Il filo conduttore
(1950-2000)
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Firenze 2001
Capitolo
zero (introduzione) Pag. 1
Capitolo
uno (addivenire) Pag. 6
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Capitolo zero
Questa storia ha inizio con il
1950, quando Alfredo e Silvana decidono di sposarsi.
Sono i primi anni del dopoguerra,
il fascismo e poi la guerra hanno segnato profondamente la loro vita.
Ambedue vengono da famiglie
contadine, ambedue hanno subito le prepotenze di un regime fascista che non si
faceva certo garante delle famiglie contadine a mezzadria, tantomeno
se si ponevano in modo critico e non davano palese consenso a tutte le
battaglie interne ed esterne che il regime aveva proclamato.
Entrambi hanno vissuto le vicende
devastanti della guerra: la fame, la morte, la paura,
In loro c’è la certezza che, una volta
fuori da questa maledetta avventura, faranno di tutto per creare un nuovo modo
di vivere; sono sicuri che i loro sforzi non saranno vani perché si sentono
forti; sentono di non dover niente a nessuno, perché nessuno gli ha mai dato
niente per niente; non hanno addosso nessun compromesso con cui fare i conti.
Il come si sono conosciuti e il
loro modo di stare insieme prima del matrimonio si perde nella riservatezza
tipica della cultura contadina; di queste cose se ne può parlare con gli amici,
ma non in famiglia, tantomeno con i propri figli.
Sono cose loro e così devono restare.
Comunque lo scenario è facilmente
individuabile: sono gli anni della ricostruzione e della frustrazione. Anni in
cui la fame è sempre dietro l’angolo, anni in cui non ci si può permettere di
comprare un paio di scarpe o qualcosa da vestire che non sia riadattato dalle
divise militari; in certe situazioni addirittura non si vuole comprare, perché
un paio di scarpe nuove può far pensare al “Padrone” che il contadino non è
onesto e che, per quelle scarpe, ha necessariamente falsificato la divisione
del raccolto.
Il lavoro nei campi non manca mai,
c’è n’è per tutti: uomini, donne, giovani, vecchi e bambini; dall’alba al
tramonto e la sera nella stalla o in cucina. C’è tanto rispetto per la terra e
gli animali e ci sono tante maledizioni per tutto il resto.
La famiglia di Alfredo vive in val di Lucciole da oltre trecento anni (si parla di una
legge che assegna la proprietà della terra alla famiglia che l’ha coltivata per
trecento anni, ma durante il fascismo su queste cose non si è certo potuto
chiedere spiegazioni).
E’ un podere di sei ettari
terrazzati con ulivi, viti, alberi da frutta e tutto quello che la terra
sassosa delle colline toscane può far crescere, compresa una bellissima pianta
di gigli bianchi accanto al lavatoio.
Prima della guerra questa famiglia
era numerosa e con tante braccia forti per lavorare la terra, agli inizi del
anni ’50 invece è ormai ridotta al minimo indispensabile per poter mandare
avanti il podere; la guerra, le malattie, il piano Marshall
si sono abbattuti su questa comunità contadina in maniera pesante.
C’è Ferdinando il grande vecchio,
con la moglie ormai minata da un male incurabile; c’è Ugo diventato il figlio
maggiore dopo la morte per malattia, durante gli anni di guerra, del fratello
più grande; infine c’è Alfredo che si appresta a diventare, per il suo
carattere e la sua determinazione, il capofamiglia.
Gli altri due fratelli del grande
vecchio, hanno ormai preso altre strade, con suo grande rammarico, anzi più che
un rammarico è stato considerato quasi un tradimento.
Il podere è ben messo, ha sorgenti
d’acqua, confina con il bosco ed è un vero spettacolo vedere i muri a secco
delle terrazze allineati e ben tenuti, tutti con le buche per lo scolo delle
acque e i gradini fatti con pietre sporgenti per salire da una terrazza
all’altra; i fossetti di raccolta delle acque piovane
e delle sorgenti stagionali confluiscono tutti, con un ingegnoso sistema
idrico, nel lavatoio che serve anche da deposito per l’irrigazione dell’orto.
Tutto è ordinato e essenziale,
tutte le cose e tutte le azioni hanno un loro nome proprio.
La famiglia di Silvana abita due
vallate più a sud, all’inizio delle colline del Chianti. E’ una famiglia in
continuo movimento, sempre alla ricerca di poderi migliori e padroni più umani.
In questi anni sono a mezzadria
sulla terra della Curia
Il piccolo podere si compone di
appezzamenti separati che stanno su due colline e che complessivamente rendono
quanto basta per sopravvivere.
In casa non c’è acqua corrente, il forno
è dietro la chiesa, l’orto occorre farlo in fondo al campo dietro casa perché è
l’unico posto in cui è possibile recuperare acqua da una sorgente.
Nella famiglia di Silvana predomina
la presenza femminile: cinque donne e due uomini. I due maschi sono il padre e
il fratello di Silvana, il fratello è l’ultimo nato dopo tre femmine di cui
Silvana è
Le tre sorelle aiutano nei campi,
nelle faccende domestiche e imparano l’arte del cucito e del ricamo.
Alfredo e Silvana si sposano nel
febbraio del ’50. Cerimonia in chiesa, qualche foto al piazzale Michelangiolo
con pochi intimi,
Alfredo, fisico robusto da ex bersagliere,
capelli scuri e folti, baffi sempre ben curati, è un lavoratore instancabile;
all’alba inizia ad arare i campi, se si ferma è solo per far riposare i buoi e
magari per massaggiarli, con il grasso di maiale, il collo affaticato dal
continuo movimento del giogo a cui è attaccato il pesante aratro di acciaio.
Silvana, giovane donna già abituata
ai lavori nei campi e all’economia della casa, si inserisce immediatamente e
completamente nella nuova casa e ne diviene il riferimento domestico. Fisico asciutto
ed altezza nella media, capelli nerissimi e vellutati che cadono morbidi fino
sulle spalle; inserita in un diverso contesto non avrebbe certo sfigurato con
le emergenti attrici del neorealismo italiano.
All’inizio dell’anno successivo, il
21 gennaio, primo giorno dell’Acquario e ricorrenza della decapitazione del Re
di Francia, arrivo io.
E’ domenica pomeriggio, il timido
sole invernale se n’è già andato, in casa c’è un formicolio di persone
affaccendate e incuriosite; su tutti si impone la levatrice, curiosa figura di
donna, piccola e un po’ ricurva anche se ancora nel fiore degli anni; ha
qualcosa da far fare a ogni persona che incrocia. La forza le viene dalla
consapevolezza del suo ruolo, dall’esperienza, dal fatto che non esiste nessuna
alternativa al suo operare.
La grande cucina è riscaldata
abbondantemente dal camino,dove vengono gettate fascine e tronchi di ulivo, per
far si che l’acqua del paiolo bolla in continuazione; inoltre confina con le
stalle e da quella parte non potrà mai arrivare il freddo.
Le camere, che sono al primo
piano,sono stiepidite solo dal calore che sale dalla
cucina attraverso le strette scale; il salotto, a cui si accede a metà scale, è
tenuto chiuso, in modo che non possa appropriarsi inutilmente di quel tepore.
La camera, che ha la finestra
sull’aia, è adesso piena di gente felice e timorosa di fare troppo frastuono;
il lettone è tenuto caldo da due trabiccoli con i veggioli
di terracotta pieni di brace e cenere.
Io sono lì in mezzo a tutto e a
tutti, in attesa di entrare a pieno diritto in quel gioco al quale forse un giorno potrò aggiungere
nuove regole e cancellarne di vecchie.
Antella 21 Gennaio
1951
Indice
****************** passa il tempo
****************************************
Il 1966 (Le feste in casa)
Il 1972 (il Falterona)
Il 1974
(il
militare)
Qualche giorno
di preparativi, pochi i momenti per concedersi agli amici;
i momenti
migliori, i più importanti, sono gli ultimi, quelli a ridosso della partenza
e vorresti
passarli con gli amici più cari, e allora corri da una parte all’altra della
città
alla loro
ricerca.
Poi quel
momento così importante di sfugge, sfuma, non riesci più a trattenerlo e lo
perdi,
arriva la
crisi.
Sono rimasto
sempre molto calmo e lucido, adesso è passata mezzanotte e non sono
riuscito a
salutare Salvino, Laura, e … inizio a girare a vuoto.
Per fortuna
gran parte delle cose per il viaggio sono già pronte, giro per la stanza con
la sensazione
di dimenticare a casa le cose più importanti. Provo ad andare a letto,
domani mattina
alle cinque mi devo alzare.
Dormire,
dormire, … eppure quegli stronzi, non vedendomi, potevano
venire loro a
salutarmi, ….
forse domani mattina me li trovo giù alla porta ad aspettarmi,
ma che cazzo dico, devo dormire.
………….
E’ ora di
partire , via, via, bisogna fare presto, .. veloci, … ma che fa questo treno
non si muove?
Via, via, …ciao, ciao, .. si telefono, via partire, … ciao, ciao.
Ops … siamo già partiti, non è
stato poi così difficile partire.
Boia quanta
gente, .. come? ..vai a Roma .., io vado a Sassari, beato te
… anche tu vai
a Roma, beati voi.
Ciao, .. come?
… vai a Sassari anche tu, bene, insomma sculo, …
vieni da Pisa?
… io sono
piacere Aldo,
io sono Massimo.
Così è
cominciato, con un treno che va verso il mare; non è necessario
parlare del
viaggio da Firenze a Sassari, un viaggio che chiunque può fare,
magari con uno
spirito diverso dal nostro, … Aldo sta già scrivendo
una lettera a
Giovanna.
…………..
Siamo su un
camion militare fermo davanti al cancello di una caserma,
ancora qualche
secondo e siamo fregati, .. ecco fatto, siamo fregati.
E’ mezzogiorno
del 2 agosto, tutto quello che cista intorno c’è lo ricorda
in
continuazione.
Adesso siamo
in una grande aula, alla cattedra ci sono tre militari, sono molto
loquaci, …
Sassari, … Cagliari, … Macomer, .. Sassari, .. Macomer, ……
Mi chiamano e
mi dicono: Macomer, … non capisco, ma rinuncio a
capire,
non mi va di
pensare, tutti noi ci guardiamo e sorridiamo.
Via di corsa a
mangiare, alla svelta che dobbiamo prendere il treno, …
ma per andare
dove? … a Macomer, … e cosa è? .. una città con la
caserma,
chiedo meglio
e uno, esperto, mi risponde: Forte Apache.
Entriamo in
caserma dopo esserci lasciati il paese laggiù in fondo alla strada;
un enorme
piazzale, pochissima gente. Ci guardiamo tutti in faccia,
siamo sempre
noi, ci riconosciamo ancora perfettamente.
Tante cose da
fare e poi eccoci tutti di fronte alla dura realtà:
la prima notte da militare;
ancora
ciascuno per conto suo a combattere con le abitudini e i ricordi.
Avrei voglia di
parlare, dire che siamo tutti nella merda e che
quindi
dobbiamo avere
fiducia l’uno nell’altro, aiutarci, capirci e tante altre cose,
ma non c’è la
faccio; Aldo è laggiù in fondo alla camerata; si spenge la luce;
per fortuna il
viaggio è stato lungo e faticoso.
(la poesia)
Gli occhi,
il cuore,
non so,
forse si;
non serve
correre,
sono già
caduto non spingete.
Gli occhi,
si gli occhi
mi
oltrepassano nel retrobottega
e ridono,
ridono e ridono.
Dimenticare,
credimi, è bello.
Nuvole d’inferno
scoiattoli
che corrono
io che non
so.
Bellissimo
è
sentirsi
vuoto
di tutto
quello
che avevi
dentro.
Bellissimo
è
sentirsi
pieno
di tutto
quello
che mi
stai dando.
Bellissimo
è
il non
possesso di te,
la mia, la
tua libertà
di essere
Bellissimo
è
credere
che questo momento
è il
sempre.
A volte mi
lascio guidare
senza
inibizioni
dalla mia
mente,
ma poi mi
dico
e mi
dicono
che non è
giusto;
perché è
così difficile
essere se
stessi.
Cavalchiamo
la nostra libertà
attraverso
stretti vicoli
sui muri
dei quali
strisciamo
i nostri gomiti.
Sono già
stato vecchio,
adesso
sono molto più giovane
di allora
e voglio
esserlo sempre di più.
Il 1976 (Cervinia)
Il 1978 (gli amici)