellettualizzandola” ed eliminadone alcune
rozzezze. Il piacere si
radicalizza come principio eudemonistico
unico del vivere (non senza derivarne
qualche aspetto anche anche all’Etica Nicomachea di Aristotele) ma è un
piacere assai più della mente che del corpo.
Un piacere fisico-psichico
temperato di intellettualità, realizzabile
soprattutto attraverso
l’eliminazione dello spiacevole e del turbativo,
piuttosto che nella pura
ricerca del godimento. Epicuro (come già
Democrito) rifiuta il piacere smodato
e intenso, considerato negativo in quanto
transitorio, instabile e turbativo,
mentre consiglia quello misurato ed equilibrato,
in quanto foriero di uno stato
in cui il corpo, la mente e la sensibilità
personale contribuiscono ad una
condizione di rilassata tranquillità, ideale
per l’attività filosofica.
Per comprendere
adeguatamente l’evoluzione dell’ateismo antico
e il suo sfociare nella teoresi
epicurea occorre tenere conto del salto temporale
che separa Democrito da
Epicuro. Tra i due c’è quasi un secolo, e
in mezzo le scuole post-socratiche,
il pensiero di Platone e soprattutto quello
di Aristotele, l’edonismo
cirenaico, la matematica dei post-pitagorici,
la medicina di Ippocrate, le
ricerche naturalistiche di Teofrasto, la
storiografia di Erodoto, Tucidite e
Senofonte. Ma in meno di un secolo è soprattutto
cambiato lo scenario politico;
il mondo classico della polis è stato messo in crisi dall’espansionismo
di Filippo il Macedone e suo figlio Alessandro
sta per conquistare ed unificare
il mondo antico verso Oriente. L’uomo greco
perde via via la sua identità di
cittadino integrato nella ristretta comunità
della polis, diventando
libero suddito di un grande impero, dove
tradizioni ed usanze si diluiscono in
un più vasto orizzonte. In tale clima anche
la cultura filosofica assume una
nuova configurazione, che rende più attuale
l’atteggiamento cosmopolita e
individualista che era stato di Democrito,
il quale aveva in tal senso
certamente precorso i tempi. La cooptazione
di divinità extraelleniche allenta
i legami della religione tradizionale con
lo stato e si fa strada un pluralismo
culturale prima sconosciuto, in cui anche
l’ateismo ha modo di prendere piede.
La dimensione
individualistica che si va instaurando non
può che allontanare le persone dalla
sfera pubblica, conducendole verso la loro
sfera privata; l’etica si sgancia
così dalla politica, perdono validità le
virtù civiche e si accentua la
riflessione sulla singolarità individuale
e sui problemi dell’esistenza. Tutto
questo favorisce il grande successo della
filosofia epicurea, che pure si
sviluppa nella riservatezza della comunità
chiusa del Giardino. Essa diverrà
nota come una razionale e pragmatica lettura
materialistica del cosmo e della
natura e come base per l’instaurazione di
un etica senza dèi. Essi vengono
infatti trasferiti in un luogo del cosmo
lontano dagli uomini e dai loro
problemi, in una sorta di dorato ghetto di
indifferenza e di beata apatia. [3]
Un operazione per certi versi quasi più blasfema
dell’aperto ateismo di un
Leucippo e di un Democrito, poiché degli
dèi qui non si nega l’esistenza, ma li
si rende inutili, antropologicamente privi
di alcun significato. L’aggettivo
“divino”, che Democrito usava per qualificare
gli atomi sferici (più “nobili”)
del fuoco e dell’anima, viene assunto dal
linguaggio filosofico epicureo per
qualificare dei “modelli” di felicità e non
per indicare essenze dalle quali
attendersi qualcosa, sia nel male che nel
bene.
Epicuro nasce
nel 342 a. C. in un zona periferica dell’Ellade;
assimila attraverso buoni
maestri indirizzi filosofici differenti e
per alcuni versi antitetici (il platonismo
e l’atomismo), a 32 anni incomincia a insegnare
la “sua” filosofia, che è uno
sviluppo di quella di Democrito. Vi è qualche
apporto dei Cinici sul piano dell
“autarchia” individuale, ma dove la provocatoria
“naturalezza” di un Diogene,
liberata dai bisogni imposti dalle convenzioni
sociali (ed in quanto tale
“contro” la società) viene fusa con l’edonismo
cirenaico dando luogo a una
ricerca del piacere intimo, che non si oppone
alla società ma le diventa
estraneo. La vita pubblica, con le sue tensioni
e le sue polemiche, viene
espunta dalla sfera individuale, venendo
invece privilegiata la ricerca e la
riflessione, col fine ultimo di conseguire
l’aponìa, poiché l’assenza di
dolore è già in se stessa la miglior forma
di piacere stabile. La sfera del “pubblico”
diventa così una realtà da evitare per i
suoi effetti perniciosi sulla
riflessione filosofica e quale impedimento
peril raggiungimento della felicità.
Quando Epicuro giunge ad Atene prende dimora
in un sobborgo di periferia, in
una casa circondata da un grande orto e prossima
all’aperta campagna e questa
casa in mezzo al verde diventerà il Giardino, un luogo silenzioso e
confortevole, dove il maestro coi suoi allievi
(in realtà un gruppo di amici)
si incontra per rilassarsi, per riflettere
e per conversare.
L’epicureismo
gode verso la fine del IV secolo a.C. di
un contesto sociologico e culturale
indubbiamente favorevole; la filosofia di
Epicuro si diffonderà in seguito
soprattutto verso Occidente, permeando (insieme
allo stoicismo) la cultura
romana; ciò fino all’irrompere del Cristianesimo
e al suo successivo
instaurarsi quale religione di stato. E tuttavia
esso non verrà mai annullato,
arrivando a lambire persino la trionfante
teologia cristiana e ad insinuarsi
tra le sue pieghe, e non sempre soltanto
come esempio biasimevole di
perversione e sregolatezza [4],
vi sono anzi giudizi decisamente favorevoli
[5].
I frequentatori del giardino sono una sorta di aristocrazia
intellettuale e nello stesso tempo un esempio
estremo di democrazia d’estrazione;
esso infatti è aperto anche alle donne e
agli schiavi, due categorie che per
ragioni diverse erano state escluse dalla
cultura classica. Ma Epicuro non era
personaggio esente da pecche: dalle discussioni
del giardino [6]
era esclusa ogni altra filosofia che non
fosse la sua; pur dovendo molto a
Democrito egli negava di aver ripreso il
suo pensiero (parrebbe arrivando
persino a definirlo “giudice di chiacchiere”),
instaurando infine tra i suoi
allievi un vero e proprio culto della personalità.
Diogene Laerzio
ci rende una biografia di Epicuro sostanzialmente
encomiastica, ma nella quale
(per dovere di cronaca) riporta una serie
piuttosto lunga di maldicenze e
diffamazioni sul suo conto. Il suo carattere
(pareva facile all’insulto e alla
derisione) non risulterebbe tale da essersi
attirato molta simpatia, ad
eccezione di quella dei suoi discepoli, che
rasentava spesso la devozione.
Sembrerebbero però, queste diffamazioni,
perlopiù dovute ad un sostanziale
fraintendimento della sua filosofia, che
presentandosi come fondata sul piacere
non poteva che generare diffidenza, soprattutto
tra i postplatonici e gli
stoici. Vale la pena comunque di citare qualcuno
di questi fenomeni
diffamatori, perché potrebbero essere all’origine,
o almeno concause, di
atteggiamenti e scritti di Epicuro il cui
contenuto è volto soprattutto a
difendersi dagli attacchi al suo pensiero
e alla sua vita privata [7]. Scrive Diogene:
Lo stoico Diotimo, manifestò la sua ostilità
a Epicuro
calunniandolo molto amaramente con la pubblicazione
di cinquanta epistole
scandalose sotto il nome di Epicuro […] inoltre,
prostituiva uno dei fratelli e
conviveva con l’etera Leonzio e faceva passare
per sue la dottrina atomistica
di Democrito e quella edonistica di Aristippo
[…] E a Pitocle, che era un
giovane bello: «Mi assiderò – scrive – ed
aspetterò che tu, mio desiderio,
giunga da me, simile a un dio» […] E viene
anche citato un passo della sua
opera Del fine, così: «Non so quale bene io possa concepire,
se eccettuo
i piaceri del gusto o le gioie dell’amore
o i piaceri che derivano dall’udito o
dalla contemplazione della bellezza» […]
Ed Epitteto lo chiama cinedòlogo,
ovvero predicatore di sconcezze, e lo critica
molto aspramente. […] Inoltre
Timocrate … riferisce che Epicuro era così
dedito alla dissolutezza che
vomitava due volte al giorno […] E che Epicuro
molte lacune aveva nella
preparazione scientifica, ma ancora maggiore
ignoranza mostrava nelle questioni
della vita quotidiana […] [8]
Per precisare subito:
Ma la follia di questi critici è
evidente. Perché il nostro uomo ha sufficienti
testimoni della sua invincibile
probità di sentimenti verso tutti: la patria
che l’onorò con statue di bronzo;
gli amici, il cui numero fu tale […] l’ininterrotta
continuità della sua scuola
[…] e l’innumerevole schiera dei discepoli
[…] e la gratitudine ai suoi
genitori, la benefica generosità verso i
fratelli, la mitezza verso i servi […]
[9]
Fino ad una piuttosto improbabile religiosità
unita
all’amor di patria: [10]
Le parole non riescono a
rappresentare la profondità della sua disposizione
spirituale verso gli dèi e
di amor di patria. [11]
E ad un’invece più probabile sobrietà e frugalità
unita ad
amicale socievolezza:
[…] E gli amici venivano a lui
da ogni parte e vivevano insieme con lui
nel giardino, come riferisce anche
Apollodoro […] con un tenore di vita molto
semplice e modesto. «Si contentavano
– dice – di una ciotola di vino, ma di solito
bevevano sempre acqua». […] Ed
egli stesso dice nelle Epistole che si contentava solo di acqua e di un
semplice pane. [12]
E relativamente alla sua formazione culturale:
Apollodoro nella sua Cronologia
dice che Epicuro fu allievo di Nausifane
[e di Prassifane]. Ma, invero, Epicuro
lo nega e nella lettera ad Euriloco affema
di essere autodidatta. [13]
Quella di negare sistematicamente ogni debito
verso i
pensatori precedenti è una vera e propria
strategia di Epicuro, che in ogni
occasione tende a valorizzare se stesso e
a sottolineare l’originalità del suo
pensiero. In questa prospettiva (a meno che
si tratti di pura disinformazione)
va anche posta la negazione dell’esistenza
di Leucippo. Infatti, pur ammettendo
di malavoglia “qualche” debito verso Democrito,
egli potrebbe aver cercato di
“eliminare” letteralmente Leucippo (da cui
Democrito ha tratto praticamente
quasi tutta la sua fisica) e “giocarsela”
soltanto con l’Abderita
sull’attribuzione dell’originalità delle
proposte atomistiche.
Diogene Laerzio
ci ha anche tramandato, fortunatamente, alcuni
documenti originali di Epicuro
che ci permettono di accedere direttamente
al suo pensiero: tre Epistole,
le Massime capitali e il Testamento [14].
Cominceremo con l’Epistola ad Erodoto, una sorta di compendio della
fisica di Epicuro, destinato a coloro che
non hanno la possibilità di studiarne
a fondo la dottrina della natura. Ne riporteremo
i passaggi principali, ovvero
quelli che presentano delle varianti significative
rispetto all’atomismo di
Democrito, accompagnandoli con un breve commento
o una nota a pié di pagina
quando opportuno:
(38) […] è in base alle
sensazioni che dobbiamo tenere conto di tutte
le nostre esperienze sensibili e
in genere di ogni atto apprensivo immediato,
sia esso un atto conoscitivo della
mente o delle stesse affezioni, che si producono
in noi per essere in grado di
fare induzioni, sia su ciò che attende conferma,
sia su ciò che sfugge al
dominio dei sensi. […]
(39) Infatti che i corpi
esistano è attestato universalmente dalla
sensazione stessa che costituisce
anche il necessario punto di partenza
per inferire con la ragione ciò che non cade
sotto i sensi. [15]
Come avevamo anticipato, nel riprendere Democrito,
Epicuro
pone in sottordine la conoscenza basata sul
ragionamento (secondaria) e si
affida a quella fornita dai sensi (primaria).
E precisa appunto che la
sensazione è il “necessario punto di partenza”
di ogni inferenza della ragione.
In ciò si coglie il pragmatismo e l’empirismo
di Epicuro, che vuole eliminare
ogni fonte di equivoco relativamente alle
nostre possibilità cognitive. Ma
questa sua posizione riprende anche quella
dei Cirenaici, che consideravano le
sensazioni le uniche fonti di conoscenza.
Epicuro passa poi ad alcune
precisazioni che riprendono l’atomismo di
Democrito nel sottolineare che gli
atomi rimangono immutati nella dissoluzione
dei loro composti. Essi, infatti,
si muovono incessantemente ed eternamente
nel vuoto e non vengono percepiti dai
nostri sensi che sono attivi soltanto nei
confronti delle sostanze composte.
Dopo averci detto che i mondi sono infiniti
(ma già lo sosteneva Leucippo)
Epicuro riprende la teoria degli èidola democritei, con qualche
interessante precisazione:
(46) […] queste immagini noi
chiamiamo simulacri (èidola). Il loro movimento attraverso lo spazio,
poiché avviene senza incontrare alcun ostacolo
di corpi contrapposti, compie
ogni percorso immaginabile in un tempo inconcepibilmente
veloce: è infatti la
presenza o l’assenza di urti che produce
lentezza o velocità […] (47) […]
perciò la sua velocità [dell’èidolon] sarà adeguata agli ostacoli
incontrati […] (48) Oltre a ciò la produzione
dei simulacri avviene con la
stessa velocità del pensiero. Infatti dalla
superficie dei corpi si diparte un
continuo flusso di simulacri con una velocità
pari a quella del pensiero.
Questo flusso dalla superficie dei corpi
è incessante [ma non vi è riduzione dl
corpo in quanto la materia che lo costituisce
si riforma continuamente]; tale
flusso conserva per molto tempo la disposizione
e l’ordine che gli atomi
avevano nei corpi solidi, sebbene qualche
volta avvenga che possa subire un
certo disordine. Per di più nell’ambiente
esterno a noi si verificano
improvvise e rapide combinazioni o concrezioni
(sustàseis) perché esse
non richiedono che la pienezza del corpo
si costituisca anche in profondità. [16]
Viene poi introdotta la “vibrazione” all’interno
dell’atomo, grazie alla quale gli èidola che partono dall’oggetto ne
conservano l’esatta forma:
(50) Tali immagini si muovono
con grande velocità e per questa ragione
danno la visione dell’oggetto nella
sua unità e compattezza e per di più conservano
la corrispondenza dell’oggetto
da cui provengono conformemente all’armonico
impulso che ha radici nella
vibrazione degli atomi che avviene nella
profondità del corpo solido da cui le
immagini si dipartono.
L’èidolon dice sempre il “vero” dell’oggetto da cui
parte, ma è la nostra mente che può distorcere
i contenuti del messaggio:
L’inganno e l’errore dipendono sempre da
ciò che la nostra
opinione aggiunge a quello che attende di
essere criticamente confermato o
almeno non contraddetto; ciò per un moto
che in stretta connessione con la
facoltà immaginativa e tuttavia da essa distinto
produce in noi l’inganno. […]
non si potrebbe dare alcun errore se non
si producesse in noi un altro
movimento connesso in qualche modo con la
percezione intuitiva e
rappresentativa ma anche distinto da
essa. È a causa di questo moto, dunque, che
si verifica l’errore nel caso esso
non riceva conferma o riceva prova contraria;
se invece viene confermato e non
riceve prova contraria abbiamo la conoscenza
vera. [17]
Si ha qui l’impressione che Epicuro, dopo
aver messo fuori
dalla porta la conoscenza razionale (o autentica)
di Democrito, la faccia poi
rientrare dalla finestra, poiché ci pare
che possa essere solo la ragione a
farci evitare quel “movimento” improprio
che distorce l’immagine e che per
contro può effettuare la “conferma” del messaggio
che ci è pervenuto dagli èidola. Per quanto riguarda l’udito e l’olfatto sono
sempre i flussi
eidolici a determinare la sensazione, ed essi viaggiano
come suoni e
come odori.
Occupiamoci ora
delle proprietà degli atomi e facciamo un
passo indietro al paragrafo (43) dove
Epicuro, certamente a conoscenza della Metafisica di Aristotele nella
quale veniva rimproverato agli Atomisti di
non aver chiarito la natura del moto
degli atomi, prova a perfezionare la teorizzazione
leucippeo-democritea.
Troviamo così l’introduzione del concetto
di un declinazione (in greco
κλισις, tradotto
poi da Lucrezio con clinamen)
nella traiettoria degli atomi:
Gli atomi poi sono in continuo moto (43)
e gli uni cadono
perpendicolarmente, gli altri declinano spontaneamente
dal moto retto, gli
altri rimbalzano per l’urto; di questi poi
gli uni nel loro moto divergono
lontani fra loro, gli altri trattengono questo
stesso rimbalzo, quando siano
respinti dagli atomi che ad essi si intrecciano,
o quando sono contenuti da
altri atomi fra loro intrecciati. [18]
Epicuro ci dice che alcuni atomi “declinano”
spontaneamente, ma alcuni paragrafi più in
là riprende l’argomento introducendo
invece un elemento accidentale ed esterno,
che chiama prima “ostacolo” e poi
solamente “intoppo”:
Per di più: è necessario che gli atomi (61)
siano equiveloci,
quando procedano attraverso il vuoto senza
cozzare contro nulla: perché il
pesante non si muoverà più veloce del piccolo
e leggero, quando però non trovi
ostacolo, né il piccolo del grande, avendo
il suo corso sempre in una sola
direzione quando nulla contro esso s’opponga;
né più veloce sarà il moto in
alto né quello laterale per effetto degli
urti, né quello in basso per causa
del proprio peso: Infatti fino a quando perduri
l’una o l’altra specie di
questi due moti, il movimento perdurerà veloce
come il pensiero, fino a che
qualche intoppo non vi si opponga, o dall’esterno,
o dal proprio peso, contro
l’impulso ricevuto da ciò che produsse il
rimbalzo. [19]
Nel vuoto il
moto verticale degli atomi è completamente
libero; che cos’è dunque che può
produrre resistenza o impedimento sì da “deviare”
tale moto? Epicuro non lo
precisa. Ciò che se ne deduce è che la caduta
in verticale degli atomi può, a
causa di “qualcosa” di indefinito, subire
una deviazione di traiettoria. Ma a
mutare la traiettoria non può essere che
un elemento “casuale” presente nel
vuoto, che viene a trovarsi o che si pone
sulla traiettoria dell’atomo.
All’urto segue un “rimbalzo”, contro
cui il peso dell’atomo farebbe opposizione.
L’urto avviene quindi con un
oggetto esterno e casuale, ma pare che ad
esso segua una sorta di “opposizione”
interna; se ne deduce che: la declinazione
avviene a) spontaneamente, oppure b)
perché la traiettoria è deviata da un ostacolo
incontrato nella caduta, ma in
questo caso il peso dell’atomo “si oppone
alla deviazione”. Abbiamo quindi due
cause del clinamen, la seconda, esogena e casuale, a cui si oppone
il
peso dell’atomo e la prima in cui l’atomo
“spontaneamente” devia dalla propria
traiettoria. Ma questo farebbe pensare che
l’atomo possegga una specie di
libertà di deviare il proprio percorso, concetto
peraltro non esplicitato, ma
che farebbe pensare a quanto già Democrito
aveva espresso come “automatismo”
interno all’atomo (però non libero ma necessitato).
Il concetto di questa
supposta libertà verrà ripreso e tematizzato
da Lucrezio nel De rerum natura
(II, 252) trasferendo poeticamente il comportamento
dell’atomo a quello
dell’uomo, con un’operazione analogica di
sicuro effetto lirico, ma di cui non
può sfuggire l’arbitrarietà.
L’epistola ad
Erodoto prosegue trattando dell’anima e sostanzialmente
ancora sulla linea di
Democrito, ma con la preoccupazione di legarla
indissolubilmente al corpo e
fugare quindi ogni ipotesi sulla sua trascendenza
rispetto ad esso:
(63) Dopo di ciò, facendo
riferimento alle sensazioni, alle affezioni
o sentimenti – così infatti
assicureremo un saldissimo fondamento alla
nostra teoria – bisognerà
considerare che l’anima è una sostanza corporea
composta di sottili particelle,
sparsa per tutto l’organismo, assai simile
ad un soffio mescolato a calore,
affine all’uno e all’altro [20].
[…] Ciò è immediatamente
manifestato dalle capacità dell’anima, dai
sentimenti interni, dalle sue
affezioni, dalle passioni, dalle intellezioni
e da tutte quelle facoltà alla
cui privazione cessiamo di vivere. (64) Bisogna
ritenere con certezza che la
causa della sensazione risiede nell’anima;
essa non l’avrebbe mai avuta se non
fosse in qualche modo contenuta nel restante
organismo. [21]
Le sensazioni sono pertanto la fonte di ogni
conoscenza e
possono darsi all’uomo solo grazie all’anima,
che è anche all’origine delle
emozioni e dei sentimenti. Ma essa è fatta
di materia ed è tutt’uno col corpo,
in una sorta di sinergia per cui le sue funzioni
vivificano il corpo e nello
stesso tempo ne sono dipendenti, infatti:
(65) […] Non è possibile,
infatti, concepire l’anima come senziente
se non in questo complesso di anima e
di corpo, né pensare che essa possa avere
i medesimi moti sensitivi quando il
corpo che la contiene e la circonda non è
più tale da consentirle quei suoi
movimenti […] [22]
Quindi non è l’anima che vivifica il corpo,
ma è il corpo
che vivendo rende possibile il funzionamento
dell’anima. Per Epicuro non solo
l’anima non è immortale (come pensava Platone),
ma non è neppure principio e
fonte di vita per il corpo. D’altra parte,
nulla di incorporeo esiste, se non
il vuoto:
(67) Bisogna ancora considerare
che ciò che diciamo incorporeo, secondo l’accezione
più generale del termine,
si riferisce a ciò che può esser pensato
come esistente per se stesso; ma in
realtà niente di incorporeo può essere pensato
come sussistente eccetto il
vuoto. [23]
Da qui il giudizio inappellabile sui seguaci
di Platone:
[…] Perciò quelli che affermano
che l’anima è incorporea vaneggiano; se lo
fosse non potrebbe né agire né
patire (68) mentre è evidente che l’anima
possiede entrambe queste qualità
contingenti. [24]
Come l’anima non esiste senza un corpo di
riferimento,
così le qualità essenziali di un corpo (forma,
colore, dimensione, peso, ecc.)
sono pensabili soltanto come inerenti ad
esso [25],
pur esistendo anche altre qualità puramente
contingenti e definite per
convenzione. Come pure è convenzionale la
nozione di “tempo” in quanto mezzo
“di misura”:
(72) si deve anche ritenere per
certo che non possiamo porre il problema
del tempo allo stesso modo di tutte le
altre proprietà che si osservano nell’oggetto
riferendoci alle anticipazioni [26]
che troviamo in noi stessi, ma bisogna considerarlo
in base a quella evidenza
immediata per la quale noi diciamo “molto
tempo” o “poco tempo”, […] [27]
I mondi hanno
origine nell’infinito e sono di forma diversa,
così come diverse, ma non
infinite, sono le forme delle cose che li
costituiscono. Ma ogni mondo possiede
una forma determinata, come determinata è
la “natura” che genera gli esseri
viventi e che si evolve “apprendendo” dalle
circostanze. Così è accaduto che
una sua parte, la ragione dell’uomo, abbia
in seguito appreso e sviluppato le
conoscenze primarie. Infatti:
(75) Bisogna anche supporre che
la natura apprese molte e diverse cose e
molti impulsi, costretta a ciò dalle
circostanze; la ragione degli uomini, in
seguito, ha perfezionato ed ha
aggiunto nuove scoperte a quanto era stato
indicato dalla natura più
rapidamente in alcuni casi, più lentamente
in altri, e in determinati periodi
di tempo secondo un processo più rapido,
in altri più lento. [28]
Questa integrazione dell’uomo nella natura
da cui deriva è
estremamente importante, perché determina
una definizione della genesi del
linguaggio a partire dalla natura stessa:
Per cui anche i nomi delle cose
non furono originariamente stabiliti per
convenzione, ma a crearli fu la natura
stessa degli uomini che a seconda delle diversità
delle stirpi, provando
particolari emozioni e ricevendo particolari
percezioni, emetteva anche l’aria
in maniera propria improntata dal singolo
stato d’animo e dalla particolare
percezione secondo le differenze esistenti
tra i luoghi in cui si trovavano a
vivere. (76) Più tardi poi, di comune accordo
nell’ambito di ciascun popolo
furono stabilite particolari espressioni
per potersi capire reciprocamente con
maggiore chiarezza e concisione. [29]
Mentre Democrito privilegiava l’aspetto “convenzionale”
del linguaggio Epicuro ne accentua invece
l’origine “naturale”, integrando, sia
il linguaggio sia l’animale che lo ha creato
e lo utilizza, con la natura
stessa.
Secondo Epicuro
un “qualcuno” (Dio o Primo Motore) che regolasse
i movimenti degli astri ne
sarebbe in qualche modo dipendente e ciò
non si accorderebbe con la beatitudine
che conviene a un dio, perciò il modo d’essere
e di muoversi di essi dipende
esclusivamente “dal modo in cui essi si originarono”.
Ma neppure essi stessi
sono dèi, proprio in quanto il loro movimento
contrasterebbe col loro status
divino. Opponendo così a una spiegazione
causale di tipo teologico una
spiegazione naturale e razionale il Nostro
fissa un criterio estremamente
importante rispetto al monismo di una causa
divina o ad una divinità degli
astri stessi, quello della pluralità delle
cause naturali:
Perciò, se giungessimo a rinvenire le molteplici
cause delle
rivoluzioni, del sorgere e del tramontare,
delle eclissi e degli altri fenomeni
simili, non dovremmo credere che su questo
punto non si sia arrivati a quella
conoscenza necessaria per il (80) raggiungimento
della tranquillità e della
felicità. […] Così se riterremo che un fenomeno
possa verificarsi in una data
maniera, ma riconosciamo che esso può verificarsi
in più modi, conserveremo la
tranquillità proprio come se realmente sapessimo
che esso si verificherà in
quella determinata maniera. [30]
Quindi l’approccio pluralistico alla realtà
garantisce non
soltanto la correttezza delle tesi cosmologiche,
ma anche la condizione etica
della tranquillità di chi sa di esser nel
giusto. Infatti:
(81) È necessario soprattutto
riflettere su questo: il più grave turbamento
dell’anima dell’uomo ha le sue
origini nella credenza che i corpi celesti
siano perfetti ed eterni e nello
stesso tempo possano avere volontà, azioni,
intenzionalità in contrasto col
loro stato; […] [31]
L’epistola ad
Erodoto si chiude con una esortazione ad
attenersi sempre alla sensazione,
quale principio conoscitivo fondamentale,
nei termini seguenti:
(82) […] La perfetta
tranquillità dello spirito consiste nella
libertà da questi errori e timori e
nel tenersi fermi nella mente i principi
generali e fondamentali. Per cui
bisogna sempre attenersi all’immediatezza
delle sensazioni e delle affezioni
che si verificano in noi, secondo un criterio
generale per quelle generali,
secondo un criterio particolare per quelle
particolari, e attenersi
all’evidenza immediata in accordo con ognuno
dei nostri criteri di giudizio. Se
così ci comporteremo, sapremo trovar la causa
dell’origine dei nostri
turbamenti e delle nostre paure e ce ne libereremo
indagando le ragioni dei
fenomeni celesti e di tutti gli altri che
tanto timore arrecano agli uomini. [32]
L’Epistola a
Pitocle inizia con una ripresa del principio della
pluralità delle cause,
ma essa tratta poi quasi esclusivamente dei
fenomeni del cielo e dell’atmosfera
considerati sotto i loro molteplici aspetti
(astri, nuvole, tuoni, lampi,
terremoti, ecc.) e quindi non riveste particolare
interesse per la nostra
ricerca. Riporteremo tuttavia la chiusa,
nella quale Epicuro muove
l’esortazione che segue:
Tutte queste cose, o Pitocle, tienile bene
a mente: potrai così
in molte occasioni star lontano dalle favole
dei miti e potrai comprendere alte
dottrine dello stesso genere. In particolar
modo considera attentamente le
dottrine che trattano dei criteri conoscitivi
[33]
delle affezioni e del fine a cui si rivolge
ogni nostro ragionare. Quando le
avrai bene indagate ti potranno far comprendere
facilmente le cause dei
fenomeni particolari. Coloro che non amano
questo genere di ricerche non
potranno mai conoscere bene tutto questo
né raggiungere il fine a cui tende
tale studio. [34]
Passiamo ora
all’Epistola a Meneceo, in cui Epicuro ci consegna il nucleo centrale
della sua etica, quella che, secondo un termine
ormai in uso, delinea il
“quadrifarmaco”, ovvero quella sorta di terapia
contro il male di vivere,
contro i dolori e i turbamenti irrazionali,
che permette il raggiungimento del
piacere di vivere e della felicità spirituale.
Questo eudemonismo radicale si
esprime in quattro punti principali: a) Liberazione
dal timore degli dèi, che
per la loro natura non si occupano degli
uomini, b) Liberazione dalla paura
della morte, c) Acquisizione della consapevolezza
che la felicità è facilmente
raggiungibile, d) Apprendimento del modo
corretto di sopportare il dolore, che
è quasi sempre passeggero e comunque meno
temibile di quanto si pensi. [35]
Essa si apre così.
(122) Nessuno che sia giovane indugi a filosofare,
né divenuto
vecchio si stanchi di filosofare, perché
non si è mai né troppo giovani né
troppo vecchi per acquistare la salute dell’anima.
Chi dice che l’età per la
filosofia non è ancora venuta o è già passata
è come se dicesse che non è
ancora giunta o è già passata l’età per la
felicità. [36]
L’esortazione determina un rapporto indissolubile
tra
filosofia e felicità; questa va conseguita
in ogni fase dell’esistenza e quindi
non esiste un’età privilegiata per filosofare.
Per il giovane filosofare
significa maturare ed allontanare ogni timore
per il suo futuro, per il vecchio
significa mantenersi giovane ed essere soddisfatto
di aver vissuto. Poiché solo
la filosofia procura felicità, che è il massimo
bene a cui aspira l’uomo. La
frase successiva precisa:
[…] Per prima cosa considera la
divinità come un essere vivente, immortale
e felice, secondo quanto suggerisce
la nozione del divino quasi impressa in noi
dalla natura e non attribuirle
niente che sia estraneo all’immortalità e
discordante con la beatitudine.
Perché gli dèi esistono: evidente è infatti
la loro conoscenza. Ma non esistono
nella forma in cui li concepisce il volgo
togliendo loro ogni fondamento di
esistenza reale. Empio non è colui che rinnega
gli dèi del volgo, ma colui che
riferisce agli dèi le opinioni del volgo.
Infatti i giudizi del volgo a
proposito degli dèi non sono prenozioni ma
(124) false supposizioni. Perciò a
causa di esse si usa ricondurre agli dèi
i più grandi danni e i più grandi
benefici. Non avendo intimità che con le
proprie virtù essi accolgono coloro
che sono loro simili, considerando estraneo
chi non è conforme alla loro
natura.
Il passo si presenta come una grande metafora
filosofica,
nella quale è dato cogliere i principi fondamentali
dell’etica epicurea
attraverso i vari passaggi che la compongono.
Nella prima frase citata si
afferma che la divinità va considerata “come”
un essere vivente, immortale e
felice, in accordo con la “nozione” che la
natura ha “impresso”, soprattutto
“non attribuendole” niente di discordante
con l’immortalità e la beatitudine.
Ma l’immortalità è degli atomi, che sono
alla base di tutto ciò che esiste,
mentre la beatitudine è l’apice della felicità
a cui ogni uomo idealmente
tende; quindi queste entità divine sono dei
“modelli” filosofici ed assiologici
di riferimento e non essenze dotate di divinità
“reale”; perdipiù esse
risultano comunque estranee all’uomo nel
loro status di immortalità e
isolata beatitudine. La frase « Perché gli
dèi esistono: evidente è infatti la
loro conoscenza.» acquista infatti un senso
compiuto soltanto se l’“evidenza”
viene riferita alla pregnanza dei principi
etici di cui gli dèi sono investiti
e dei quali sono soltanto “forma” linguistica.
Epicuro è infatti consapevole
che “immortalità” e “beatitudine”, in quanto
principi astratti e fuori della
portata dell’uomo (ma nello stesso tempo
immaginati come reali) debbono
ricevere un’investitura reale, ancorché puramente
simbolica. Gli dèi sono
pertanto “simboli” di un’umanità ideale a
cui tendere attraverso la filosofia,
tale da determinare un’altrettanto simbolica
“assenza di morte” nell’orizzonte
dell’uomo. Sul piano reale del vissuto vi
corrisponde l’aponìa, che
predispone alla meditazione filosofica e
rende possibile la felicità che ne è
suo compimento.
Il fatto che gli
dèi non esistano nella forma in cui “li concepisce
il volgo” conferma questa
tesi, poiché gli dèi ufficiali della mitologia
greca per loro natura sono
eminentemente “come li concepisce il volgo”,
vale a dire coinvolti nell’umanità
che non si dà la pena di pensarli ”filosoficamente”.
Allora essi diventano come
li si vuole, differendo solo per rango dall’uomo
comune e presentandosi come
entità che possono esser blandite con devozione
ed offerte, al fine di ottenere
da essi favore o protezione. Infatti «i giudizi del volgo a proposito degli
dèi non dono prenozioni ma false supposizioni.
Perciò a causa di esse si usa
ricondurre agli dèi i più grandi danni e
i più grandi benefici.» E’
difficile scorgere condanna più radicale
di tutta la religione greca dopo quella
di Senofane, ma Epicuro è riuscito a porla
in modo da non incorrere in una censura troppo severa, avendo egli asserito
preliminarmente e con forza la “realtà” degli
dèi. Ma non solo gli dèi “del
volgo”, ovvero quelli della tradizione, sono
“fuori” dalle prenozioni (dalle prolessi)
che anticipano la conoscenza vera, che è
quella conseguibile con la filosofia,
perciò la frase finale corona emblematicamente
(ed anche astutamente) la tesi
soggiacente a tutto il periodo. Infatti,
non avendo gli dèi che “intimità con
le proprie virtù” (con le quali si identificano)
essi possono “accogliere”
soltanto l’attenzione dei loro simili (ovvero
di quelli che filosofano),
considerando estraneo chi non è conforme
alla loro natura (cioè quelli che
considerano gli dèi essenze “realmente” interessate
agli uomini e alle loro
vicende). Questa frase perderebbe ovviamente
ogni senso qualora non la si
connettesse alla premessa epicurea che gli
dèi sono estranei alla vita degli
uomini e che sono collocati in un intermondo privo di alcun rapporto col
mondo umano. [37]
Epicuro passa
poi a parlare della morte, un altro elemento
topico della sua filosofia,
affermando che “niente è per noi la morte”,
infatti:
La retta conoscenza che la morte è nulla,
per noi rende
godibile la stessa condizione mortale della
nostra vita, non prolungando
indefinitamente il tempo ma togliendo il
desiderio dell’immortalità. [38]
Infatti immortali sono soltanto gli atomi
che ci
costituiscono e che costituiscono la natura
di cui facciamo parte, la quale, attraverso
le prolessi, ci permette di intuire le cose del mondo
e i
principi gnoseologici ed etici che lo concernono.
Chiude questo passo la frase
famosa:
[…] quando ci siamo noi non c’è
la morte, e quando essa sopravviene non ci
siamo più noi. Ma il volgo ora fugge
la morte come (126) il più grande dei mali
ora la cerca come cessazione dei
mali della vita. Il saggio, al contrario,
non rifiuta la vita né teme la morte;
non è contrario alla vita né ritiene che
sia un male non vivere. [39]
Si noti che, qui come altrove, il termine
“volgo” va
contrapposto a “saggio” e non riferito all’estrazione
sociale (che come
sappiamo per Epicuro era priva d’importanza),
ma piuttosto alla categoria di
coloro che non perseguono la saggezza, ovvero
non coltivano la filosofia (per
questa ragione altre traduzioni sostituiscono
il termine con la perifrasi “la
maggior parte”). [40]
Segue un rimprovero verso coloro che non
amano la vita e si rammaricano di
essere nati, ai quali chiede per quale ragione,
coerentemente, non si suicidino.
Occorre poi sapere che il nostro futuro non
dipende dalla nostra volontà, ma
nello stesso tempo non ci è del tutto indipendente:
in altre parole (come
traduce il Bignone) “non è né nostro né interamente non nostro”. [41]
Viene poi affrontato il problema del desiderio,
assolutamente centrale
nell’etica di Epicuro, e che è espresso in
modo straordinario nella sua
lapidarietà da una frase a lui attribuita
riportata da Giovanni Stobeo (Florilegium,
III, 17, 23, p.495 Hense): «Se vuoi far ricco qualcuno, non aggiungere
niente ai suoi beni, ma detrai qualcosa ai
suoi desider.i». Poiché i
desideri sono solo in parte naturali e perlopiù
invece vani (e quindi
negativi), essi vanno scelti o rifiutati
in base ad una previa valutazione
della loro natura:
[…] Infatti, una sicura
conoscenza di essi sa riferire ogni atto
di scelta e di rifiuto alla salute del
corpo e alla tranquillità dell’anima: questo
è il fine di una vita felice.
Perché è in vista di questo che compiamo
tutte le nostre azioni allo
scopo di sopprimere sofferenze e turbamenti.
[42]
Non si può non cogliere un interessante rapporto
della
filosofia epicurea col Buddhismo. Qui come
là (ma in modo più radicale in
questo) viene incriminato il desiderio vano,
come sicura fonte di sofferenza,
che allontana l’uomo dall’aponia (e in definitiva dall’eudaimonia)
per Epicuro e dal nirvana per il Buddha. Dopo aver poi ribadito che
«il
piacere è principio e fine della felicità», ma che «non tutti i piaceri
sono da ricercarsi, così come non ogni dolore
è da rifuggirsi» Epicuro ci
dice che bisogna sempre valutare attentamente
“vantaggi e svantaggi”. Segue
allora un altro aspetto fondamentale della
sua etica, cioè l’autosufficienza
(di derivazione cinica e cirenaica), che
è fondamentalmente l’indipendenza dai
desideri e dai beni non indispensabili:
(130) Consideriamo un grande
bene l’autosufficienza, non perché sempre
ci debba bastare il poco, ma perché
se non abbiamo molto, dobbiamo saperci contentare
del poco, profondamente
convinti come siamo che tanto più piacevolmente
si gode l’abbondanza quanto
meno se ne ha bisogno, e che tutto ciò che
è secondo natura è facilmente
procacciabile, mente ciò che è vano è di
difficile attuazione. [43]
Ritorna il concetto di “naturalezza”, di
sintonia con la
natura: che è insieme frugalità e “misura”.
Con ciò Epicuro coglie l’occasione
per fugare le maldicenze che avvolgono il
suo pensiero:
Quando noi
diciamo che il piacere è un bene non intendiamo
parlare del piacere dei
dissoluti e dei gaudenti, come credono alcuni
che o non conoscono la nostra
dottrina o le sono avversi o la interpretano
male, ma il non soffrire in quanto
al corpo (132) e il non avere turbamenti
nell’anima. Perché non banchetti o
feste continue, non godersi giovinetti e
donne, né il mangiar pesci o altro che
offra una ricca mensa rendono dolce la vita,
ma la sobria ragione che scruta a
fondo le cause di ogni atto di scelta o di
avversione e allontani le false
opinioni che rendono gli animi colmi di inquietudine.
[44]
Da ciò l’elogio della phrónesis (saggezza e
prudenza), che è addirittura più importante
(in quanto più basilare) della
filosofia, in quanto da essa derivano tutte
le altre virtù. Epicuro riassume
poi i punti principali della sua esposizione
(l’atteggiamento verso gli dèi,
quello di fronte alla morte, quello delle
aspirazioni “secondo natura”, quello
del perseguimento della felicità) per stigmatizzare
coloro che ritengono che
tutto accada “per necessità” ed è evidente
con ciò che si riferisce
principalmente agli Stoici, ma non meno a
Democrito, che come abbiamo visto
aveva indebolito la “casualità” leucippea
a favore di un maggior necessitarismo
nel moto degli atomi, come si evince dalla
frase seguente [45]:
[…] Era meglio infatti credere
ai miti sugli dèi piuttosto che essere schiavi
del destino dei fisici: quelli
offrivano una speranza con la possibilità
di placare gli dèi con onori, mentre
nel fato vi è una necessità implacabile.
[46]
Epicuro è così preoccupato di difendere la
libertà, e con
essa la speranza di poter incidere sul proprio
destino, che non esita a preferire
al necessitarismo persino quella “religione
del volgo” contro la quale si era
scagliato in precedenza. Prima della frase
di esortazione finale e commiato
perciò egli fa da ultimo l’elogio della ragione,
che sempre deve guidare i
nostri atti, contro l’affidamento alla fortuna,
della quale il saggio non deve
mai tenere conto:
[…] è meglio cadere nella
sfortuna con retta ragione che avere grande
fortuna ed essersi comportati
sconsideratamente; perché è preferibile che
nelle nostre azioni qualcuna di
esse, pur compiuta con ragione, non sia condotta
a buon fine piuttosto che
un’azione stolta sia condotta a buon fine
dalla fortuna. [47]
A completamento di questa esposizione dell’etica
epicurea
riporteremo alcune delle 40 Massime Capitali e qualche altra del Gnomologio
Vaticano (81 in tutto, ma parecchie corrispondono
a Massime capitali);
si tratta di quelle che ci pare aggiungano
qualcosa o completino i temi
trattati dall’Epistola a Meneceo. Cominciamo con le prime [48]:
II – Nulla è per noi la morte:
perché ciò che si dissolve non ha più sensibilità
e ciò che è insensibile non è
niente per noi.
III – Non dura ininterrottamente
il dolore della carne ma il massimo permane
un tempo brevissimo; e quello che
appena supera il piacere corporeo non dura
molto tempo. Le lunghe malattie poi
arrecano alla carne più piacere che dolore.
V – Non è possibile vivere
felici se non si vive saggiamente, giustamente
e bene, né una vita prudente,
moderata e giusta senza vivere felici. A
chi manca ciò non è possibile vivere
felicemente.
VIII – Nessun piacere per se
stesso è un male, ma i mezzi per procurarsi
alcuni piaceri spesso recano molti
più turbamenti che piaceri.
XI – Se non ci turbasse la paura
dei fenomeni celesti e non temessimo che
la morte possa essere per noi qualcosa
che ci tocca da vicino e non ci nuocesse
l’ignoranza del confine dei piaceri e
dei dolori, non avremmo alcun bisogno della
scienza della natura.
XVI – Poca importanza ha la
fortuna per il saggio, perché le cose più
grandi e più importanti sono
preordinate dalla ragione, e così, per tutto
il corso del tempo le governa e le
governerà.
XXI – Chi ha chiara
consapevolezza dei limiti della vita sa che
è facile liberarsi dal dolore per
ciò che manca e ottenere ciò che rende la
vita perfetta, pertanto, egli non ha
affatto bisogno di tendere a cose che comportino
lotta.
XXII – Bisogna considerare
attentamente il fine reale che ci è dato
e fare in modo di riportare tutte le
nostre opinioni ad una certezza evidente;
altrimenti tutto sarà pieno di dubbi
e di inquietudini.
XXVII – Di tutti i beni che la
saggezza procura per la completa felicità
della vita il più grande è l’acquisto
dell’amicizia.
XXXI – Il diritto secondo natura
è il simbolo dell’utilità reciproca al fine
che non sia fatto né ricevuto
danno.
XXXIII – La giustizia non è
qualcosa che esista per sé, ma è una convenzione
nata nei reciproci rapporti e
in quei luoghi nei quali si sia stretto un
patto di non recare o ricevere
danno.
Ed ora alcune massime dal Gnomologio Vaticano:
XIV – Una volta sola si nasce,
due volte non ci è concesso ed è necessario
non essere più per l’eternità; tu
però pur non essendo padrone del tuo domani
rimandi la gioia; ma la vita se ne
va in questo indugio ed ognuno di noi giunge
alla morte senza aver mai goduto
della pace.
XXIII – Ogni amicizia è
desiderabile per se stessa anche se ha avuto
origine dall’utilità.
XXV – La povertà commisurata al
bene secondo natura è una grande ricchezza;
la ricchezza senza misura è una
grande povertà.
XXXIII – Grida la carne: non
avere fame, non avere sete, non avere freddo;
chi abbia queste cose e speri di
continuare ad averle potrebbe contendere
in felicità con lo stesso Giove.
XXXVIII – Assolutamente da poco
è colui per il quale sussistono molte ragioni
convincenti per abbandonare la
vita.
LII – L’amicizia tutta intorno,
con ritmo di danza trascorre la terra annunciando
a tutti noi di destarci
all’elogio della felicità.
LVIII – Bisogna liberarsi una
buona volta dal carcere delle occupazioni
quotidiane e dalla politica.
LXVIII – Niente basta a colui
cui il sufficiente non basta.
LXXVII – Il più grande frutto
del bastare a se stessi è la libertà.
La
preoccupazione che il Giardino continui a vivere come scuola di
filosofia e di vita è in queste poche parole
del suo Testamento:
[…] Ed in continua successione,
a quelli che seguano la mia scuola, assegno
la dimora del giardino, affinché,
insieme con Aminomaco e Timocrate, secondo
il loro potere, la mantengano, ed a
coloro che succederanno ad essi come eredi,
secondo il modo più sicuro di trasmissione,
perché conservino il giardino essi pure,
come quelli a cui l’abbiano a lasciare
i discepoli della mia scuola. [49]
[1] Si ricordi che già Leucippo aveva teorizzato il peso come causa di stratificazione nel vuoto degli atomi, non però come causa del movimento.
[2] Epicuro riprende certamente l’etrica di Aristippo di Cirene nell’assunzione del piacere come fine ultimo della vita. Ne differisce in quanto l’edonismo cirenaico era di tipo dinamico, mentre Epicuro teorizza un piacere di tipo statico. Per Epicuro il fatto stesso dell’assenza di dolore (aponia) è già una condizione di piacere. A questa si affianca l’assenza di turbamento, l’atarassia, che nell’epicureismo successivo acquisterà sempre più importanza, diventando prevalente rispetto all’aponia.
[3] Vittorio Enzo Alfieri ha messo a confronto Democrito ed Epicuro sul problema della divinità, rilevando che mentre il primo adotta un punto di partenza gnoseologico il secondo si baserebbe su esigenze logico-metafisiche relative al suo ideale etico (Il concetto del divino in Democrito ed Epicuro in Studi di filosofia greca a cura di V.E.Alfieri e M.Untersteiner – Laterza 1950, pp.87-120).
[4] Nota il Bignone: «Chi passi dalla lettura di alcuni frammenti, pur così scarni, delle lettere di Epicuro alle Confessioni di S.Agostino, o alle epistole e ai trattati di S. Giovanni Crisostomo, di S.Basilio o di Gregorio Nisseno, s’accorge che l’epicureismo fu il tramite, per cui l’antichità mosse a condizioni di spirito che il Cristianesimo sembra aver tratte dal proprio fondo.» (L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, vol.II, p.223) e più avanti:«Quando S.Agostino, negli anni più agitati della sua giovinezza, meditava di ritirarsi dal mondo coi suoi amici, in un asilo lontano, ove vivere tra la campagna e gli studi […] non faceva che rinnovare l’ideale stato del saggio epicureo […] (Confess., VI, 26)». (Ivi p.235)
[5] Lattanzio (Divinae Institutiones, III, 7, 7) nota: «Epicuro ritiene che il sommo bene consista nel piacere dell’animo, Aristippo in quello del corpo.» (in G.Giannantoni I Cirenaici, Sansoni 1958, p.324).
[6] Scrive a questo proposito Howard Jones: «La scuola aveva un’organizzazione di tipo gerarchico, dove il ruolo di guida (hegemon) aspettava a Epicuro, il solo a fregiarsi del titolo di “sapiente”. Ci si sottometteva alla sua autorità prestando solenne giuramento. Gli altri membri, chiamati philosophoi, potevano ricoprire le cariche di maestro (kathergemon) come Metrodoro, sostituto di Epicuro, e Polieno; di precettori (kathegetes) come Ermaco, il primo successore di Epicuro; e di discepoli (kataskeuazomenoi).» (in La tradizione epicurea – ECIG 1999, p.32.
[7] È quanto sostenuto da Ettore Bignone (uno dei maggiori studiosi di Epicuro) il quale vede, a cominciare dalla precipitosa e drammatica fuga da Mitilene (accusato di corrompere i giovani), un calvario esistenziale costellato da accuse di empietà e di dissolutezza che avrebbe portato il Nostro a una costante difesa del suo pensiero attraverso chiarimenti o vere e proprie sistemazioni concettuali. Secondo questo studioso Epicuro avrebbe impiegato buona parte del suo tempo e delle sue energie intellettuali per mettersi al riparo, per quanto possibile, dai problemi provocati dagli attacchi dei suoi detrattori (soprattutto i seguaci di Platone e Aristotele, e più tardi gli Stoici) che mettevano in difficoltà la stessa permanenza della sua scuola. Ciò spiegherebbe anche, in qualche fase, le sue esortazioni agli allievi a rispettare gli dèi proprio per allontanare da sé l’accusa di ateismo.
[8] Diogene Laerzio Vite dei filosofi – Laterza 1983 – vol.II, pp.401-402 passim.
[9] Ivi, p.403.
[10] Nota il Bignone: «[…] Timocrate, come vedremo, accusava Epicuro anche di ateismo. […] Non bisogna infatti dimenticare quanto fosse pericoloso per un filosofo in quel tempo cadere sotto un accusa di empietà» (L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro - vol.I. – pp.475-476).
[11] Diogene Laerzio Vite dei filosofi – Laterza 1983 – vol.II, p.403.
[12] Ivi p.404.
[13] Ibidem.
[14] A questi documenti va aggiunto il Gnomologio Vaticano (o Sentenze Vaticane). Questo gruppo di massime coincide in parte con le Massime Capitali e sono relative ad un manoscritto scoperto nel 1888 nella Biblioteca Vaticana da H. Wotke e H. Usener. A completamento del quadro complessivo della documentazione su Epicuro va precisato che esistono anche meno importanti frammenti di lettere e di passi di opere perdute. A questi vanno aggiunti gli scritti, le note e i giudizi di autori romani come Cicerone, Plinio, Plutarco, Sesto Empirico, ecc.
[15] Epistème ed éthos in Epicuro (a cura di L.Giancola) – Armando 1998, pp.78-79.
[16] Ivi pp.81-83 passim.
[17] Ivi p.84.
[18] Epicuro Opere (a cura di E.Bignone) – Laterza 1984 – p.45.
[19] Ivi p. 53.
[20]
Impossibile
non cogliere qui un forte elemento di polemica
nei confronti di Platone, il
quale, nel Fedro (245 c e seguenti) aveva esplicitamente affermato:
«L’anima
è immortale; perché ciò che sempre si muove
è immortale. Ora, ciò che provoca
movimento in altro ed è mosso esso stesso
da qualcos’altro [il corpo], se
subisce un arresto di movimento, smette di
vivere. Solo dunque ciò che muove se
stesso, in quanto non può abbandonare se
stesso, mai cessa di essere in moto,
anzi è scaturigine e principio di moto di
tutte le cose che sono mosse. Ora, il
principio non è generato perché, mentre ogni
cosa che nasce deve per forza
nascere da un principio, questo invece non
deve esser generato da niente: se
altrimenti il principio procedesse da qualcosa,
cesserebbe di esser ancora il
principio».
[21] Epicuro Epistème ed éthos in Epicuro (a cura di L.Giancola) – Armando Editore 1998 – p.89.
[22] Ivi p.90.
[23] Ibidem.
[24] Ibidem.
[25] Nota Domenico Pesce nel suo Epicuro (Laterza 1980 – p.43): «Per ottenere il suo scopo [garantire la validità oggettiva della sensazione] Epicuro si vale della dottrina delle categorie (ad Her 68-71) in cui di solito si ravvisa l’influsso di Aristotele ma che risulta, nella sua costituzione, lontanissima da Aristotele. Punto di partenza (ad Her 39-40) è l’affermazione veramente capitale che il tutto è costituito di corpi e di vuoto e che su questo stesso livello ontologico, che noi diremmo aristotelicamente della sostanza, ma che Epicuro designa come quello delle “nature compiute”, nient’altro è non soltanto esistente ma addirittura concepibile.»
[26] Il concetto di anticipazione o prolessi (πρόληψις) è comune anche alla logica stoica. Le anticipazioni sono quei concetti generali presenti nella mente mediante il quale vengono anticipati i dati dell’esperienza.
[27] Epicuro Epistème ed éthos in Epicuro (a cura di L.Giancola) – Armando Editore 1998 – p.92.
[28] Ivi p.93.
[29] Ibidem.
[30] Ivi p.95.
[31] Ibidem.
[32] Ivi pp.95-96.
[33] Secondo Domenico Pesce (Introduzione a Epicuro – Laterza 1981 – pp.62-63) nell’Epistola ad Erodoto e nell’Epistola a Pitocle vi è da parte di Epicuro la messa a punto di una dottrina dei principi che si articola in sette punti: 1) Non c’è nascita dal niente né morte nel niente; donde segue che tutto è immutabile. 2) Il tutto è costituito di corpi e di vuoto. 3) I corpi sono o composti o semplici; questi ultimi sono gli atomi. 4) Il tutto è infinito; infinito è il numero degli atomi ed infinita è l’estensione del vuoto. 5) Le figure atomiche sono di numero inconcepibile, ma non infinito. 6) Il movimento degli atomi è eterno, essendo causato dal peso e dal vuoto. 7) Gli atomi differiscono per grandezza , figura e peso.
[34] Epicuro Epistème ed éthos in Epicuro (a cura di L.Giancola) – Armando Editore 1998 – p.108.
[35] Del quadrifarmaco questo è certamente il punto meno convincente, ma va detto che Epicuro lo ha sempre difeso (vedi la IV massima capitale) e che Diogene Laerzio ricorda le seguenti su affermazioni in una lettera scritta ad Idomeneo in punto di morte: «Volgeva per me il giorno supremo e pur felice della mia vita, quando questo ti scrivevo. Tali erano i miei mali dei visceri e della vescica, che non comportavano eccesso di violenza. Pure ad essi tutti s’adeguava sempre la gioia dell’animo, nel ricordo dei nostri passati ragionamenti filosofici.» (Epicuro Opere (a cura di E.Bignone) – Laterza 1984 – pp.122-123).
[36] Ivi p.109.
[37] Va tuttavia rilevato che questa nostra lettura, aderente al giudizio prevalente sulla filosofia epicurea, non è condiviso da alcuni. Ad esempio, Domenico Pesce scrive: « […] a dispetto della stretta connessione che una mente moderna è portata a porre tra materialismo ed ateismo, nessuno dubita più della genuinità del sentimento religioso di Epicuro e della serietà del suo pensiero teologico. Vero è che questo sentimento e questo pensiero, proprio perché non debbono contrastare con le premesse del sistema, riescono alquanto singolare l’uno e paradossale l’altro, di modo che la teologia epicurea costituisce un unicum nella storia della filosofia.» (D.Pesce (Introduzione a Epicuro – Laterza 1981 – pp.87-88). Opinione che a noi pare un po’ contorta, poiché, se la filosofia epicurea è un innegabile struttura di grande coerenza filosofica, non si vede per quale ragione dovrebbe diventare un unicum di incoerenza per difendere una supposta “serietà del suo pensiero teologico”.
[38] Epicuro Epistème ed éthos in Epicuro (a cura di L.Giancola) – Armando 1998, p.110.
[39] Ivi p.110-111.
[40] È questo il caso della prestigiosa traduzione del Bignone (Epicuro Opere – Laterza 1984, p.32).
[41] Ibidem.
[42] Epicuro Epistème ed éthos in Epicuro – Armando Editore 1998 – p.111.
[43] Ivi p.112.
[44] Ivi. pp. 112-113
[45] Molti hanno visto in questa frase il motivo di fondo per l’introduzione della klisis (= latino clinamen) e cioè quello di difendere (analogicamente) la libertà dell’uomo nel determinare la propria vita. Secondo questa tesi, non solo Lucrezio avrebbe interpretato correttamente il pensiero di Epicuro, ma la klisis assumerebbe proprio una valenza etica e non fisica, come parrebbe logico pensare. Vedi anche il saggio La dottrina epicurea del “clinamen” di Ettore Bignone in L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro - vol.II - La Nuova Italia 1973, pp.409-456.
[46] Ivi pp.113-114.
[47] Ibidem.
[48] Ivi pp.115-123 passim.
[49] Epicuro Opere
(a cura di E.Bignone) – Laterza 1984, p.79.