CAPITOLO II 

 

Il reale e il pensiero sul reale    

 

 

                                                                                                                                                                                                                  

2.1 La dicotomia filosoficità/filosofalità tra il reale e il “pensato”  

 

    Per porre da subito in evidenza l’argomento che intendiamo qui trattare assumeremo quale viatico un’affermazione che Spinoza ci rende all’inizio della Seconda parte dell’Ethica, là dove afferma perentoriamente (Assiomi, Proposizione I):

 

Il pensiero è un attributo di Dio, ossia Dio è una cosa pensante. [1]

 

Bisogna ammettere che il Nostro non manca di chiarezza, d’altra parte la parola “assioma” [2], recitano i dizionari, significa “principio di per sé evidente che non abbisogna di dimostrazione” e per il metafisico dalla verità di esso derivano le verità secondarie. È legittimo chiedersi: posta l’identità Dio-Pensiero, da che cosa la si deduce? La domanda è retoricamente ingenua, poiché, essendo il nostro pensiero a porre Dio, specchiandosi in esso ne deriva l’automatico ritorno di Dio nel pensiero stesso e quindi l’equazione: Dio=Pensiero. Si aggiunga poi che per Spinoza questo Dio-Pensiero non è altri che il Dio della Bibbia, essendo il suo intendimento quello di riconvertire il Dio rivelato ai vetero-profeti ingenui nel Dio del neo-profeta evoluto (egli stesso) che ne completa l’opera rivelativa operando razionalmente more geometrico. Ma, come è noto, Spinoza non lascia mai le affermazioni da sole e le correda sempre con una dimostrazione. Vediamola:

 

I pensieri singolari, ossia questo o quel pensiero, sono modi che esprimono la natura di Dio in maniera certa e determinata (per il Coroll. Dell Prop 25 p.1). Compete dunque a Dio (Per la def.5 p.1) un attributo il cui concetto tutti i pensieri singolari implicano e per mezzo del quale essi sono anche concepiti. Il pensiero è dunque uno degli infiniti attributi di Dio, che esprime la sua eterna ed infinita essenza (vedi la def.6 p.1), ossia Dio è una cosa pensante. [3]    

 

Potremmo proseguire nella lettura e vedere meglio come questa assiomaticità si sviluppi, ma ci fermeremo qui. Rileviamo però il fatto che qui non soltanto Dio è una cosa pensante, ma che i pensieri singoli (i nostri) esprimono la natura di Dio in maniera “certa e determinata”. Non quindi in maniera analogica o riflessa si dà la divinità del pensare umano, bensì direttamente, come “parte” di Dio. Non basta: siccome il pensiero è uno degli infiniti attributi divini esso, per ciò stesso, diventa “eterna ed infinita essenza” di Dio. Da cui la trionfante conclusione: «ossia Dio è una cosa pensante», richiudendo così il circolo “dimostrativo” su stesso. Ci viene però il dubbio che la sufficienza di tale assiomaticità sia apparente e che i rinvii posti tra parentesi ci chiariranno tutto. Ma quando andiamo a controllare i Corollari, le Definizioni e le Proposizioni citate ce ne verrà un’amara delusione, poiché ci accorgeremo che in esse non si chiarisce un bel nulla, che il tono assertorio è identico e che ci troviamo di fonte alle metaforiche perle di una collana di affermazioni che si inseguono l’un l’altra senza che vi sia mai alcuna argomentazione critica a corredo di ciò che si afferma. Ogni ulteriore commento ci pare per ora superfluo, ma su questo modo di procedere tipico dei metafisici filosofali ritorneremo più avanti.    

    Siccome col presente studio intendiamo cogliere il problema della filosofalità nei diversi aspetti in cui si manifesta, percorreremo strade diverse, ma in qualche modo convergenti. Ciò potrà portarci a qualche ripetizione concettuale, ma questo è l’inevitabile scotto che si paga quando si tenti di fornire risposte a un problema senza lasciare zone d’ombra. Proseguiremo quindi la nostra analisi e ci occuperemo in questo capitolo più che dei fondamenti su cui è nata la teologia filosofale sulle modalità costruttive che la determinano, sia per ciò che nega o trascura e sia per ciò che non comprende. Questo non comprendere la realtà (forse più che il non volerla capire) va sempre di pari passo con la presunzione del pretendere di surrogarla, per cui incomprensione e ignoranza del reale finiscono per rendere la filosofalità, malgrado il suo sontuoso manto di intellettualità, talvolta vicina all’ottusità. Svilupperemo alcuni aspetti essenziali della dicotomia filosoficità/filosofalità, ma inizieremo col delineare quella, assai più fondamentale, tra il reale e il “pensato”.

    Essendo il filosofare un’attività che può configurarsi come un puro pensare ciò può indurre a concludere che il pensiero filosofico possa essere legittimato ad operare in modo autorereferenziale e a prescindere da altre fonti di conoscenza. Così il pensare-discorrere creativo metafisicizzante e teologizzante si auto-legittima in un operare anti-filosofico, non-conoscitivo e surrogatorio di una filosofia che viene così lesa, mistificata, occultarla. Una “non-filosofia” che in passato ha annullato nella sua negazione della sostanzialità del reale ogni conoscenza, con l’arbitraria assunzione di esserlo essa stessa. Sicché, ciò che filosofia-non-è, in quanto non-conoscenza, si è arbitrariamente auto-eletta a “filosofia” e ne ha preso surrettiziamente il posto. La questione è cruciale: la filosofia nata come scienza (riflessione sul mondo reale) in ambito greco-ionico tra il VII e il V sec.a.C. diventa teologia (scienza del divino) con l’idealismo attico e le sue propaggini. La commistione di filosofia e teologia, sotto il surrettizio comune denominatore della prima, ha determinato un intrico così equivoco che la cassazione in blocco della parola “filosofia” potrebbe persino parere auspicabile, ma rischieremmo con ciò “di buttare il bambino con l’acqua sporca”. 

    La ovvia conclusione è che sia opportuno continuare a militare sotto le insegne della filosofia, rafforzandone anzi il significato autentico di amore per la conoscenza e dando al secondo termine della diade filo-sofia un significato ancora più forte e stringente, poiché la conoscenza vera si esprime come oppositiva alla sapienza teologica della metafisica. La conoscenza filosofica è infatti “dinamica”, legata all’evolvere del cosmo e dei suoi componenti, all’esistenza in generale e a quella dell’uomo in particolare. Essa va posta in relazione alla datità e ai suoi sviluppi con l’accortezza di distinguere tra essa e le teorizzazioni che l’accompagnano ,ed essendo attività di carattere euristico va correlata alla scienza, riannodando un legame originario (nato a Mileto ventisette secoli fa) e spezzato poi da successivi ventiquattro secoli di idealismo teologico invadente, onnipervadente e mistificante. 

    Veniamo alla distinzione tra il “reale” e il “pensato”. Il reale, secondo noi, è ciò che concerne la realtà nella sua generalità e nei suoi aspetti evidenti ed indagabili derivanti dagli elementi oggettivi che si offrono all’osservazione e all’indagine strumentale. In altre parole, la realtà su cui basare l’attività del filosofare è quella datità possibile per il livello tecnologico d’indagine raggiunto nei termini e nei contenuti già posti a suo tempo e di cui avevamo fornito una spiegazione [4]. Noi riteniamo che per poter affermare che un’esperienza riguardi qualcosa di “reale” sono indispensabili quattro condizioni-base: a. l'universalità, b. la ripetibilità, c. la costanza e d. la normalità. Si tratta ovviamente di categorie convenzionali, ma che pongono i requisiti minimi affinché l’oggetto di una qualsiasi esperienzialità possibile (e correlativamente di ogni possibile “indagine” filosofica) possa legittimamente essere definito “reale” e non costituisca esperienza eccezionale od individuale.

    Intendiamo con quanto sopra puntualizzare esemplificativamente che dieci persone possono legittimamente affermare di aver veduto durante una seduta spiritica un ectoplasma “reale”, mille fans della metafisica possono ritenere legittimamente di aver “colto” la suprema Verità dell’Essere in una perfetta formulazione discorsiva logico-dialettica, così come diecimila fedeli durante una cerimonia religiosa di aver scorto la “reale” immagine della divinità aleggiare sull’altare o che le acque del Gange li abbiano “realmente” guariti dal male. Tutte queste esperienze “del pensiero” (e dei loro effetti psico-somatici) possono ben essere credute e testimoniate, ma non rispondono ai criteri minimi che abbiamo posto affinché un’esperienza possa concernere la realtà in una sua sufficiente universalità. Universalità e credibilità che non possono che esprimersi al vaglio di alcuni criteri minimali di oggettività accettabili per il conseguimento di una conoscenza corretta e attendibile.

    Che l’acqua pura a 0°C e alle pressioni ordinarie si trasformi in ghiaccio e che la Terra ruoti intorno al sole sono fatti reali (e quindi elementi di datità) nel senso che la loro constatazione è: a. universale, b. ripetibile, c. costante e d. normale, così come il fatto che ogni ente di natura si trasformi nel tempo in altro, rimanendo immutabili e persistenti, semmai (ma a ben vedere neppure esse), soltanto le particelle elementari subatomiche. Per contro è filosoficamente improponibile ritenere “reale” il fatto che uno yogi dichiari di raggiungere la fusione con l’Ātman e ancora meno che ogni ente sia eterno, come sostiene Emanuele Severino. Tali assunzioni non sono accettabili per una filosofia che si qualifichi come amore per la conoscenza, poiché non fanno riferimento a nulla di oggettivamente conoscibile in quanto universale (in riferimento alla coscienza umana in generale), in quanto ripetibile (in ogni tempo e luogo possibili), in quanto costante (ovvero relativo all’accadere corrente), in quanto normale (rispetto alle leggi fisiche o biologiche). In filosofia ci si deve riferire a una realtà “data” (per quanto incompleta) opponendosi alle pseudo-verità di una teologia filosofale che teorizza una pseudo-realtà abusivamente assunta.

    Dalle considerazioni precedenti emergono due limiti opposti. Il primo: con tali criteri si esclude ogni realtà che non sia ritenuta tale universalmente ed ubiquitariamente. Il secondo: si accettano i sensi, gli strumenti scientifici e la ragione umana come “unici” strumenti di accesso al reale.  Molti potrebbero affermare con qualche buona ragione che il nostro concetto di realtà qui espresso sia miope, sia perché materialistico e riduzionistico e sia, soprattutto, perché non renderebbe ragione del vasto campo di esperienze eccedenti la materialità e la corporeità. Accettiamo tale obbiezione (rimandando ai luoghi dove abbiamo trattato tale problema [5]), facendo tuttavia notare che qui ci stiamo occupando di ontologia e non di esistenzialità e che quindi affrontiamo problemi che riguardano l’essere del cosmo e non la coscienza umana. Molto spesso, all’opposto, l’idealismo e lo spiritualismo negano ogni validità alla concezione scientifico-materialistica e tale è stata, in qualche modo, la posizione di Parmenide e, per alcuni versi, anche quella di Platone nella teologia filosofale greca, ma certamente lo sono state quella di Buddha e di Šankara in ambito indiano ed anche in Europa quella dell’immaterialista del ‘700 Berkeley.  

    Riassumiamo: esistono due modi sostanzialmente differenti, oppositivi e inconciliabili di rapportarsi alla conoscenza. O si fa riferimento “alla” realtà o si fa riferimento al pensiero “sulla” realtà. Il primo parte dall’indagine sugli enti del cosmo per dedurne la realtà attraverso la riflessione, ma sempre a partire dalla datità oggettivamente disponibile. Il secondo parte dall’ipostatizzazione di un meta-mondo puramente pensabile che avrebbe una realtà gerarchicamente ed assiologicamente “superiore” poiché, proprio in quanto tale, celato ai sensi e riservato al pensiero metafisico. La filosofia parte da entità reali ed elabora riflessioni su di essi, la metafisica ipostatizza dei meta-enti per produrre con la logica e la dialettica il Meta-Ente supremo. A partire da un concetto di filosofia come “amore del sapere”, nel primo caso (quello cui noi ci atteniamo) il verbo “sapere” significa conoscere le cose per come si danno oggettivamente, nel secondo caso esso si costituisce come un pensare “a-priori” le cose in rapporto ad un modello pre-determinato e arbitrario, fisso ed immutabile, conseguito col pensiero, tradotto in linguaggio, e riconosciuto esclusivamente dal pensiero. 

 

 

     

 

     2.2 Capire e fabbricarsi un capire. La realtà e la “verità”  

 

    I filosofi dell’Illuminismo immaginavano il cammino dell’umanità dalla loro epoca in poi come un cammino glorioso della ragione post-teologica. Non è stato così e non poteva essere così, poiché l’umanità pensante avrebbe dovuto produrre uno sforzo che andava ben oltre le teorizzazioni meritevoli, ma assai ingenue, di quei volenterosi razionalisti. Ciò per almeno due ragioni: la prima è che noi siamo dominati dalla psiche e quindi fondamentalmente spinti a pensieri e comportamenti spesso irrazionalistici (e ancora più spesso a-razionali e a-critici) in relazione a ideologie accattivanti e coinvolgenti, ma che ci allontanano dalla realtà. La seconda è che i gravami della cultura idealistico-teologica sono del tutto omogenei con le istanze omeostatiche della psiche. E queste sono talmente potenti e permeanti che liberarsi di esse è impresa molto difficile e implicante una nuova e razionale visione del mondo, che neghi la pseudo-razionalità dialogico-dialettica imposta da quel magnifico “pifferaio magico” che è Platone, quella logico-sillogistica imposta da quel “principe della metafisica” che è Aristotele e quella di tutti i loro epigoni lontani e recenti .

    L’opera di questi due pensatori, assolutamente fondamentale per come si è venuta a determinare la cultura dell’Occidente cristiano, è stata variamente interpretata, ma quasi univocamente in maniera ossequiosa ed encomiastica, sino a livelli di vero fanatismo devozionale. Uno storico che è invece riuscito a prendere le giuste misure di questi due grandi “fabbricatori” di sapienza teologica, è l’austriaco di origine ceca Theodor Gomperz, il quale, alla fine dell’800, licenziava una monumentale storia del pensiero greco rimasta insuperata per profondità d’analisi e acutezza interpretativa. Non è un caso che egli fosse imbevuto di cultura empiristica ed illuministica e buon conoscitore della scienza del suo tempo, sì da non farsi irretire dal fascino dialettico del primo e dalla facondia logicistica del secondo, riuscendo così a distinguere ciò che del pensiero di essi poteva venire considerato oro e ciò che era irrimediabilmente orpello.  

    Nei confronti del discorso platonico Gomperz, manifestando i suoi entusiasmi per la forma e la struttura di esso, vede il comparire, per la prima volta nella storia del pensiero occidentale, della “materializzazione” del concetto [6], cioè di ciò che fa di un’idea una falsa entità reale opponibile alle cose concrete e reali che si danno nell’esperienza sensibile ed esperienziale. A noi pare che in questa tesi sia espresso, sia pure in termini molto velati, qualcosa di simile a ciò che avevamo indicato col termine “rappresentazione” del dialogo filosofale platonico, che viene a creare un immaginario palcoscenico dove magicamente “nasce la verità”. Gomperz aggiunge che Platone porta all’interno del discorso due elementi nuovi nella formulazione del discorso, l’inerenza e la predicazione; da essi la concettualizzazione e il confronto tra opposti come unità e pluralità, intorno ai quali già avevano dibattuto i pensatori precedenti. Egli nota però che Platone non ha risolto per nulla le difficoltà di fronte alle quali si erano trovati i suoi predecessori, bensì: «esse mutarono soltanto d’aspetto e si trasformarono nel problema del come si costituisce il rapporto delle cose individuali effimere con gli esemplari eterni» [7]. Ciò che Gomperz non dice (e lo aggiungiamo noi) è che proprio l’invenzione di tali “esemplari eterni” fornisce al dialogare platonico il puntello che gli consente di sviluppare dialetticamente il loro immaginario confronto con le “effimere” cose reali. A ben vedere, infatti, tutta la dialogicità platonica si riduce all’opposizione tra il “sensibile materiale” ed il “divino ideale”, e ci pare indubitabile che senza la “materializzazione” di questo il confronto con quello non sarebbe possibile né immaginabile.

    Osserva il Nostro: «Di nuovo dobbiamo richiamare la mente dei lettori su di una fondamentale tendenza dello spirito umano e sugli effetti di vasta portata che ne conseguono. In uno stesso modo vengono espresse verbalmente le astrazioni come le cose dell’esperienza sensibile.» [8]  Ciò, aggiungiamo noi, è quel che ha sempre prodotto la metafisica e tale fortunata operazione è stata possibile poiché l’astratto è stato ontologicamente posto come “origine” e “causa” del concreto. Il fatto da considerare è che nella dialettica metafisica un astratto moltiplicato per un astratto non fanno un astratto al quadrato, bensì un “concreto” filosofale. Gomperz coglie inoltre il fatto che il discorso platonico è essenzialmente “estetico”, determinato da tipizzazioni-idealizzazioni del reale dovute al suo «fantasioso temperamento di artista e di sognatore» [9], e ciò in base all’assioma che le verità sono assopite dentro l’anima in attesa di essere tirate fuori con la reminiscenza. Da ciò una posizione che genera un dogma inappellabile, nel quale «l’apriorismo trova i suoi più forti appoggi» e in base al quale nell’anima stanno riposte le verità e nei sensi l’ingannevole.

    Per quanto riguarda Aristotele Gomperz appunta le sue considerazioni sulla logica, accogliendo in buona parte le posizioni critiche già assunte da John Stuart Mill. Della teoria del sillogismo, costituente il nucleo centrale della speculazione aristotelica, Gomperz dice: «[…] il sillogismo è un mezzo che assicura la coerenza del nostro pensiero, la non contraddittorietà delle nostre affermazioni. Coerenza, non contraddittorietà del pensiero, questi sono davvero i principali scopi della logica aristotelica. Essi costituiscono la sua forza ed insieme il suo limite [10]. Garantire l’interiore armonia delle cognizioni una volta acquistate: è a questo scopo che tendono gli sforzi dello Stagirita.» [11] Già, aggiungiamo noi, le cognizioni! Ma quali e di che cosa?  Non certo quelle della scienza dell’epoca, che peraltro Aristotele conosceva solo indirettamente, bensì quelle insite nelle sue grandiose elaborazioni metafisiche.  Nota infatti il Gomperz: «Se la logica aristotelica è diretta prevalentemente a stabilire rapporti puramente concettuali, se il creatore del sillogismo lo fa servire quasi esclusivamente alla sussunzione, si scopre in questo la persistente influenza della filosofia socratico-platonica dei concetti. Questa influenza si mostra anche nel fatto che la concatenazione dei concetti presenta un rigore incomparabilmente più grande della determinazione dei fatti da cui i concetti sono dedotti. Nei libri dell’Organon si incontrano non raramente teorie scientifiche mal fondate, osservazioni insufficienti (…). L’incuria nello stabilire le premesse forma un sorprendente contrasto col rigore delle conclusioni che ne vengono tratte.» [12] Noi pensiamo infatti che il discorso autoreferenziale e spesso tautologico della logica sia proprio quello di trarre conclusioni non-contraddittorie e inoppugnabili sul puro piano discorsivo, senza preoccuparsi minimamente della loro rispondenza alla realtà.

    Prosegue: «Insieme ai meriti veramente grandi di Aristotele in alcuni rami della scienza biologica, esse hanno prodotto l’idea diffusa che egli sia stato un naturalista nel senso moderno della parola. Nessuna affermazione può essere più errata. Abbiamo già potuto notare che le sue ricerche si basano più di una volta sopra un fondamento sperimentale del tutto incerto. Ma anche la sua interpretazione dei fatti (reali o presunti) è molto spesso arbitraria, dominata da opinioni preconcette. Essa sta a testimoniare molto più le inesauribili risorse di uno spirito smisuratamente ricco di inventiva, che la severa disciplina di una mente che costringe le sue fantasie e le piega sotto il duro giogo dei fatti.» [13]  Ci sembra del tutto corretta la messa in evidenza che la “creazione” di conclusioni logiche non significa affatto un’aderenza alle situazioni e ai fatti reali, conseguibile soltanto con la sperimentazione e l’osservazione.  E ancora: «”Questo è necessario, quello è impossibile”: simili espressioni autoritarie risuonano in particolare negli scritti di fisica. Sono, per lo più, nient’altro che il residuo di antiche abitudini di pensiero che impediscono al ricercatore di fermarsi sopra intuizioni recentemente acquisite, perfettamente esatte e ben fondate.» [14] Conclusione: «Un decimo di empirismo, nove decimi di speculazione, così forse si può equamente definire il contenuto delle opere che Aristotele ha dedicato alle questioni di fisica e affini.» [15] Ed è piuttosto paradossale il fatto che la “sua” struttura geocentrica del cosmo sia durata sino al XVI secolo e a dispetto del fatto che Aristarco di Samo già nel III sec.a.C. avesse avanzato l’ipotesi eliocentrica (quando si dice la “forza” di convincimento della metafisica sulla psiche umana!). Aggiunge ancora il Gomperz: «Per ricchezza di espedienti, per agilità dialettica lo Stagirita è in verità insuperabile. Ma per il naturalista questa è stata una dote fatale.» [16] Fatale per la filosofia, aggiungiamo noi, ma provvidenziale per la metafisica, che ha potuto così continuare a dominare il panorama culturale per i venti secoli successivi.

    L’analisi gomperziana del pensiero di Aristotele prosegue con rigore, evidenziando la grandezza dello stagirita come schermidore logico-dialettico e la sua modestia di filosofo, cui preme soprattutto di imprimere ai suoi argomenti “il sigillo del trionfo dialettico”. Ne emerge anche la marginalità delle sue contestazioni al pensiero platonico, e che nella misura in cui cerca di distinguersene tanto più vi affonda con le sue varianti. E da ciò conseguenze infauste per la filosofia: «Ecco quindi la fuga nel mondo delle forme, di tipi o idee soprasensibili e spesso anche soprannaturali, che Aristotele combatte altrettanto frequentemente quanto ne è partecipe. Le sue dichiarazioni in proposito si contraddicono perciò nel modo più flagrante e ciononostante meritano, se non altro proprio per questo, la considerazione più attenta.» [17] Tenderemo ad essere meno generosi del Gomperz nel giudicare la “tirannia” del pensiero pseudo-scientifico aristotelico in quindici secoli di totale dominio culturale della teocrazia cristiana. E tuttavia non possiamo esimerci da una domanda: che ne sarebbe stato se fossero mancate persino le pur piccole correzioni operate da Aristotele all’idealismo platonico?  Ci limiteremo a rispondere che al peggio non vi sono limiti e che il meglio consta talvolta nel meno peggio.   

    Se ci siamo soffermati a lungo sulle analisi del Gomperz è perché ci è parso doveroso riportare in evidenza l’opera di uno storico della filosofia perlopiù dimenticato, cogliendone la voce dissonante rispetto all’unanimità ossequiosa della manualistica e dell’ermenutica correnti. In definitiva si può affermare che Platone è stato un bravissimo inventore di commedie dialogiche filosofali e Aristotele un elaboratore di infallibili “sistemi di verità” tautologici. Eppure, proprio i meccanismi sillogistici hanno fatto la grande fortuna di larga parte della teologia filosofale, basata su una razionalità fittizia ed espressa in un discorso puramente formale e sclerotizzato, dove il “principio di autorità” è assai più presente di quanto si vorrebbe far credere. Che fare allora per produrre vera filosofia e non teologia filosofale? Noi pensiamo che si tratti di agire, in nome di una razionalità autentica, sfuggendo a quella razionalità “meccanica” e formale che nasce nel linguaggio e che attraverso esso crea verità auto-verificate surrettiziamente. Una falsa razionalità che si estrinseca e si esaurisce in un rigorismo formale logico-dialettico astratto, da cui nascono “rivelazioni”, “dimostrazioni”, “corrispondenze”, “armonie” perfette che si esauriscono nel “vero” del medium comunicativo che le veicola, ma totalmente estranee al reale, che così viene occultato. Eppure esse sono così psichicamente accattivanti da aver costituito una sorta di fondamento per la quasi totalità delle weltanschauungen filosofali fiorite e fiorenti.

    Se unità, ulteriorità, origini, cause metafisiche poste dal discorso filosofale vengono a costituirsi come fondamenta dogmaticamente consolidate, veridiche, inconfutabili e irrinunciabili, su di esse si possono costruire i mausolei più stupendi e mostruosi dell’immaginazione umana succube della psiche sotto le spoglie della razionalità discorsiva. A noi la scelta di attribuire alla psiche il ruolo che le spetta di “conservatrice” della nostra integrità psico-somatica (ma non di “dominatrice” della mente) frenandone l’invadenza con l’intelletto e la ragione. Poiché la psiche ha assunto nell’’homo sapiens il ruolo che l’istinto ha negli altri animali, un ruolo importantissimo, ma assai pericoloso quando comandi e conduca il gioco del pensiero, lasciando briglia sciolta alle fantasie metafisiche. Se non si coglie correttamente il passaggio evolutivo dall’istinto comune a tutti gli altri mammiferi superiori alla psiche dell’homo sapiens [18] si corrono poi tutti i rischi gnoseologici derivanti. Rischi anche connessi ad una scarsa considerazione della pluralità insita nella struttura funzionale della mente. L’affidamento a una teologia filosofale “garantita” nella sua apparente veritatività, supportata da una struttura logica perfetta ma prodotta da una ragione schiava della psiche, porta facilmente a conseguire un’ottima omeostasi psichica, ma per nulla l’adeguamento del nostro pensiero alla realtà.

    E tuttavia, contrariamente a ciò che con molto ottimismo iper-scientifico sostengono molti riduzionisti moderni presi da “sacro fuoco” materialistico (e per i quali la fenomenologia della mente sarebbe totalmente espressa attraverso funzioni deterministiche puramente fisico-biologiche [19]) noi sosteniamo una posizione assai più articolata. Secondo noi la mente si può considerare una struttura fisiologicamente omogenea, ma non omogenee né unificabili le sue funzioni, che si esprimono in organizzazioni funzionali differenti e talvolta in contrasto, con configurazioni neuronali-sinaptiche mutevoli ed evolvibili. In Necessità e libertà avevamo osservato come tra le quattro organizzazioni funzionali (psiche, intelletto, ragione e idema [20]) sia sempre la psiche a dominare e a pilotare la mente. La psiche comanda il gioco psico-somatico ed il corpo la segue adeguandosi, ma l’intelletto (quale funzione intuitiva), la ragione (quale funzione analitico-computazionale) e l’idema (nucleo dell’individualità) possono limitarne la pressione cogitativa. La generalità dello stretto rapporto psiche-corpo non esclude neppure che un corpo sofferente possa turbare la psiche invertendo il rapporto, e tuttavia, anche nella sofferenza, è la psiche che determina se si soffre di più o di meno indipendentemente dal danno somatico reale. Un corpo può soffrire e la sua psiche star bene, essere tonica ed omeostatica, ed il caso estremo è costituito dall’estasi allucinatoria di “sentirsi in Dio” sperimentata dai mistici, ma non meno il “sentirsi nella Verità” delle teologie filosofali. 

    D’altra parte, la psiche cerca primariamente la “verità”, poi l’”ordine”, quindi la stabilità e la sicurezza di un cosmo sensato e definito nel suo finalismo metafisico. Noi auspichiamo invece, affidandoci all’intelletto e alla ragione, il superamento della verità a favore di una nuova consapevolezza della realtà. Ma facendo ciò bisogna correre tutti i rischi connessi all’abbandono delle sicure sponde della verità meccanica della logica per nuotare tra i flutti di una realtà sfuggente e per ciò stesso non-veritativa. Ma dal momento che identica è la mente dei metafisici che cerca la verità e la nostra che cerca la realtà rimaniamo nell’ambito dell’antropicità senza alcun sostegno evidente in termini di “cosmicità”. Non possiamo quindi eludere una domanda cruciale che emerge da questa nostra posizione: come è possibile pensare di potersi riferire gnoseologicamente alla “cosmicità” del reale dal momento che il nostro approccio può solo avvenire attraverso l’“antropicità” che ci costituisce e ci concerne? Abbiamo già affrontato il problema [21] senza la pretesa di averlo risolto; aggiungeremo tuttavia qui che ci pare esso si ponga un poco come un nodo gordiano, nel senso che così posta la domanda genera l’impossibilità della risposta.

    È evidente che qualsiasi nozione del cosmo si possa formulare essa può nascere soltanto nella mente dell’uomo quale unico soggetto conoscente, non essendo né rivelata dal cosmo nella sua materialità né dalle denotazioni di esso che sono alla nostra portata d’indagine. Dobbiamo allora decidere se stare dalla parte della scienza, basandoci sulla sia pur “limitata” datità possibile, oppure sulla “illimitata” capacità della metafisica di produrre verità. Ciò significa decidere di optare o per la parziale e imperfetta immagine del cosmo “reale” che ci rendono i dati della scienza rielaborati filosoficamente oppure scegliere l’immagine assai più gratificante del cosmo “ideale” che ci offre esaurientemente la metafisica. Tra un “concreto” (sia pur parziale) e un “immaginario” (sia pure esaurientemente “dimostrato”) noi pensiamo che l’homo sapiens possegga sufficienti mezzi di discrimine per decidere se sia preferibile affidarsi all’una o all’altra. 

    Neppure gli scienziati sfuggono alle lusinghe della metafisica e per molti di essi vi è un tendere quasi cogente e irrinunciabile a “volere” che l’universo si adegui alle loro aspettative. Queste rischiano spesso  di diventare non soltanto i “motori” della loro ricerca, bensì anche quelli di premesse a conclusioni opinabili. Esempio significativo di questo atteggiamento si dà anche in alcuni fisici che perseguono un’unificazione delle forze (o campi) della fisica in omaggio a un’unità olistica del cosmo più sognabile che perseguibile, al punto che questa sorta di speranza-auspicio rischia di diventare un’ossessione. Se pure all’epoca del Big-bang tutto era confusamente “insieme” e nulla differenziato, dal momento che sono passati quattordici miliardi di anni e la differenziazione anziché diminuire si accentua man mano che si scopre “il sempre più piccolo”, non si vede il perché di tale ossessione se non supponendone un’origine psichica. Si ha talvolta l’impressione che il canto delle sirene metafisiche faccia breccia anche dove meno ci si aspetterebbe. Un prestigioso scienziato, in un suo bel libro sulla fisica delle particelle elementari, ci lascia intendere che il raggiungimento dell’”unificazione” sia sempre una vittoria della “comprensione” [22]; come se comprendere il cosmo significasse unificarne le denotazioni. A noi pare invece che un corretto atteggiamento scientifico dovrebbe sperare che il cosmo si lasci comprendere sul piano osservazionale e sperimentale indipendentemente dal fatto che vengano soddisfatte le aspettative “comprensionali” del ricercatore.    

    Una ricognizione sulle cosmologie mitiche e su quelle metafisiche ci permetterebbe di cogliere appieno lo iato esistente tra un “cercare di capire”  e un “pretendere di sapere”, tra un capire e fabbricarsi un capire, ma esulerebbe dagli obbiettivi che qui ci siamo posti. Ci limiteremo ad osservare che se “comprendere” significa leggere la realtà cosmica per come si offre a noi, oppure, all’opposto, piegarla al nostro desiderio di comprenderla “in un certo modo” secondo le nostre aspettative, significa che si pone un problema del conoscere che dobbiamo dirimere in maniera corretta per il perseguimento di un’autentica filosofia. Se operare per una miglior comprensione della realtà significa rinunciare a verità secolari regalatici dalla teologia filosofale non dobbiamo temere che mettendole in mora perderemo nulla di filosofico anche se violeremo sicuramente molti tabù culturali. La filosofia rivivrà solo se si rinnoverà e affronterà nuovi orizzonti cognitivi in accordo con la scienza, poiché l’alternativa è di morire assai presto travolta dal progresso scientifico. Il quale la smentirà sempre più costringendola a sopravvivere surrettiziamente rifluendo nella teologia religiosa di cui di cui diverrà sempre più ancilla, ovvero manutentrice o surrogatrice razionalistica.

 

 

 

                                

 

                                   2.3 Le convenzioni linguistiche

 

    Le fonti di conoscenza sono di due generi principali, apparentemente connessi e addizionali, in realtà spesso contraddittori. Come abbiamo già visto il primo genere è costituito dai dati resici dalle osservazioni e dai rilevamenti “della” realtà del mondo, il secondo dai pensieri e dai giudizi “sulla” realtà del mondo. Relativamente al secondo genere, siccome il pensiero si esprime attraverso il linguaggio, si creano dei circuiti pensiero/linguaggio assai complessi e non facilmente perscrutabili, grazie ai quali il pensiero crea linguaggio, ma di ritorno il linguaggio crea pensiero. Se la strumentazione scientifica ci offre dei dati oggettivi del mondo che il pensiero traduce in concetti, lo stesso pensiero può anche sovrapporvi concetti estranei relativi ad un retro-mondo, a un super-mondo o a un infra-mondo che di esso si supponga essere substrato materiale o spirituale. Da ciò prendono forma weltanschauungen che generano categorizzazioni e gerarchizzazioni metafisiche e pseudo-ontologiche che si concretizzano in teorie filosofali legate a convenzioni linguistiche offerte dalla logica e dalla dialettica utilizzate per produrle.

    Se la percezione del mondo tende a creare un linguaggio del mondo “nella mente” il pensiero crea continuamente dei linguaggi della mente “nel mondo”, coi quali la realtà percepita può venire messa in ombra e ricreata “a misura del pensiero creativo” e delle sue ipostasi immaginarie. In un contesto umano come quello del passato, dominato dalla teologia, non ci si deve stupire se scienziati eminenti come Galileo, Keplero o Newton sono stati contemporaneamente dei teologi che non hanno contribuito a mutare le concezioni teologiche convenzionali di pensare il cosmo. A ben vedere nel modo tradizionale di concepire il mondo di non-teologico esiste ben poco, di ateo c’è quasi nulla e persino molti sedicenti atei sono in realtà seguaci di qualche teologia camuffata, dove la Necessità o l’Essere, la Ragione o l’Intelligenza, lo Spirito o l’Assoluto, sostituiscono il nome di Dio, dando la falsa sensazione di essere usciti dalla convenzione teologica e persino di opporvisi per il fatto di chiamarlo con un altro nome. Per dirla con una battuta: Dio forse non fa sempre le pentole, ma sicuramente sempre ottimi coperchi linguistici!

    D’altra parte, l’homo sapiens, a tutte le latitudini e longitudini, è impregnato così profondamente del concetto di Dio che esso compare sempre e pervicacemente in ogni sua riflessione, per esprimersi poi in convenzioni linguistiche attraverso aforismi, espressioni e invocazioni correnti e solidificate. L’aspetto più interessante di tale profonda “impregnazione religiosa” ce la offrono, come abbiamo già osservato, quegli scienziati che non riuscendo a fare a meno di un Dio che la scienza lascia fuori della porta lo reintroducono continuamente “dalla finestra”. Questo Dio è raramente il Dio-Volontà della Bibbia, ma molto più spesso il Dio-Natura-Necessità del panteismo. Da ciò nasce non solo il Dio “ordinatore e legislatore” di Galileo e Newton, ma anche quello di Einstein e di altri prestigiosi fisici del XX secolo, tra i quali spiccano i nomi di Schrödinger e di Bohm. Non solo, la letteratura scientifica è piena di “particelle di Dio” [23] come lo sono i titoli di molti saggi divulgativi, del tipo “La mente di Dio” [24], “L’equazione di Dio” [25] o “Un’occhiata alle carte di Dio”. [26]. La parola Dio o i suoi sostituti sono ormai parte integrante e irrinunciabile del linguaggio convenzionale. Ciò non significa che gli scienziati religiosi non facciano buona (o addirittura ottima) scienza, significa soltanto che nel tradurre la scienza in concetti filosofici pare non riescano a fare a meno del concetto di divinità.

    In realtà, i linguaggio originari dell’homo sapiens, nelle loro svariate versioni etniche, sembrano nati più per parlare del divino più che del mondo materiale. Se questa nostra supposizione ha qualche fondamento ne deriva che i mistici-etimologi come Heidegger avrebbero ragione e che il linguaggio sarebbe veramente la “casa dell’Essere”. D’altra parte i linguaggi compiuti nascono soprattutto come strumenti della comunicazione religiosa espressa nei testi sacri, ed essendo tutti i linguaggi creati dall’interazione di individui socializzati e le concettualizzazioni circa il cosmo filtrate dalle mitologie fondanti quei testi ne deriva che quelli sono irrimediabilmente ingessati in convenzioni teologiche. Naturalmente tale constatazione può valere come freccia all’arco di chi sostiene la sostanziale “originarietà fondativa” dell’idea di Dio, mentre dal nostro punto di vista essa mette soltanto in evidenza il peso di un’eredità vincolativa che frena gli sviluppi di ogni conoscenza autentica.

    L’apparato sensoriale è strumento primario di conoscenza e tuttavia esso ci rende soltanto un’“anticipazione” di conoscenza, in attesa che la datità oggettiva la confermi o la rettifichi. Si pensi ai concetti di “solidità” e “immobilità” che i nostri sensi testimoniano e si consideri un cubo di piombo di un metro di lato poggiante sul terreno. Con esso noi abbiamo, insieme, la testimonianza sensoria della solidità, della pienezza e dell’immobilità. Ebbene, la datità consente di rettificare tutto ciò aprendoci all’autentica conoscenza di quel cubo, il quale, in termini di “fisica” teorica, non è né solido, né pieno, né immobile. Si tratta di una massa costituita in gran parte dal vuoto, invasa da un turbinare di particelle leggerissime (gli elettroni) intorno ad un nucleo (l’unico “pieno”) costituito da protoni e neutroni che costituisce una minima parte del volume totale dell’atomo. E nulla vi è di immobile neppure nel nucleo, poiché i quark, che costituiscono protoni e neutroni (gli adroni), piroettano perennemente su se stessi con lo spin, rendendoci così la denotazione corretta (dinamica) di una falsa immagine (statica) determinata dalla nostra percezione.         

    Introduciamo ora un banale concetto che può porsi a latere delle nostre considerazioni più generali e che accompagna quelle sul linguaggio: lo chiameremo delle protesi metriche. Facciamo un esempio: l’acqua è il liquido per antonomasia, ma quando noi pensiamo ad esso molto spesso lo associamo ad un volume e a dei contenitori. Il litro d’acqua è il criterio con cui se ne giudica le quantità nella vita domestica, il metro cubo quello di grandi consumi o delle grandi masse. Questo concetto della misurabilità del volume si sostituisce nel nostro rapporto corrente ad ogni altra considerazione sulla natura di un volume d’acqua corrispondente ad un litro o ad un metro cubo. Queste unità sono tali solo per convenzione, poiché l’unità elementare è la molecola (H2O) e la struttura reale di un’unità di misura e l’insieme di un numero difficilmente calcolabile di molecole. Ne emerge da ciò che, in qualche misura, noi equivochiamo continuamente nel nostro pensare alla sostanza prevalente sulla superficie del pianeta, determinante la biosfera in generale, costituente in prevalenza il nostro corpo.

    Le nostre relazioni con la realtà del mondo si estrinsecano perlopiù attraverso delle “convenzioni” linguistiche, che prendono il posto delle denotazioni reali, fino a farle scomparire completamente in qualche stanza buia della nostra memoria quand’anche apprese correttamente sui banchi di scuola. Con ciò non intendiamo certo affermare che ognuno di noi guardando la massa d’acqua nel bicchiere che ci sta davanti debba pensare alle molecole di H2O che la costituiscono, tanto più che fortunatamente l’acqua si manifesta anche come poesia nella distesa avvolgente del mare, nell’affascinante scroscio di una cascata e nel dolce canto di un ruscello; intendiamo semplicemente rilevare che la realtà fisica è sempre filtrata dalle nostre convenzioni linguistiche e che spesso queste ci conducono a un gnoseologico “oblio dell’essere” opposto a quello a cui pensava Heidegger [27]. Se però dal terreno del linguaggio ordinario si passa a quello della filosofia ci parrebbe auspicabile considerare una sostanza reale in tutto il suo spessore ontologico e non (come troppo spesso avviene) nel suo aspetto linguistico convenzionale. Ciò non significa che il filosofo debba pensare all’acqua nei suoi costituenti subatomici (quark up, quark down, elettroni, fotoni, gluoni e bosoni di forza debole W+, W- e Z0), ma che non può neppure pensarla come ”unità”  sotto il profilo ontico e ancor meno ontologico. 

    Ma le più note e frequentemente utilizzate protesi metriche sono quelle riferite allo spazio e al tempo. Noi siamo infatti incapaci di rapportarci al mondo e di coglierne gli aspetti mutevoli senza scandire gli spazi che percorriamo e senza riferirci a fasi temporali segnate su un misuratore di tempo. I chilometri che ci separano dal luogo di lavoro o di svago, i metri quadrati di cui consiste la nostra casa o il nostro ufficio, determinano e condizionano il nostro rapporto col mondo e con la vita che scorre. Gli orologi scandiscono meccanicamente le ore di lavoro di svago o di sonno, alle quali siamo per molti aspetti legati nella gestione del tempo. Sono come dei marcatori tirannici che ci fanno perdere di vista l’essenza della nostra breve esistenza e talvolta, complice la sofferenza, la noia o l’ansia, ci fanno desiderare che il tempo passi più in fretta, tendendo inconsapevolmente alla morte. Noi siamo perciò immersi in convenzioni linguistiche e metriche che ci mantengono in altre convenzioni antropiche che ci allontanano dalla realtà. Ma d’altra parte, siccome senza linguaggio non si può filosofare, il problema si pone pertanto in relazione all’uso che si fa del linguaggio. Ma per fortuna che il linguaggio non si estrinseca soltanto in convenzionalità, ma anche nell’anticonvenzionalità di espressioni poetiche come quelle di Saffo e di Leopardi.

    Ci muoviamo “nel” linguaggio, viviamo “col” linguaggio e nello stesso tempo siamo “dentro” il linguaggio. E tuttavia, da un punto di vista filosofico, occorre essere consapevoli che esso crea realtà antropica e non cosmica, poiché questa viene solo “simulata” attraverso codici, simboli, suoni, organizzazione di parole ed emozioni che la rivestono di umanità e di vita. La realtà cosmica rimane al di là di quello specchio nel quale guardiamo noi stessi e il mondo che fa da sfondo alla nostra immagine. E tale specchio al quale facciamo riferimento ci rende soltanto una “traduzione” della realtà cosmica in linguaggio antropico. Quella riposa in un al di là della superficie speculare che si trasferisce nell’al di qua della percezione del nostro esistere. Questa, riconoscendosi nello specchio, pensa di riconoscervi anche un immagine del cosmo, e invece per molti versi lo dissimula, lo altera, lo mistifica. Con ciò non affermeremo essere la fisica a fornirci un immagine corretta della realtà, ma soltanto che essa, possedendo una datità che si colloca al di fuori del pensiero e delle convenzioni linguistiche, appare come l’unica risorsa sufficientemente affidabile per avvicinarci alla sfera del reale e allontanarci da quella dell’immaginario. Il linguaggio è un “pensato” e nello stesso tempo un “pensante” che si auto-genera come pensiero espresso in un circolo creativo in cui siamo immersi, che creiamo e che ci crea in quanto uomini.

    Il linguaggio si fa e vive attraverso convenzioni ortografiche, grammaticali, simboliche ed espressive. È un meraviglioso strumento col quale l’infinito ignoto della realtà diventa un “definito” determinato e bloccato in schemi cogitativo-linguistici. Essi “funzionano” benissimo per comunicare e per formarci un’immagine del mondo “utile” alla vita, ma di esso bisogna gnoseologicamente diffidare e all’occorrenza prendere le distanze. È questo un punto dirimente da tenere presente, indipendentemente dal fatto che si decida di filosofare o di teologizzare sul cosmo. Per vivere non è per nulla necessario filosofare e forse è persino dannoso alla condizione psico-fisica, molto più aiutata dalla teologia filosofale, poiché è un fatto che può assumere caratteri di cogenza e nello stesso tempo di irrinunciabilità; esistere, ed esistere bene e in pace con se stessi, può essere più importante e utile che filosofare. Ma occorre essere consapevoli che per qualificarci al meglio come animali pensanti forse dobbiamo anche pensare il reale “fuori di noi” e formarci di esso un’immagine quanto più possibile corretta. Ciò può “non” coincidere con una weltanschauung che funzioni bene, che ci appaghi, che ci tranquillizzi, che ci renda ottimisti, che ci dia speranza nel futuro e nell’oltre morte. È molto più probabile che questo ce lo offrano le teologie che usano il linguaggio “creativo” piuttosto che la filosofia, che cerca un approccio più diretto con la realtà cosmica, ma è anche per questa ragione che la filosofia, se vuole essere se stessa, deve andare oltre le convenzioni del linguaggio.  

 

 

 

 

   2.4  Le illusioni antropiche: dal continuum ai miti cosmogonici

 

    Una delle questioni dirimenti relativamente alla nostra percezione sensoriale della realtà è quella concernente il continuum spazio-temporale. Che la realtà sia continua o discontinua non presenta alcuna rilevanza sotto il profilo esistentivo e quindi si potrebbe anche lasciare da parte tale problema come ozioso. Dopo tutto, che la linea sia un’entità geometrica continua che genera delle entità discrete come i punti o che siano questi che, posti in successione, generano l’illusione della linea continua non ha nessuna importanza ai fini delle costruzioni geometriche. Se però su tale concezione viene fondata un teorizzazione filosofica la questione non è più irrilevante. Che il cosmo sia simile a una sfera perfetta e perfettamente assemblata di materia omogenea e strutturata in funzione di un senso del suo esistere e che percorra uno spazio ideale da un inizio progettato a una fine significativa o che sia, invece, un agglomerato casuale e informe di materie differenti e indipendenti che vagano senza senso in mezzo a un nulla di senso, fa qualche differenza per la filosofia. E la differenza sta tra un’immagine che può essere inquietante (questa) e una più appagante e rassicurante (quella), ma anche tra una struttura del cosmo basata sulla conoscenza e un’altra teologica che da essa prescinde basandosi sulla “certificazione” veritativa del discorso logico. 

    La nostra percezione dello spazio in cui ci muoviamo è quella di un continuum in cui siamo inseriti come esseri discreti in quanto singoli “io”; in realtà, se per spazio si intende la terra che calpestiamo o l’aria in cui ci muoviamo, questi sono continua del tutto apparenti, costituiti da molecole di alcuni ossidi o silicati solidi e di alcuni gas quali entità discrete e non coordinate da alcun disegno intelligente a costituire una “continuità”. Da tale illusione percettiva deriva poi quella intellettiva, conducendo alla facile conclusione che anche la realtà fisica nel suo complesso sia un continuum dotato di senso e che si costituisca perciò come “unità”. Il cosmo è, al contrario, un agglomerato di pure masse ed energie plurali intercambiabili; le masse manifestandosi in particelle elementari e le energie (libere o legate) dai quanti che le generano. Allo stesso modo le quattro interazioni (o forze) in realtà sono generate da entità singole (i bosoni), così come ogni singola massa atomica è costituita da elettroni ed adroni, e questi sono costituiti a loro volta da quark. La realtà fisica, quindi, contraddicendo non solo la nostra percezione ma anche le credenze tradizionali dominanti, è un coacervo di entità singole di massa o energia costituenti un pluralismo ontico per nulla continuo, ma del tutto discreto e privo di finalità alcuna al di fuori del suo esistere. D’altra parte, un qualsiasi apparente continuum di materia è un “insieme” di elementi discreti reso da termini linguistici “insiemali” utili per indicarli linguisticamente ma del tutto estranei all’ontologia. 

    Tuttavia, noi non riusciamo a pensarci che in un continuum spazio-temporale e del discontinuum “reale” del cosmo materiale siamo perlopiù inconsapevoli, a parte i fisici che con esso si confrontano per ragioni professionali. Ma è proprio per questo che bisogna tematizzarlo e parlarne, se vogliamo fare della filosofia e non della metafisica, poiché la psiche dell’uomo cerca la continuità, l’omogeneità, l’unità e l’ordine offerti dalla metafisica, mentre rifugge dal discontinuo, dal frammentario e dal pluralistico casuale e scoordinato resi dalla scienza e dalla filosofia. La psiche dell’homo sapiens ha elaborato sin dalla preistoria ottimi rimedi alle sue insicurezze e ai suoi turbamenti esistenziali, “bloccandoli” ed esorcizzandoli entro racconti cosmogonico-teologici gratificanti, rassicuranti ed esaurienti: i miti. Questi hanno come loro prerogativa fondamentale di “spiegare” l’origine dell’universo e dell’uomo, della “causa prima” di ciò che esiste, di una pluralità di esseri divini o di un “essere-forza” immutabile ed eterno (personalizzato o impersonale) che supporta un mondo fenomenico precario, poco prevedibile, non controllabile e perlopiù ostile. I miti rinviano ad un divino originario lontano e ad un presente divinizzato celato nel “profondo”, accessibile attraverso rivelazioni profetiche, pratiche magiche, istruzioni misteriche e, molto più tardi (con l’avvento della scrittura), per mezzo di elaborazioni metafisiche compiute.

    Le metafisiche non sono altro che mitologie razionalizzate e logicizzate, che integrano le mitologie irrazionali del passato facendone pretesti fondativi di traduzioni filosofali; ed il primo e più grande razionalizzatore di miti, come è noto, è stato Platone. Ma il mito è anche aggregazione sociale e socializzazione del concetto di divino. I concetti del mito costituiscono infatti il fondamento arcaico di ogni aggregazione sociale e di ogni sistema di relazione interpersonale [28]. Colui che è depositario del mito religioso o di quello della verità logico-dialettica, il sacerdote o il metafisico, oltre che essere protagonista primario e conduttore del culto o della “sapienza”, gode sempre, ieri come oggi, di uno status sociale particolare. Egli si costituisce infatti come il tramite privilegiato di ogni rapporto con l’invisibile, che in quanto tale è sempre anche “sacro”, concernendo ciò che stava “prima” del Tutto visibile e che in quanto tale è anche la causa che perlopiù si nasconde, e che non può esprimersi in un divenire spesso casuale, sconvolgente e minaccioso.

    L’invisibile è il concetto “nobile” sfuggente e misterioso celato ai molti e riservato ai pochi; questi, investiti del potere di scrutarlo e riceverne le rivelazioni e i comandi, per elezione, per vocazione o per scelta razionale, possono “ammaestrare” gli indotti (come i platonici “custodi dello stato” usciti dalla caverna dell’ignoranza) e indirizzarli alla verità e alla virtù. Il privilegio sociale che viene allo sciamano non è molto differente da quello che viene al barone accademico della teologia filosofale che siede nella sua turris eburnea sapienziale. Un prestigio che viene perlopiù visto come il compenso, nel caso dello sciamano, alla sua rinuncia ai piaceri legati al mondo profano e degli sforzi cogitativi e nervosi che gli permettono di entrare o mantenersi in rapporto con l’invisibile, nel caso del teologo-professore alla rinuncia ad occuparsi del banale-quotidiano per distillare la sua “sapienza” a coscienze ingenue da ammaestrare filosofalmente. Di fronte alla sufficienza arrogante di certi accademici la presunzione e l’inganno dello sciamano fanno tenerezza; che egli introduca il suo consimile alla conoscenza del divino, sia esso trascendente (come entità uranica) o immanente alla natura stessa (come entità terrena), la sua opera si presenta come una missione salvifica che porta ordine nel disordine. L’invisibile è istituzionalmente legato oppure coincidente con l’origine e la causa del visibile; essenza immutabile che “sta sotto” i fenomeni, li determina e li pilota in funzione dell’uomo e del senso del suo esistere. La fondazione dell’unità di un’identità sociale coesa in un sistema ordinato di ruoli e compiti sembra poter fare difficilmente a meno di un sistema di coordinate teologiche.

    Se si guarda alle aggregazioni umane arcaiche ancora indagabili in epoca moderna e si confrontano con le fasi evolutive delle popolazione europee od extraeuropee che hanno abbandonato quei livelli già in epoca preistorica si scopre che le strutture narrative mitiche delle une e delle altre sono abbastanza simili, a testimonianza  del fatto che indipendentemente da razze, etnie, culture, il bisogno del sacro si estrinseca in modo uniforme. Ci troviamo a fare i conti con livelli culturali in qualche misura successivi e sovrapponibili, dai quali emerge, con una certa costanza, che quanto maggiore è l’arcaicità tanto maggiore e profondo è il legame col sacro. Legame che si manifesta sia a livello individuale e sia a livello sociale, ma tendendo il primo ad annullarsi nel secondo in misura della forza sacrale del mito [29]. Esso determina una “struttura” sociale forte e solida in ragione della “sua” forza metafisica, poiché esso deve fornire all’individuo l’illusione di vivere un rapporto diretto e privilegiato col divino, permeando questo il mondo per costituire un continuum tra sacro e profano, ma dove è il primo a dominare ed includere il secondo. In molti sensi l’illusione del continuum cosmico dei moderni, ratificata dalla metafisica, finisce per coincidere con l’illusione del continuum mitico degli arcaici.         

    Per proseguire il nostro excursus sul mito sarà opportuna qualche considerazione di carattere storico. Appare indubitabile il fatto che l’ambiente condizioni fortemente il modo col quale viene immaginato il cosmo e le sue cause metafisiche. Si aggiunga che in alcuni casi di prolungato confinamento in un certo territorio il mito diventa il cosmo stesso, al di fuori di esso essendovi nient’altro che un selvaggio e pericoloso “nulla”, infestato da spiriti demonici e mostruosi mal disposti nei confronti degli uomini. Esiste una lunga tradizione antropologica che vede un rapporto diretto tra le forma del territorio e la natura del clima con le forme di religione e le cosmologie che ne derivano. Mentre per la maggior parte dei popoli dediti alla pastorizia e all’agricoltura, insediati in altopiani aridi o in pianure fertili, il dio supremo è sempre uranico e si manifesta attraverso i fenomeni meteorici, per quei popoli che abitano le foreste fluviali (dove la vista del cielo è preclusa in gran parte dall’alta e folta vegetazione) la divinità si manifesta nell’acqua, nella terra, negli alberi o negli animali, essendo il cielo una fonte di luce discontinua e poco configurabile. I pigmei dello Zaire hanno così costruito una cosmologia priva del cielo e dei suoi astri, sicché il loro mondo si identifica esclusivamente con la foresta e con ciò che sta al suolo [30].  Per gli antichi Egiziani il mondo era la valle nel Nilo e sopra di essa stava un cielo piatto e al di sotto il regno dei morti. La psiche tende invariabilmente a definire il cosmo “a misura d’uomo”, racchiudendo spazi e tempi in una cornice mitica che consenta di abbracciarlo nella sua totalità omogenea e continua. Tale cornice illusoria è fondamentale per poter definire il sacro che l’ha tracciata e la determina ed il mito ne definisce struttura e genesi.  

    Il termine greco kosmos è molto antico, ma assume un significato preciso con Platone, che già nel Gorgia lo fa coincidere con l’“ordine”, che è perfezione e bellezza: un “tutto” armonico e definito al di fuori del quale non può esserci che caos e disarmonia. Il cosmo è pertanto esso stesso divino e rinvia al principio divino che lo informa e lo governa; curiosamente però Platone nel Timeo e nel Politico considera il termine kosmos intercambiabile con quello di uranos, dove di primo acchito è questo a contenere un riferimento alla realtà e non quello, che sembra avere carattere di maggiore astrazione. Ma uranos è anche la porta di accesso al mondo divino ed è da questo che kosmos può diventare sinonimo di ordine, ricevendo il suggello della bellezza e della perfezione. L’intercambiabilità può essere anche vista nel senso che il secondo termine conferire al primo un riferimento naturale di cui era privo, ricevendolo attraverso la mediazione della parola “tutto” che li lega assieme, a significare la “totalità unitaria”, dove uranos diventa l’involucro che racchiude il kosmos in un tutto significativo [31].  Aristotele riprende tale configurazione platonica per definirne meglio i connotati e dare con ciò origine e definizione alla nuova disciplina della cosmologia metafisica. Ciò che muta è il modo di concepire la materia originaria; mentre per il maestro essa era bruta e caotica, avendo dovuto il Demiurgo conferirle forma e ordine, per l’allievo il kormos è eterno e ordinato già da sempre, portando così a una identificazione più stringente divinità, eternità e ordine in un nuovo concetto del divino: la Necessità.

    I kosmoi di Platone ed Aristotele costituiscono i due modelli di riferimento del mondo medievale, e tuttavia, almeno sino a tutto il XII secolo, prevale l’influenza del primo, in quanto ammette una creazione in accordo col passo del Genesi che parla della terra prima del «Fiat lux!» che la forma e la vivifica come di “una massa vuota ed informe”. Nella platonica opera del Demiurgo, similmente, ed “a conferma” della voce biblica, vengono conferiti al cosmo una forma geometrica tutta Bellezza ed un ordine cosmico tutto Bontà rispetto ad una materia primitiva disordinata, brutta e immorale. Ma i teologi medievali utilizzano Platone ed Aristotele a seconda dell’utilità dottrinale che ne deriva. Sulla scia del Timeo platonico si muove, ad esempio, Teodorico di Chartres (Tractatus de sex dierum operibus), il quale però utilizza la teoria aristotelica delle quattro cause nell’attribuirne la pre-intuizione a Mosè. Un Mosè che nella Genesi avrebbe posto nell’onnipotenza e onniscienza di Dio la causa efficiente, nell’espressione “cielo e terra” quella materiale, in “Dio vide che ciò era buono” la formale, e nella bontà di Dio come motivo della creazione la finale [32]. Rimane comunque il Timeo, per il suo più stretto accordo con la Genesi, la fonte principale per la teorizzazione di un caos primitivo al quale Dio conferisce ordine, ed è ancora dalla stessa opera platonica che Teodorico trae l’identificazione dello Spirito Santo con l’Anima del Mondo.

    In ambito islamico la visione del mondo assume uno stringente carattere simbolico e morale. La stratificazione assiologia prevede più mondi e a diversi livelli, quelli superiori (abitati dagli angeli) e quelli inferiori (sedi dei demoni) accanto a quello degli uomini. Dio è al vertice di tutti i mondi in quanto unica realtà eterna e il nome divino al-Haqq significa nello stesso tempo Verità e Realtà [33]. La cultura islamica è importante non solo perché è la più diffusa sul pianeta, ma perché incarna in modo peculiare l’essenza di quella sacralità assoluta che esclude tutto ciò che con essa non si concili. Ma occorre precisare che non è stato sempre così, e che tolleranza e apertura culturale hanno caratterizzato lunghe fasi dell’Islam tra il VII e il XV secolo, quando la stessa cultura scientifica non era affatto trascurata e ancor meno reietta (come lo era invece nel contemporaneo Cristianesimo). La scienza medica e le ricerche relative ad alcune branche della fisica, come ad esempio l’ottica, erano seguite e praticate. Ma con l’avvento dell’impero ottomano la cultura islamica si è rinchiusa su se stessa. I fasti culturali di essa rimanendo quelli risalenti all’epoca di Al-Fahrabi, di Avicenna e Averroè, quando l’Islam ha potuto nutrire la Scolastica con interpretazioni dell’idealismo greco feconde di spunti per la formazione e l’evoluzione della metafisica cristiana.  

    Scendendo il declivio del tempo troviamo in pieno Seicento un Descartes ancora fortemente legato al Timeo platonico. Egli però “meccanicizza” quello che in Platone era descritto miticamente e letterariamente, teorizzando un caos primitivo al quale Dio ha conferito un ordine che si protrae e si conferma nel tempo con un determinismo che ricorda Aristotele. Se potesse sussistere qualche dubbio circa la sostanziale persistenza e conservazione dei miti idealistici nella cultura cristiana attraverso quello che passa per razionalismo pre-illuministico l’opera di Descartes ne viene a conferma. Un meccanicismo, quello cartesiano, che non convinceva affatto Newton, il quale pensava che Dio dovesse continuamente intervenire nella meccanica del cosmo per mantenerla perfetta, derivandogli ciò dalla constatazione che le orbite dei pianeti variavano. Se il metafisico francese teorizzava un determinismo inflessibile, l’inglese, grazie alla sua scienza, si vedeva costretto a correggere tale rigidità concettuale ipotizzando l’opera  “continua” di Dio nel mondo.

    Dopo Galileo, Newton è il primo a marcare il distacco della cosmologia dalla teologia, ma trasferendone i contenuti in una fisica che viene vista in funzione di essa, fornendole contributi e conferme. Gli attributi divini per Newton non stanno “sopra” i fenomeni ma si identificano con essi. Per il grande scienziato secentesco l’ordine, la bellezza e la semplicità diventano problemi fisici e non più metafisici, ma di una fisica decisamente teologica. In Leibniz, il terzo grande metafisico del Seicento dopo Descartes e Spinoza, non si può dare qualcosa come una “storia” dell’universo, poiché, deterministicamente (si veda nella Protogaea) in ogni monade vi è già da sempre compresa ogni sua evoluzione, fissata una volta per tutte nel progetto di Dio quale Monade Suprema.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                  

 

 

                                 

                                 

                             

                                    2.5  Microcosmo e macrocosmo

 

    Un altro tema estremamente importante da cogliere nella teologia filosofale è il rafforzarsi, attraverso il tardo neoplatonismo, di un’idea che ha le proprie origini nell’Orfismo e che vede l’uomo come un microcosmo rispecchiante il macrocosmo quale gigantesco organismo vivente. Nella dottrina orfica l’universo è nato da un uovo originario, quale embrione dell’animale che esso è nella sua essenza [34], esso è quindi un immenso organismo animale che si rispecchia nell’animale uomo e da esso ne è rispecchiato. Va comunque rilevato che l’idea dell’universo originario come un immenso organismo-uovo [35], che è nel contempo puruşa (uomo originario), era già presente anche in ambito indiano e testimoniato nel Rig-Veda. Esiste peraltro una ricca simbologia dell’uovo cosmico come immagine del brahman (il principio cosmico), a testimonianza dell’ubiquità e della vitalità, in ambito indoeuropeo, di tale cosmogonia mitica [36]. Ed è particolarmente interessante notare l’evoluzione del concetto di puruşa nella teologia indiana, il quale passa dall’iniziale indicazione del cosmo-uomo originario a caratterizzare sempre di più il singolo individuo, con un certo abbandono della sua valenza divina, ma assumendo nel contempo una più spiccata componente mistica  e soteriologia [37].

    Nella filosofia occidentale è in Platone che si riscontra il precedente più importante di tale concezione, che passerà quasi intatta nella teologia filosofale tardo antica. Ed è nel Timeo (30, b) che si delinea chiaramente, poiché l’universo è il risultato del pensiero e dell’opera del Demiurgo nei termini seguenti:

 

Ragionando dunque trovò che delle cose naturalmente visibili, se si considerano nella loro interezza, nessuna, priva d’intelligenza, sarebbe stata mai più bella di un’altra che abbia intelligenza, e ch’era impossibile che alcuna cosa avesse un’intelligenza senz’anima. Per questo ragionamento, componendo l’intelligenza nell’anima e l’anima nel corpo, fabbricò l’universo, affinché l’opera da lui compiuta fosse la più bella secondo natura e la più buona che si potesse. Così dunque secondo ragione verosimile si deve dire che questo mondo è veramente un animale animato e intelligente generato dalla provvidenza di dio. [38]

 

Ma, a ben vedere, Platone aveva già anticipato questo concetto in chiave politica (a proposito della giustizia) quando in Repubblica (435 A-C) aveva identificato l’individuo giusto con la polis giusta, attraverso un processo di assimilazione categoriale col quale la parte non fa altro che rappresentare funzionalmente il tutto in forza di una sostanziale identità strutturale. La corrispondenza di struttura tra individualità ed istituzione sociale viene così espressa:  

 

Ora, quando di una cosa più grande [la polis] e di una cosa più piccola [il cittadino] si dice che sono la stessa cosa, per il fatto d’essere dette “la stessa cosa”, sono disuguali o sono uguali? […]  l’uomo giusto e la Città giusta non differiranno in nulla, ma saranno uguali […] anche il singolo potrà legittimamente essere definito con gli stessi nomi usati per la città. [39]

               

Peraltro, anche in Aristotele viene avanzata (sia pure in termini problematici) la possibilità che il mondo sia un grande animale (Fisica, VIII, 2, 252 b 25):

 

E se ciò può generarsi nell’animale, cosa impedisce che la medesima cosa accada anche all’universo? Se, invero, il movimento si genera in un piccolo mondo, anche in uno grande esso si genera: e se nel mondo, anche nell’infinito, se è vero che l’infinito può essere in moto e in quiete nella sua interezza. [40]  

 

Come è noto Aristotele risolveva il problema del moto in maniera più “meccanica”, ricorrendo al principio divino del Motore Immobile, ma è comunque significativo che egli ne faccia cenno, a testimonianza della forza di questa tesi, che percorre tutta la teologia filosofale antica e che è ancora oggi variamente presente soprattutto nella cultura orientale.

    La ragione della rinascita di questa teoria in epoche successive e specialmente nel Rinascimento si accompagna alla magia alchemica e teurgica, con le quali l’uomo deve “addomesticare” il mondo e ridurlo in proprio potere [41] . Non è un caso, infatti, che la teurgia neoplatonica trovi, dal ‘400 in poi, un notevole rilancio in ambito letterario e artistico. Nel momento del massimo sviluppo di essa, tra la metà del III e il V secolo, il mondo è visto come un animale di cui si può assumere il controllo attraverso l’addomesticamento, secondo procedimenti ben definiti da Porfirio, Giamblico e Proclo. È evidente come ciò abbia portato in epoca tardo antica ad un ulteriore indebolimento delle già deboli istanze della ricerca scientifica, che vengono messe tra parentesi e lasciate in un sottofondo gnoseologico di cui si può ormai fare del tutto a meno [42]. La temperie religiosa che viene così a realizzarsi porterà a una progressiva accentuazione del carattere magico-mistico a scapito di quello filosofico naturalistico. Tale carattere magico-mistico aveva caratterizzato il Neoplatonismo post-plotiniano, diventando in Giamblico proliferazione delle ipostasi plotiniane, che vengono frantumate e fatte corrispondere ai decadenti dèi di un paganesimo ormai sul viale del tramonto. Ed è a tale teologia che si ispirerà l’imperatore Giuliano nel suo velleitario tentativo di opporre al Cristianesimo una rivitalizzazione del politeismo.

    La teoria entrerà nella teologia cristiana molto più tardi ed in modo un poco sotterraneo. Eppure le due teologie idealistiche che ne sono in vario modo portatrici, quella di Platone e quella di Plotino, permeeranno profondamente la Patristica contribuendo ad un temporaneo allontanamento da Aristotele, i cui tardivi interessi naturalistici appaiono ora come un elemento negativo e di impaccio per la miglior realizzazione del regno di Dio. Ma l’aristotelismo resta implicito negli scritti di Galeno, la cui autorità  rimarrà indiscussa lungo tutto il Medioevo, ed essi prepareranno un ritorno alla metafisica dello Stagirita, che troverà nuova linfa (attraverso Averroè) in Tommaso d’Aquino dalla metà del XIII secolo in poi. Alla gerarchizzazione assiologia tomista segue una nuova gerarchizzazione degli studi ed in maniera ancor più rigorosa di prima al vertice assoluto degli interessi filosofali viene posto Dio, più sotto gli angeli e i santi, ancora più sotto l’uomo, poi il mondo animale, quello vegetale ed infine, al livello più basso, quello materiale. Lo studio della natura nei suoi vari aspetti è ormai considerato attività inferiore, poiché inferiore è il suo oggetto d’indagine [43], secondo una classificazione già impostata da Aristotele e rifluita nella gerarchia tomista.

    Ma per spiegarci come abbia potuto formarsi nella mente dell’homo sapiens l’idea del mondo come un grande organismo vivente bisogna pensare che la teoria del macrocosmo/microcosmo possa aver avuto lontanissime origini ancestrali. L’analogia tra l’essere vivente e il cosmo nasce probabilmente dal fatto che l’aspetto di questo, nell’avvicendarsi delle stagioni e nell’alternanza giorno-notte, presenta una dinamica esistenziale non dissimile da quello dell’uomo, il quale pensa di vivere in accordo col mondo, e non conoscendo le cause di ciò che percepisce cerca di spiegare l’essere di esso sulla base delle sue evidenze sensibili e del proprio ritmo vitale. A partire da quelle e da questo, infatti, diventa possibile considerare il mondo come un “essere” globale dotato di un “comportamento” e di una dinamicità non dissimili da quelli dell’uomo. La fasi dei cicli della natura si prestano infatti ad essere considerate le fasi vitali di un essere animato, che si alza e si addormenta, che fa i conti col freddo e col caldo, con la luce e col buio. Non è infatti la dinamica del mondo che produce la luce e il buio, ma la luce e il buio sono le condizioni perché il mondo si comporti così e non altrimenti. Il mondo nella sua dinamicità presenta mutamenti dei suoi aspetti e dei suoi prodotti che vengono interpretati in analogia con quelli umani. Lo scatenarsi di una tempesta o la caduta di un fulmine, la furia del vento o l’ingrossarsi di un fiume, prima ancora che presentarsi come l’opera di un dio o di vari dèi, sono stati probabilmente interpretati come l’ira o le bizze del macrocosmo, soggetto a mutevoli “umori” simili a quelli dell’uomo.

    A questo punto diventa importante tenere presente che le due teologie che, oltre all’idealismo platonico, hanno avuto maggiore influenza sulla formazione del Cristianesimo, abbiano entrambe fatta propria la tesi che abbiamo visto già enunciata nel Timeo, anche se da concezioni ontologiche opposte. Infatti, lo Stoicismo pone il microcosmo umano come un singolo prodotto derivato del macrocosmo generale e necessitato, il quale “vive” attraverso l’anima che lo inerisce, mentre il Neoplatonismo, pone l’uomo-microcosmo quale partecipe dell’intelletto divino dell’Uno-Tutto. Questi, nella sua assoluta libertà, creerebbe l’altro da sé, ma nella misura in cui l’Uno non può esistere come tale senza “emanare” esso appare necessitato a far ciò per essere ciò che è. La sua libertà diventa perciò puramente nominale: così come gli enti inferiori “debbono” risalire verso quelli superiori e farsi ricomprendere nell’Uno alla fine del processo, l’Uno “deve” averli  prima emanati perché il processo avvenga ed Egli sia. Per Plotino l’Anima del mondo, in quanto seconda emanazione dell’Uno (dopo l’Intelletto), tende a risalire la scala ontologica verso l’Uno e nello stesso tempo governa il mondo materiale che da essa dipende. E tuttavia, in maniera non dissimile, l’anima umana governa il suo corpo, stabilendo così un parallelismo tra esistenze animate che sono strutturalmente simili, seppure di differente livello gerarchico, dimensione e complessità.

    La teoria del microscomo-macrocosmo va pertanto colta anche come l’essenza del pensiero anti-scientifico, poiché se l’universo è un organismo vivente analogo all’uomo perde ogni significato analizzarne i componenti singoli, ma se ne deve invece cogliere l’anima, che genera l’organismo stesso e lo mantiene in vita. Ciò significa che viene completamente vanificata l’importanza di qualsiasi osservazione e di ogni sperimentazione, poiché è l’“anima” unitaria del mondo che va cercata e colta e non già il pluralismo afferente un “corpo” cosmico multiforme. Allo stesso modo l’uomo è in definitiva nient’altro che un’anima calata in un corpo con molteplici e differenti funzioni vitali; non quindi una pluralità di organi e funzioni indagabili e potenziali oggetti di studio: siamo in una “animizzazione” che concerne un Tutto e le sue parti umane. Essa costituisce anche buona parte delle teorizzazioni filosofali presenti nelle teologie mistiche del mondo indiano; un mondo nel quale l’attività scientifica ha sempre avuto assai poco spazio.

    Va tenuto comunque presente che l’analogia tra microcosmo umano e macrocosmo è stata una delle basi teoriche di molta medicina antica e che a partire da essa veniva impostata l’operatività delle terapie in alternativa a una medicina più arcaica, ancora fortemente basata sulla magia. La teorizzazione di tale analogia aveva infatti permesso già alla medicina ippocratica di “oggettivare” il fenomeno patologico e di affrancare il corpo umano dalla credenza che divinità malevole potessero produrvi la malattia agendo come delle volontà esterne ad esso. Questa credenza toglieva di mezzo l’esercizio della magia, poiché le divinità malevole non dovevano più esser blandite con sacrifici e offerte per farle recedere dal loro influsso negativo [44]. La base “naturale” delle malattie era già stata enunciata nel quinto capitolo dell’ippocrateo Il male sacro, dove si affermava che «le malattie hanno una base naturale comune a tutte e una causa razionale dalla quale ciascuna dipende». Ciò significa che la “base naturale” della salute o della malattia nel corpo umano è ciò che la rende analoga alla natura del mondo, e che la causa si scopre nel cogliere il rapporto che lega l’uomo al cosmo. Va riconosciuto quindi che per la medicina la teoria macro-microcosmica ha agito, in definitiva, in senso positivo, non esistendo all’epoca un’eziologia che si darà soltanto in epoca moderna [45]. 

    L’intrico di sacralità religiosa e di mitologia naturalistica afferente la teoria di cui ci siamo occupati mostra l’importanza storica e antropologica di questa visione del mondo, che si è andata via via appannando nel mondo occidentale con l’avanzare della conoscenza scientifica, ma che è rimasta vivissima nella cultura orientale e che alimenta, in qualche modo, tutte le teologie monistico-olistiche presenti in quel contesto. Teologie che, per osmosi culturale, sempre più affascinano larghi strati della cultura occidentale, costituendosi quale alternativa più unitaria e omogenea allo iato, talvolta schizofrenico, esistente tra la cultura scientifica e quella religiosa nelle società tecnologiche. Nella misura in cui si verifica un certo allontanamento da una religione cristiana che sembra avere il fiato sempre più corto (quantunque il suo peso mediatico sia rispetto a qualche decennio fa accresciuto) si verifica questo avvicinamento alle concezioni olistiche orientali, con l’ipostasi di un microcosmo specchio del macrocosmo da cui deriva un’ipostasi affascinante per un’umanità in crisi di coscienza e persino un poco “stanca” di taluni eccessi scientistici.   

 

 

 

 

 

 

 

  2.6  Divinizzazione e apoteosi del Logos

 

    In principio era il Verbo [Logos], e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio. Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui, neppure una delle cose create è stata fatta. [46]

 

Questo celebre incipit, scritto dal quarto evangelista intorno al 100-110 d.C., suggella un percorso che parte da molto lontano e che porta alla definitiva divinizzazione del logos (in quanto “parola” e “ragione”) nel cuore di una religione, il Cristianesimo, che opera fortunata sintesi della teologia filosofale greca con la dottrina ebraica del Dio unico, insieme ad alcuni apporti del Mazdeismo (già largamente presente nell’Ebraismo) e del Manicheismo persiani. Il termine logos ha quindi nella cultura occidentale un’importanza fondamentale, non molto inferiore a quella di anima o di spirito, ed è necessario coglierne, almeno a grandi linee, la sua evoluzione a partire dal suo significato etimologico fino alla sua identificazione con Dio stesso. Una storia sommaria dell’uso del termine (che in origine significava soltanto “parola” o “discorso”) vede un primo utilizzo difforme dal significato letterale già in Eraclito, che lo concepisce come principio divino dell’essere; poi in Platone, quale ragione del Vero-Bello-Buono, quindi negli Stoici, quale legge divina che conferisce ordine al mondo. Sono però le successive determinazioni a diventare particolarmente interessanti, poiché ci confermano come la teologia filosofale finisca spesso per sfociare in religione pura, con la trasmigrazione dei termini filosofali in religiosi (ma talvolta anche con il contrario) a conferma di una curiosa fenomenologia semantica che sottrae ai termini filosofali il loro significato razionalistico per volgerli alla sacralità.

     È con Filone Alessandrino, che si pone storicamente all’alba del Cristianesimo, che si è verificata la fusione del messaggio biblico col razionalismo idealistico greco e nel contempo un’interpretazione prettamente religiosa del termine logos, che diventa elemento fondamentale della creatività divina e modello della creazione stessa (una sorta di suprema idea platonica), mezzo della creazione e insieme mediatore tra Dio e il suo oggetto. È difficile sopravvalutare l’importanza del pensiero di questo teologo ebreo impregnato di cultura idealistica greca, che rappresenta il “ponte” culturale che unifica il mito nazionalistico biblico con quello idealistico platonico in una sintesi convincente. Tale sintesi spiana la strada ai fenomeni di fusione tra misticismo e razionalismo sui quali si forma la dottrina cristiana. Per inquadrare adeguatamente Filone dobbiamo però accennare ad un movimento religioso (che egli cita più volte) che deve aver avuto un certo rilievo nella sua formazione; l’Essenismo. Degli Esseni non vi è notizia nel Nuovo Testamento e nella letteratura cristiana primitiva e tale silenzio può significare sia una presa di distanze dalla loro dottrina e sia la negazione di troppo evidenti assonanze tra la dottrina essena e quella paolina. Il Paolinismo d’altra parte è pensiero complesso, contenente elementi ebraici ovviamente, ma anche orfici e platonici. E un filo rosso pare legare la dottrina essena al misticismo greco, anche se a sostegno di questa tesi non vi sono documenti. Si è trattato comunque di un movimento religioso ben identificato, ma non del tutto univoco, la cui conoscenza si è notevolmente ampliata dopo la scoperta nel 1947 dei cosiddetti Rotoli di Qumran. Secondo Giuseppe Flavio l’esistenza del movimento si colloca tra il II sec.a.C. ed il I d.C. e secondo Plinio le loro aree di insediamento erano le rive occidentali del Mar Morto.

    La setta essena si caratterizzava per un esasperato rigorismo e per una decisa opposizione alla classe sacerdotale, nonché per un acceso integralismo e fedeltà al messaggio mosaico. Il “Maestro di Giustizia”, un non ben identificato fondatore del movimento, vissuto presumibilmente nella seconda metà del II sec.a.C., sarebbe stato il creatore dei principi del movimento.  Un’orgogliosa coscienza elitaria e un acceso disprezzo per il paganesimo si univano al carattere soteriologico della dottrina e si accompagnavano a una rigorosa gerarchizzazione, in base ai livelli di “purezza” raggiunta dagli adepti e connessa all’ossessione di un’incombente “contaminazione” dei puri da parte degli impuri. I frequenti “bagni di purificazione” preludevano alla più parte delle operazioni quotidiane, compresa l’assunzione dei pasti. Tutto ciò faceva della società essena una rigida teocrazia, dominata dai religiosi più eminenti e in generale da una classe di sacerdoti che dovevano rispettare i più rigoroso celibato (una pratica estranea alla cultura rabbinica). Un netto dualismo fa sì che al riferimento all’insegnamento positivo del Maestro di Giustizia facesse riscontro quello negativo del Sacerdote Empio, il responsabile della corruzione della legge mosaica a cui la comunità essena doveva porre rimedio salvifico o almeno favorirne il superamento.

    Sul piano dottrinario il dualismo esseno si manifesta specialmente nelle ipostasi dell’Angeli della Luce e delle Tenebre [47] che influenzano i destini dell’umanità in senso oppositivo, contendendosi le anime degli uomini. Dio si pone così al disopra della lotta tra il bene e il male, che appare una contesa tra forze eguali e contrarie, rispetto alla quale si direbbe che egli rimanga impassibile spettatore. La comunità dei fedeli deve preparare l’avvento di una coppia di Unti (il sacerdotale e il laico) che sanciranno la definitiva vittoria del bene sul male. È evidente come l’Angelo della Luce abbia prerogative che Filone attribuirà al Logos, di cui costituisce significativo precedente, così come in tale dottrina vi siano elementi presenti in Paolo, caratterizzando poi alcune correnti radicali del Cristianesimo. Appare molto probabile che il logos giovanneo trovi la propria origine in un essenismo filtrato da Filone, a dimostrazione di come le interazioni tra una filosofalità greca di prima o seconda mano e la dottrina cristiano-paolina siano molto profonde.  

   Il concetto di logos in senso mistico si può cogliere già nel Libro della Sapienza; opera in greco scritta in epoca indefinibile, ma che gli studiosii collocano tra la metà del II e il I secolo a.C., dove viene affermato (16, 26):

 

[…] affinché i tuoi figli, che ami, o Signore, imparassero questa lezione: non è la varietà dei frutti che alimenta l’uomo, ma la tua parola [il logos] conserva in vita quelli che credono in te. [48]

 

Si tratta qui di un logos che è conservatore in quanto creatore e che allude alla vita dell’anima assai più che a quella del corpo, determinando in modo netto il “nuovo corso” mistico del termine. In verità Filone fa riferimento assai più al Pentateuco che ai libri più tardi, rivelando nel contempo innegabili ascendenze pitagoriche, evidenti ad esempio nella sua esaltazione del 10 come numero sacro [49] (alla base della tetraktys su cui giuravano i pitagorici); ascendenze probabilmente mutuate dalla filosofia platonica di cui egli si mostra attento conoscitore. Fin dalla creazione dell’uomo il logos entra in gioco (La creazione del mondo, 139) come parte di Dio e nel contempo modello di perfezione:

 

Che poi fosse perfetto [il primo uomo] anche nell’anima è cosa evidente perché non pare che Dio nel foggiarla ricorresse ad alcun modello preso dalle cose create, ma si servisse – come ho detto – soltanto del proprio logos. Perciò Mosè dice che l’uomo fu creato a immagine e somiglianza del Logos quando gli fu alitato il soffio divino […] La copia di un modello di bellezza perfetta è di necessità perfettamente bella. Ora, il Logos di Dio sorpassa la bellezza stessa […] [50]

 

In Le allegorie delle leggi (I,31) la creazione dell’uomo riceve un’interessante precisazione:  

 

[…] Ci sono due generi di uomini: l’uno è l’uomo celeste e l’altro è l’uomo terrestre. Quello celeste, in quanto è generato “a immagine” di Dio (Gen. 1, 26 s.), non partecipa alla sostanza corruttibile e, in generale, “terrestre”. L’uomo terrestre, invece, è costituito di materia qualsiasi che la sacra Scrittura chiama “fango”. [51]  

 

Prende qui nettamente forma il concetto di corpo come “fango” che avviluppa l’anima (un analogo del carcere-tomba orfico), che ritroveremo in San Paolo come opposizione  carne/spirito (Galati, 5, 16) e che tanta fortuna avrà nelle metafore di molta etica cristiana. Ma Filone, dopo aver affermato che il logos ha anche operato una partizione radicale nella sostanza dell’universo tra opposti, luce e tenebra, aereo e terreno, ecc.  (L’erede delle cose divine, 133-146), ci precisa (Ivi, 205):  

 

Il Padre Creatore di tutta la realtà concesse all’Arcangelo, al Logos sopra ogni altra cosa venerabile, il dono straordinario di separare, ponendosi in mezzo, il creato dal Creatore. [52]

 

Dunque il Logos è protagonista e artefice di una post-creazione, dove il creato viene suddiviso tra ciò che partecipa del divino e ciò che ne è escluso. Il dualismo filoniano si ripropone nei termini seguenti (Ivi, 267):

 

È bene ascoltare le cose che furono “dette” ad Abramo come predizioni. In primo luogo fu detto che Dio non concede a chi è amico della virtù di abitare nel corpo come se fosse in una terra sua propria, ma gli permette di viverci solo come fosse in una terra straniera. Dice infatti [Gen. 15,13] [53]: «Sappi bene che la tua discendenza starà in una terra che non è la sua». Per ogni uomo malvagio invece il corpo è il suo luogo naturale […] quelle che sono vere passioni dl corpo sono bastarde ed estranee all’intelligenza, perché sono figlie della carne ed in essa si radicano. [54]

 

    Per Clemente Alessandrino (vedi § 7.2) il Logos (o Verbo) non è altri che Gesù Cristo stesso (il Dio-Figlio), artefice della creazione (demiurgo), salvatore e “pedagogo”. Negli Stromati se ne offre un’interessante corollario (Str., II, 4, 16, 1):

 

[…] Ora farsi docile di fronte al Logos, che già proclamammo maestro, vuol dire aver fede nel Logos stesso e non opporvisi in nulla. Del resto come è possibile opporsi a Dio? La conoscenza diventa dunque materia di fede, e la fede materia di conoscenza: accordo e corrispondenza reciproca davvero divina! [55]

L’identificazione Logos/Dio-Figlio è assoluta e Clemente si rivela l’acuto e intelligente cultore di una filosofalità idealistica che viene rifusa in un cristianesimo colto e per molti versi “gnostico”.

    In Basilio di Cesarea abbiamo la ripresa del concetto attraverso il richiamo a San Paolo e viene fissata l’identità Cristo-Logos, con in più il conferimento ad essa della potenza creativa. Afferma Basilio in una lettera:

 

[…] se non mostrava anche, con l’aggiunta della parola «Padre», colui dal quale vengono tutte le cose, e se non indicava con la menzione del Cristo, il Verbo per mezzo del quale tutte le cose esistono […] [56]

 

Il Padre è quindi la “fonte” da cui tutto proviene, ma è il Logos (nella persona di Cristo) il vero ”agente” della Creazione. Con Basilio, e siamo ormai a metà del IV secolo, l’evoluzione del concetto di logos a partire dalle sue prime comparse nella teologia filosofale greca è ormai compiuto e l’identificazione con Dio totale.  

 

 

 

 

                                    2.7 L’anima prigioniera del corpo.

 

    Alla concezione del macrocosmo come “organismo” monistico intelligente si affianca quella che vede la separazione tra una struttura materiale (pesante) e uno spirito (aereo) che con essa non si mescola ma la sovrasta ontologicamente. A questa concezione, più frequente, si accompagna quella più rara di un dualismo radicale, che ha la sua espressione più nota nel Manicheismo, che vede una lotta perenne tra il Male e il Bene, con la sicura vittoria finale del secondo, ma dove l’uomo è chiamato a schierarsi col Bene per accelerare la sconfitta del Male. Concezione che, seppure non in termini così estremi, è presente anche in San Paolo, dove viene contrapposto l’“uomo materiale” a quello “uomo spirituale”. Le conseguenze antropologiche di un atteggiamento dualistico sono state assai importanti per la storia della cultura europea e mediorientale. Ma più evidenti nel mondo occidentale, dove il dualismo ha determinando un’etica che ha orientato concezioni e sviluppato comportamenti di tipo spiccatamente attivistico, più deboli nel mondo mediorientale. 

    La concezione del corpo come prigione (o tomba) dell’anima è all’origine di un dualismo metafisico che percorrerà profondamente la nostra cultura separandola da quella asiatica, più incline a un’integrazione anima-corpo in analogia con la concezione olistica del cosmo. È a una concezione del corpo come ricettacolo volgare dell’anima nobile che vanno fatte risalire le dicotomie materia/spirito, bene/male, profano/sacro, ecc. che segneranno profondamente la cultura cristiana. Da un punto di vista storico sembra ormai certo che tale concetto vada fatto risalire alla religione orfica:, dottrina soteriologica di carattere misterico priva di riscontri filosofali diretti; legata a rituali segreti sui quali si hanno notizie vaghe e talvolta contraddittorie. E tuttavia ne troviamo traccia in di Platone, che già nel Gorgia (493 A) fa dire a Socrate:

 

Anche noi, in realtà, forse siamo morti. Io ho sentito dire, infatti, anche da sapienti, che noi, ora, siamo morti e che il corpo è per noi una tomba, e che questa parte dell’anima in cui ritrovano le passioni è tale da cedere alle seduzioni e da mutare facilmente direzioni in su e in giù. [57]

 

Ma se esiste questo vincolo perverso che impedisce all’anima di realizzare se stessa, non vi è che un evento che rende possibile la liberazione ed è quello dell’annullamento del corpo nella morte, a cui consegue lo scioglimento dell’anima dai suoi legami. Più avanti (524 B) infatti Socrate afferma:

 

La morte, come io ritengo, non è altro che lo scioglimento di due cose: ossia lo scioglimento dell’anima dal corpo. [58]

 

Ci è dato qui cogliere l’anticipazione di tutta l’etica e l’escatologia paoline, quali si configureranno nei Vangeli Sinottici, quali probabili reiscrizioni ideologiche della storia del Gesù storico, un ribelle ispirato dal messianismo biblico. È infatti nelle Lettere, anteriori ad essi, che viene enucleata nelle sue linee principali la dottrina cristiana come la conosciamo [59]. Il dualismo cristiano avrà fasi alterne di accentuazione/ attenuazione e assumerà caratteri personalistici o di corrente teologica a seconda delle epoche e dei contesti. Ma l’idea che, in qualche modo, l’anima debba sempre fare i conti con un corpo che la trascina verso il basso e l’allontana da Dio è rimasta una costante esplicita della cultura e dell’etica cristiane.

 




NOTE

[1] Baruch Spinoza, Etica, Roma, Editori Riuniti 2004, p.124.

[2] È il caso di notare che Francesco Bacone, che pure era profondamente credente, qualche decennio prima aveva notato con grande acutezza (Novum organum, 24):«In nessun modo è possibile che gli assiomi che sono stati ricavati per via di ragionamento servano alla scoperta di nuove verità.»  F.Bacone, Novum organum, cura E. De Mas, Roma-Bari, Laterza 1992, p.53.

[3] Ivi, pp.124-125.

[4] In Necessità e libertà (Clinamen 2004, § 3.1: Ma che cos’è (per noi) la realtà?, pp.69-71) avevamo posto a fondamento del concetto di realtà quattro requisiti indispensabili (criteri di realtà) discutendone la natura e le connotazioni. Essi sono l'universalità, la ripetibilità, la costanza e la normalità. 

[5] Necessità e libertà, op.cit., passim

[6] Theodor Gomperz, Pensatori greci, vol. III, Platone ,Firenze, La Nuova Italia 1967, p.239.

[7] Ivi, p.240.

[8] Ibidem.

[9] Ivi, pp.242-243

[10] In riferimento agli Analitici Secondi (I, 2, 72 a) Francesco Bacone aveva notato: «Il sillogismo non si applica ai principi delle scienze, e si applica inutilmente agli assiomi medi: è uno strumento incapace di penetrare nelle profondità della natura. Esso costringe il nostro assenso, non la realtà.» In: F. Bacone, Novum organum, a cura E. De Mas, Roma-Bari, Laterza 1992, p.51.

[11] Theodor Gomperz, Pensatori greci, vol. IV , Aristotele e i suoi successori,  Firenze,  La Nuova Italia 1967. p.72.

[12] Ivi, p.75.

[13] Ivi,p.87.

[14] Ibidem.

[15] Ivi, p.89.

[16] Ibidem.

[17] Ivi, p.117.

[18] Cfr. Necessità e libertà,op.cit., pp.85-87 e pp.163-166.

[19] Ci riferiamo alle posizioni di alcuni studiosi del cervello come Daniel Dennett, Paul e Patricia Churchland, Antonio Damasio ed altri.

[20] Il nucleo dell’individualità e della sensibilità intuitiva personale.

[21] Cfr. Necessità e libertà,op.cit., § 1.4 (pp.35-37) e § 3.1 (pp.69-71).

[22] Colgo questo atteggiamento al §11 del bel libro di Gordon Kane Il giardino delle particelle (Longanesi, Milano 1997) che reca come titolo (p.67): «Quanta unificazione? C’è un limite alla comprensione?» il che può venire interpretato (e il seguito dl testo ne è conferma) solo nel senso che l’autore ritenga che in fisica “unificare” significhi tout court “comprendere”; atteggiamento che ci pare gnoseologicamente sviante e assai pericoloso.  

[23] La particella di Dio (Mondadori 1996) è il titolo del libro di Leon Lederman, che riprende il soprannome dato al bosone di Higgs, previsto dalla Teoria Standard come il “creatore di massa”.

[24] Così intitola Paul Davies un suo saggio del 1992.

[25] È il titolo di un libro di Amir D.Aczel (L’equazione di Dio, Raffaello Cortina, Milano 2000).

[26] Si tratta di Gian Carlo Ghirardi (Un’occhiata alle carte di Dio, Il Saggiatore, Milano 2003). 

[27] Si ricorda (approssimativamente e sinteticamente) che per Heidegger l’accentramento dell’attenzione umana sull’ente (ovvero sulla sfera ontica legata alla quotidianità) avrebbe determinato la perdita del rapporto con l’essere (la sfera ontologica legata al linguaggio). 

[28] Cfr. Ateismo filosofico nel mondo antico, op.cit, Capitolo I, pp.15-46.

[29] Cfr. Ateismo filosofico nel mondo antico, op.cit. pp.18-40.

[30] Cfr. Elisa Bianchi, Nel corso del tempo, come i popoli hanno immaginato l’Universo?, in La favola dell’universo, a cura di Gorge V. Coyne, Giulio Giorello. Elio Sindoni, Piemme, Casale Monferrato 1997, pp.3-4.

[31] Cfr. Ferruccio Franco Repellini, Come i filosofi antichi concepivano l’universo e la sua origine?, in La favola dell’universo, op.cit., p. 10-12.

[32] Cfr. Massimo Parodi, in La favola dell’universo, op.cit., pp.31-32.

[33] Cfr. M.Abd al-Haqq Ismail Guiderdoni, I filosofi arabi, come concepivano l’Universo e la sua origine?, in La favola dell’universo, op.cit., p.24.

[34] Per quanto un po’ datata rimane estremamente interessante sull’Orfismo l’analisi che ne fa Theodor Gomperz (Pensatori greci, vol. I, La Nuova Italia 1950, pp. 123-151). In particolare, per quanto riguarda il mito dell’ “uovo” cosmico originario, lo studioso ceco-austriaco osserva che esso è assai più antico e che si presenta già nella mitologia egiziana. Uno delle forme più note di esso è la seguente (pp.144-145): «In principio non c’era né il cielo né la terra; circondata da spesse tenebre, riempiva il tutto un’acqua primordiale illimitata (che gli  egiziani chiamavano Nun), la quale racchiudeva nel suo seno i germi maschili e femminili, ovvero i principi del mondo futuro. Lo spirito divino primordiale, inseparabile dalla materia dell’acqua originaria, sentì il desiderio dell’attività creatrice, e la sua parola chiamò il mondo alla vita … Il primo atto creativo s’iniziò con la formazione di un uovo che fu ricavato dall’acqua primordiale, e dal quale uscì la Luce del Giorno (), causa immediata della vita nell’ambito del mondo terrestre.».

[35] Tra le più antiche cosmogonie egiziane ve n’è una (Testi dei Sarcofagi, IV, 181 e ss.) che riguarda l’uovo primordiale, da cui sarebbe schiuso l”Uccello di luce” (Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, Milano, Sansoni 1999, p. 102).

[36] Per la religione vedica la creazione è opera di Bramā (il dio della creazione) che ha aperto l’uovo cosmico originario, la cui materia leggera era andata in alto a costituire il cielo e quella pesante si era raccolta in basso a formare la terra.

[37] È molto interessante cogliere l’evoluzione del concetto di puruşa nella filosofia indiana, che nella primitiva letteratura vedica è l’essere originario, un animale gigantesco dalle mille teste e dai mille occhi, ma che già nelle più antiche Upanişad (VIII sec a.C.) diventa una specie di anima del mondo, ovvero un supremo Spirito Cosmico. Ne segue la successiva identificazione con l’ātman, che del brahman (la forma e l’energia del cosmo) diventa suo aspetto spirituale specchiatesi nell’ātman individuale, l’anima di ogni singolo uomo. Nei Purāna induisti del V secolo d.C. però il puruşa si personalizza e diventa Vişnu o Shiva dando luogo ad uno pseudo-monoteismo induista. Differente è il concetto di puruşa nel sistema Shamkhya (VI sec. a.C. - IV sec.d.C.), il quale, essendo ateo e dualistico, concepisce l’universo non come un Uno-Tutto olistico ma come costituito da una prakriti unitaria (la materia multiforme ed evolventesi) e dal pluralismo di infiniti puruşā (le anime individuali).    

[38] Platone, Opere complete, vol.6, Timeo, Bari-Roma, Laterza 1974, pp.377-378.

[39] Platone, Tutti gli scritti, Milano, Bompiani 2000, pp.1173-1174.  

[40] Aristotele, Opere, vol.3, Milano, Laterza 1991, p.199.

[41] Precisa Nicola Abbagnano (Dizionario di Filosofia, Torino, UTET 1971, p.583): « La corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo fu uno dei temi preferiti della letteratura magica. La magia infatti intende dominare il mondo naturale o incantandolo o addomesticandolo come si fa con un animale; e il suo presupposto è precisamente questo, che il mondo sia un animale e che tutti i suoi aspetti siano controllabili con procedimenti che si rivolgono ad essi come ad attività viventi.».

[42]  Ha scritto Charles Singer (op.cit. p.130): «Vi è tuttavia una dottrina di grande importanza che deve essere menzionata, e che fu accolta tanto dai neoplatonici che dagli stoici. Ambedue queste scuole scorsero un’analogia tra l’universo, o macrocosmo, e l’uomo, o microcosmo, in quanto l’uno poteva esser pensato come il riflesso dell’altro. Ma mentre per i neoplatonici l’universo era fatto per l’uomo in quanto suo essere privilegiato, per gli stoici era l’uomo ad essere fatto per l’universo. Tra i due ebbe prevalenza il punto di vista neoplatonico che per di più era accettabile anche per il cristianesimo. »

[43] Nota ancora il Singer (op.cit. p.135) relativamente all’’Alto Medioevo: «Il mondo era appena l’infima creazione di Dio e tutti i suoi fenomeni sembravano assai meno degni di studio che non le cose della religione. Secondo molti scrittori della patristica lo studio delle stelle conduce all’indifferenza verso Colui che risiede al di sopra dei cieli: tale è l’atteggiamento generale dei secoli IV e V, illustrato ad esempio da Sant’Agostino che parla dei “matematici” (cioè astrologi), «…quegli impostori che non compiono sacrifici e non pregano alcuna divinità per le loro predizioni, arti che la vera e cristiana pietà respinge e condanna recisamente».

[44] Abbiamo trattato questo argomento nei paragrafi 1.1 e 1.2 di Ateismo filosofico nel mondo antico. 

[45] Vale la pena citare come Ippocrate (metà del V se.a.C.) considerasse l’epilessia (il morbo sacro): «Essa si origina, come quelle, da cose che penetrano ed escono dal corpo, quali il freddo, il sole e i venti, cose che mutano continuamente e non sono mai in quiete. Tali cose possono essere o no divine – come vi piace poiché la distinzione non ha importanza – e non vi è alcuna necessità di fare tale distinzione in alcuna parte della natura, poiché tutto è egualmente divino o tutto è egualmente naturale.» (Charles Singer – op.cit. – p.42).

[46] La sacra Bibbia, Roma,  Edizioni Paoline 1965, p.1131.

[47] La grande importanza e la diffusione della dottrina dualistica essena, o almeno di alcuni suoi assunti, parrebbe essere presente nella religione di Mani, dove il dualismo Tenebre/Luce risulta tal quale, anche se radicalizzato in una separazione di principi ontologici contrapposti che esclude il monoteismo (presupposto invece dall’essenismo). Nel Manicheismo, infatti, Luce e Tenebre erano in origine separate, poi ci fu la “grande calamità”, ovvero l’invasione delle Tenebre nella Luce, e da ciò nacque il mondo attuale, in cui rimangono tracce di Luce ma in un contesto dominato dalle Tenebre, che si manifestano nei corpi, sostanze demoniache dalla quale ci si deve liberare attraverso l’ascesi. Pertanto, chi vuol liberare la propria parte buona (l’anima) da quella demoniaca (il corpo) è chiamato a ingaggiare una lotta senza quartiere alla Tenebra al fine di ricacciarla nel suo ambito e ripristinare l’originaria purezza ontologica della Luce. Ciò può essere avviato soltanto con la mortificazione del proprio corpo, ma questo è soltanto il primo passo di un faticoso percorso verso la Luce, che porterà il catecumeno al perfetto stato ascetico dell’ “eletto”. In realtà il manicheismo si caratterizza come una dottrina gnostica e soteriologica estremamente complessa e sincretica, nella quale risultano assunti ed inclusi nella fenomenologia salvifica Noè, Abramo, i profeti del vecchio Testamento, Zarathustra, Buddha, Gesù e San Paolo.

[48] La Sacra Bibbia, Roma, Edizioni Paoline 1965, p.736.

[49] De congressu 89-109 (in L’uomo e Dio, Rusconi 1986, pp.135-143.)

[50] Filone di Alessandria, La filosofia mosaica, Rusconi 1987, p.84.

[51] Ivi p.124.

[52] Filone di Alessandria  L’erede delle cose divine Rusconi 1981 – pp.183-184.

[53] In realtà il passo della Genesi si riferisce alla schiavitù in Egitto, ma Filone ne dà un’interpretazione allegorica in chiave metafisico-mistica.

[54] Ivi, pp.203-204.

[55] Clemente Alessandrino, Stromati, Roma, Edizioni Paoline 1985, p.242.

[56] Basilio di Cesarea,  Le Lettere, I volume, Torino, SEI 1983, p.93.

[57] Platone, Tutti gli scritti, op.cit., p. 902. 

[58] Ivi, p.928.

[59] Le Lettere di San Paolo sono collocabili tra il 50-51 (Prima ai Tessalonicesi) e il 67 (Seconda a Timoteo) mentre i tre Vangeli Sinottici (Matteo, Marco e Luca) sono tutti posteriori al 70 in quanto in essi si parla della Distruzione di Gerusalemme, avvenuta in quell’anno. Il quarto (Giovanni) è di una trentina d’anni più tardo.