I sette giorni che sconvolsero il mondo

di GABRIELE ROMAGNOLI

State ascoltando "Sacrifice" di Elton Jhon - You're hearing "Sacrifice" by Elton Jhon

NEW YORK - Martedì 11 settembre 2001 l'alba di un mondo diverso si accese sopra uomini e donne che correvano. Umili e potenti, cristiani e musulmani, assassini e vittime, correvano per prendere un aereo, anticipare un abbraccio, mantenersi in forma, fare le cose a cui si devolve con impeto l'esistenza quando non si è sfiorati dal pensiero che possa finire prima del tramonto.

Uomini in corsa sapevano che sarebbe stato così. Il primo di loro a svegliarsi fu Mohamed Atta, in un appartamento di Portland, sulla costa del Maine. Era ancora buio quando si alzò e scosse il suo compagno di stanza. Avevano un volo alle 5 e 45 per Boston, la prima scaglia di luce nel cielo li avvertì che stavano facendo tardi. Corsero, ma non ce ne sarebbe stato bisogno: la partenza era stata inspiegabilmente ritardata di 15 minuti. Al decollo, il comandante annunciò che erano le sei, il volo sarebbe durato un'ora, la loro coincidenza non era a rischio. Si rilassarono sul sedile. 

Nello stesso momento in Florida, lo Stato chiave del suo destino, l'uomo più potente del mondo com'era prima, George W. Bush, uscì per fare jogging sul campo da golf del "Colony Hotel", seguito dagli agenti della sicurezza sulle automobiline dei caddies. Corse per dieci chilometri senza sosta, poi, soddisfatto, tornò in camera, si fece una doccia e parlò al telefono con i responsabili di Cia e Fbi, vagamente allertati da una minaccia terroristica: i satelliti continuavano a non localizzare il nascondiglio di Osama bin Laden, ma tra i sospettati di appartenere alla sua rete c'era stato, nelle ultime ore, un insolito incremento di telefonate, in una catena indecifrabile che avvolgeva il mondo. Bush riappese, scelse un bell'abito e si preparò per andare a scuola. 

A New York, sul treno numero 4, Doug Irgang si dirigeva invece al suo ufficio al 97mo piano della Torre Nord, in perfetto orario, accanto al suo collega Kevin Williams. Entrambi si sarebbero sposati a dicembre. Doug aveva conosciuto la sua Kristin perché lei gli leggeva sempre il giornale alle spalle, sulla metropolitana, e un giorno lui ci aveva scritto il suo numero di telefono, quello dell'ufficio lassù e lei aveva chiamato prima di sera. Kevin aveva proposto il matrimonio alla sua Jillian il Natale scorso, in un grande magazzino, mentre sedevano insieme per la foto sulle ginocchia di Santa Claus: "Facciamolo subito!", diceva lui, ma lei aveva voluto aspettare almeno un anno, per preparare ogni cosa: che fretta c'era? Uscirono dalla stazione sotterranea di fronte a un cielo terso, mentre padre Michal Judge, cappellano dei pompieri, concludeva rapidamente la sua messa in una piccola chiesa downtown invocando, davanti a uno sparuto pubblico, la benedizione di quel che chiamava il suo "dio di sorprese". Poi corse fuori, incrociando il pompiere Angel Juarbe, diventato famoso per aver vinto un reality show su "Fox Tv" il mese scorso, unico sopravvissuto tra dieci concorrenti, vittime in sequenza di un finto assassino seriale, da qualche tempo, come molti, confuso dagli intrecci perversi tra realtà e fiction.

Erano le sette e trenta. Mohamed Atta era atterrato a Boston e, insieme al suo compagno di viaggio, mostrò alla guardia del servizio di sicurezza, pagata 8 dollari e mezzo l'ora, il suo biglietto di business class, posto 8D, volo American Aerlines 11. Il tabellone segnalò l'imminente partenza di un altro volo, United Aerlines 175. Nel parcheggio dell'aeroporto una Mitsubishi bianca, già inquadrata quattro volte dalle telecamere nella stessa settimana, cercò di entrare nello spazio occupato da una moto. Il suo proprietario rifiutò di spostarla, dalla Mitsubishi scesero due arabi infuriati: rischiavano di perdere il volo per il paradiso dei martiri. Quando la moto fu spostata, erano già quasi le otto. Le otto e un minuto quando da Newark decollò il volo 93 per San Francisco: a bordo tre passeggeri che avevano fatto tardi e perso la prima opportunità del mattino: Mark Bingham, Thomas Burnett e Jerry Glick. Un quarto volo, il numero 77, lasciava Washington con un passeggero imprevisto, la giurista Barbara Olsen, che aveva anticipato il viaggio per riabbracciare prima il marito.

Portelloni chiusi, decollo, alle 8 e 15 quattro aerei volavano sul cielo d'America trasportando 266 vite. Molte erano lì in anticipo, altre in ritardo, tutte puntuali all'appuntamento con una nuova pagina della storia. 

Nella scuola elementare Emma Booker di Sarasota, i bambini sfogliavano i libri fino al punto predestinato per la lettura al presidente, la cui auto si stava avvicinando. Non una nuvola, le comunicazioni nell'etere erano e sarebbero state perfette. A Gaza, al primo piano del suo palazzo, Yasser Arafat si preparava a ricevere l'inviato europeo per il processo di pace in Medio Oriente. Per effetto del fuso orario, in Giappone, il primo ministro Koizumi era a cena con i suoi collaboratori. Un cameriere gli versò ancora vino nel calice. Sui quattro voli le hostess facevano altrettanto per i passeggeri di business class, curiosamente, tutti quanti di aspetto arabo. A Wall Street, i broker si avviavano al posto di combattimento, presagendo un'altra giornata difficile, cercando di esorcizzare con ironia forzata gli spettri della recessione.

Alle otto e trenta, uno spicchio di mondo era al proprio posto, incasellato alla perfezione, come in un ben regolato gioco di società dove non ci sono carte degli imprevisti da giocare, neppure per un "dio delle sorprese". 

Da ultimo, entrò al World Trade Center un uomo di nome John O'Neill. Fino a un mese prima aveva lavorato all'Fbi. Nel 1997 era stato supervisore di una indagine sulla rete di Osama bin Laden. Nella sua conclusione aveva scritto: "I sistemi a nostra disposizione per combatterla sono limitati, non possiamo infiltrarci come nella mafia e seguirne le evoluzioni è difficile, non fai in tempo a capire con chi sono associati, che stringono nuovi rapporti con gruppi differenti collegati alla Jahd islamica. L'unica certezza è che sono in grado di colpire negli Stati Uniti e cercheranno di farlo". Quattro ani dopo aver scritto questa relazione, John O'Neill era andato in pensione e aveva accettato un incarico di capo della sicurezza al World Trade Center. Buttò la sigaretta ed entrò. 

In un fermo immagine satellitare questa sarebbe l'ultima visione del mondo com'era, la mattina dell'11 settembre 2001: un presidente in forma sorride ai bambini emozionati; qualche migliaio di impiegati operosi impilati in due torri trafficano per sistemare obbligazioni di Stato, contratti assicurativi, collegamenti informatici; un pompiere famoso lavora come non lo fosse, perché magari è fiction, non realtà; qualcuno pensa al matrimonio; nelle tasche di molti, i cellulari riposano; un prete guarda il cielo, quattro aerei volano seguendo la rotta per destinazione.

Nell'istante successivo il passeggero 8D del volo 11 si alzò dal suo posto e, in pochi minuti, tutto cambiò: il presidente non sorrise più (anche se mantenne fermo lo sguardo per non turbare i piccini), gli impiegati cominciarono a morire alle loro scrivanie, le obbligazioni e i contratti a farsi cenere, il pompiere capì che questa era realtà e accorse, il prete prese il turibolo e si avviò nell'antro dell'inferno, il cielo s'infiammò e piovvero aerei. Il mondo intero uscì dalla propria rotta. Doug e Kevin che dovevano sposarsi a Natale comiciarono a scendere di corsa per le scale della prima torre colpita. Li sorpassò, spinta dalla disperazione, una donna di settant'anni, Katherine Ilachinsky, architetto, convinta che le strutture non avrebbero retto. La guardarono e sorrisero. Sbucarono su un pianerottolo che appariva intatto, chiamarono l'ascensore, uscì il fuoco. Il telefono di Doug squillò: era un cliente che chiedeva se i suoi soldi sono al sicuro. Gli riappese in faccia. Vide il pompiere Angel salire, pensò: "Se entrano loro, allora non c'è pericolo": Kevin fu d'accordo, si fermarono, si sbagliarono. Attraverso i vetri osservarono corpi in caduta libera, alcuni mano nella mano. Chiamarono le loro promesse spose e le salutarono per sempre. 

Morirono. Morì Angel il pompiere, morì padre Michal, venuto a dare l'estrema unzione a chi moriva. Morì, incastrato nella cabina di pilotaggio, il dirottatore kamikaze Mohammed Atta. Morì, sul selciato che aveva raggiunto, travolto dal crollo della seconda torre, John O'Neill, che aveva previsto l'attacco all'America. Morì, sul volo 77 che si schiantò al Pentagono, Barbara Olsen, al telefono con il marito che voleva riabbracciare più in fretta. Morirono, sul volo 93, i tre uomini che non dovevano esserci, dopo aver attaccato i dirottatori con i coltellini della colazione, costringendo l'aereo a schiantarsi nella campagna disabitata. Morì la speranza di pace in Medio Oriente, con Arafat che, nel suo palazzo di Gaza presto bombardata, si chiuse in una stanza e ne riemerse cancellando il vertice con Sharon. Morì l'ultima luce nelle case di Tokyo e nelle coscienze della parte di mondo che la coltivava con la dedizione dovuta alle cause perse. Morirono le certezze, che tutto questo fosse impossibile, che esistesse un rifugio da ogni tempesta, che una torre del ventesimo secolo non potesse essere abbattuta, che l'odio fosse fatto più di parole che di gesti, che l'uomo fosse ancora un animale dotato, almeno, dell'istinto di sopravvivenza.

Che qualunque cosa accada, sopravviveremo, noi o qualcuno per noi. A quale prezzo? L'involuzione della specie. E' questo che andiamo scoprendo, giorno dopo giorno, nella settimana che ha cambiato il mondo e ci ha reso fragili, insicuri e orfani. Non abbiamo un padre. L'uomo a cui dovremmo affidarci ha giocato a nascondino per qualche ora, ha capito l'indomani, mercoledì, di essere in guerra. Giovedì si è fatto vedere al telefono con New York, venerdì è apparso infine a Manhattan, con un altoparlante in mano, "tipo amabile", come ama definirsi, giusto quello di cui c'è bisogno. Dicono che deve cambiare, diventare tosto, entrare nella storia e trasportarci, sano e salvo, il suo Paese. 

Ma, in sette giorni, è un'altra America. Ha perso molti figli e un pezzo di cuore. La mamma di Angel il pompiere, che era una persona incapace di detestare chiunque, cammina lungo il muro della speranza dove sono appese le foto degli scomparsi, piange e maledice. Vorrebbe cancellare tutti gli arabi dalla faccia della terra, non solo quelli che hanno progettato l'attentato, non solo quelli che hanno applaudito in Palestina, tutti. Anche i bambini "sennò cresceranno e ammazzeranno i miei nipoti". La vedova di Brian Sweeney, che stava sul volo 175 schiantatosi sulla seconda torre, ascolta lo stesso nastro alla segreteria telefonica. E' il messaggio che, non trovandola, lui le ha inciso prima di morire: "Hey Jules, sono Brian. Sono su un aereo e l'hanno dirottato e non mi sembra che butti bene. Volevo solo dirti che ti amo e spero di rivederti. Se non succederà, ti prego, divertiti e vivi meglio che puoi, sappi che ti amo, qualunque cosa accada". La vedova di Stuart Meltzer, che lavorava al piano 105 della Torre Sud, ascolta parole simili: "Tesoro, qualcosa di terribile sta accadendo, non credo che ne uscirò vivo, ma ti amo, abbi cura dei bambini".

Diciannove uomini carichi di odio e ben di più, molti di più, capaci di andarsene con messaggi d'amore, ma è l'eredità dei primi che prevale. Questa è l'amara scoperta della settimana che ha cambiato il mondo. "Abbiate cura dei loro bambini". In che modo? Garantendo loro quale mondo? Un mondo libero, sarebbe stata la risposta fino a sette giorni fa. Un mondo sicuro è la risposta che prevale adesso. Non importa a quale costo. Non importa se ci saranno telecamere a ogni angolo di strada, se ogni conversazione, telefonata, e-mail potrà essere intercettata. Se molti confini saranno chiusi, molti viaggi preclusi, se ogni fetta di terra custodirà i suoi frutti e non spargerà semi altrove. Non importa quel che accadrà dove non vivremo, è dove saremo e basta che ci importa sapere che cosa succederà. E' lì che vogliamo sentirci sicuri, non importa più a quale costo: libertà o civiltà sono parole che cominciano a invecchiare come i manifestanti di Washington Square e il loro slogan "Give peace a chance", quell'opportunità è già stata concessa e sprecata. In sette giorni sono stati bruciati miliardi e miliardi di dollari, annullate un'infinità di aspettative.

Alle 8 e 45 del 21 settembre la corsa è rallentata e ci ritroviamo con la Borsa e la vita sotto i tacchi, consapevoli di essere più poveri nel portafoglio e nello spirito. George Bush lancia proclami più grandi di lui, i bambini della scuola di Sarasota chiedono alla maestra: "Che cosa si prova quando si muore?" e la risposta, di nuovo soffia nel vento acre sopra New York che si è portato via quelli che saltavano mano nella mano, le parole d'amore di decine di uomini cadenti e lo sguardo affettuoso che padre Judge alzava al suo "dio di sorprese". Lui è stata ufficialmente la vittima numero uno.

Questa prima settimana nel mondo diverso lascia aperto il conto e l'interrogativo sul genere di umanità che lo chiuderà.


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