Il filo conduttore

(1950-2000)               Home

 

Firenze 2001


Indice

 

Capitolo zero (introduzione)                                       Pag.  1

Capitolo uno (addivenire)                                           Pag.  6

…………………………                                              

Il 1966 (le feste in casa)                                             

Il 1972 (il Falterona)

Il 1974 (il militare)

Il 1975 (la poesia)                                    

Il 1976 (Cervinia)

Il 1978 (gli amici)

…………………………                                              

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Capitolo zero

 

 

Questa storia ha inizio con il 1950, quando Alfredo e Silvana decidono di sposarsi.

 

Sono i primi anni del dopoguerra, il fascismo e poi la guerra hanno segnato profondamente la loro vita.

 

Ambedue vengono da famiglie contadine, ambedue hanno subito le prepotenze di un regime fascista che non si faceva certo garante delle famiglie contadine a mezzadria, tantomeno se si ponevano in modo critico e non davano palese consenso a tutte le battaglie interne ed esterne che il regime aveva proclamato.

 

Entrambi hanno vissuto le vicende devastanti della guerra: la fame, la morte, la paura, la rabbia. In loro però non c’è mai stata rassegnazione.

 

In loro c’è la certezza che, una volta fuori da questa maledetta avventura, faranno di tutto per creare un nuovo modo di vivere; sono sicuri che i loro sforzi non saranno vani perché si sentono forti; sentono di non dover niente a nessuno, perché nessuno gli ha mai dato niente per niente; non hanno addosso nessun compromesso con cui fare i conti.

 

Il come si sono conosciuti e il loro modo di stare insieme prima del matrimonio si perde nella riservatezza tipica della cultura contadina; di queste cose se ne può parlare con gli amici, ma non in famiglia, tantomeno con i propri figli. Sono cose loro e così devono restare.

 

Comunque lo scenario è facilmente individuabile: sono gli anni della ricostruzione e della frustrazione. Anni in cui la fame è sempre dietro l’angolo, anni in cui non ci si può permettere di comprare un paio di scarpe o qualcosa da vestire che non sia riadattato dalle divise militari; in certe situazioni addirittura non si vuole comprare, perché un paio di scarpe nuove può far pensare al “Padrone” che il contadino non è onesto e che, per quelle scarpe, ha necessariamente falsificato la divisione del raccolto.

 

Il lavoro nei campi non manca mai, c’è n’è per tutti: uomini, donne, giovani, vecchi e bambini; dall’alba al tramonto e la sera nella stalla o in cucina. C’è tanto rispetto per la terra e gli animali e ci sono tante maledizioni per tutto il resto.

 

La famiglia di Alfredo vive in val di Lucciole da oltre trecento anni (si parla di una legge che assegna la proprietà della terra alla famiglia che l’ha coltivata per trecento anni, ma durante il fascismo su queste cose non si è certo potuto chiedere spiegazioni).

 

E’ un podere di sei ettari terrazzati con ulivi, viti, alberi da frutta e tutto quello che la terra sassosa delle colline toscane può far crescere, compresa una bellissima pianta di gigli bianchi accanto al lavatoio.

 

Prima della guerra questa famiglia era numerosa e con tante braccia forti per lavorare la terra, agli inizi del anni ’50 invece è ormai ridotta al minimo indispensabile per poter mandare avanti il podere; la guerra, le malattie, il piano Marshall si sono abbattuti su questa comunità contadina in maniera pesante.

 

C’è Ferdinando il grande vecchio, con la moglie ormai minata da un male incurabile; c’è Ugo diventato il figlio maggiore dopo la morte per malattia, durante gli anni di guerra, del fratello più grande; infine c’è Alfredo che si appresta a diventare, per il suo carattere e la sua determinazione, il capofamiglia.

 

Gli altri due fratelli del grande vecchio, hanno ormai preso altre strade, con suo grande rammarico, anzi più che un rammarico è stato considerato quasi un tradimento.

 

Il podere è ben messo, ha sorgenti d’acqua, confina con il bosco ed è un vero spettacolo vedere i muri a secco delle terrazze allineati e ben tenuti, tutti con le buche per lo scolo delle acque e i gradini fatti con pietre sporgenti per salire da una terrazza all’altra; i fossetti di raccolta delle acque piovane e delle sorgenti stagionali confluiscono tutti, con un ingegnoso sistema idrico, nel lavatoio che serve anche da deposito per l’irrigazione dell’orto.

 

Tutto è ordinato e essenziale, tutte le cose e tutte le azioni hanno un loro nome proprio.

 

La famiglia di Silvana abita due vallate più a sud, all’inizio delle colline del Chianti. E’ una famiglia in continuo movimento, sempre alla ricerca di poderi migliori e padroni più umani.

 

In questi anni sono a mezzadria sulla terra della Curia di Firenze, in località Quarate, poche case coloniche raccolte intorno ad una chiesetta di campagna, che vanta però abbellimenti cinquecenteschi.

 

Il piccolo podere si compone di appezzamenti separati che stanno su due colline e che complessivamente rendono quanto basta per sopravvivere.

 

In casa non c’è acqua corrente, il forno è dietro la chiesa, l’orto occorre farlo in fondo al campo dietro casa perché è l’unico posto in cui è possibile recuperare acqua da una sorgente.

 

Nella famiglia di Silvana predomina la presenza femminile: cinque donne e due uomini. I due maschi sono il padre e il fratello di Silvana, il fratello è l’ultimo nato dopo tre femmine di cui Silvana è la maggiore. Le altre due donne sono la madre a la nonna paterna di Silvana.

 

Le tre sorelle aiutano nei campi, nelle faccende domestiche e imparano l’arte del cucito e del ricamo.

 

Alfredo e Silvana si sposano nel febbraio del ’50. Cerimonia in chiesa, qualche foto al piazzale Michelangiolo con pochi intimi, la festa. Il giorno dopo subito insieme al lavoro in val di Lucciole.

 

Alfredo, fisico robusto da ex bersagliere, capelli scuri e folti, baffi sempre ben curati, è un lavoratore instancabile; all’alba inizia ad arare i campi, se si ferma è solo per far riposare i buoi e magari per massaggiarli, con il grasso di maiale, il collo affaticato dal continuo movimento del giogo a cui è attaccato il pesante aratro di acciaio.

 

Silvana, giovane donna già abituata ai lavori nei campi e all’economia della casa, si inserisce immediatamente e completamente nella nuova casa e ne diviene il riferimento domestico. Fisico asciutto ed altezza nella media, capelli nerissimi e vellutati che cadono morbidi fino sulle spalle; inserita in un diverso contesto non avrebbe certo sfigurato con le emergenti attrici del neorealismo italiano.

 

All’inizio dell’anno successivo, il 21 gennaio, primo giorno dell’Acquario e ricorrenza della decapitazione del Re di Francia, arrivo io.

 

E’ domenica pomeriggio, il timido sole invernale se n’è già andato, in casa c’è un formicolio di persone affaccendate e incuriosite; su tutti si impone la levatrice, curiosa figura di donna, piccola e un po’ ricurva anche se ancora nel fiore degli anni; ha qualcosa da far fare a ogni persona che incrocia. La forza le viene dalla consapevolezza del suo ruolo, dall’esperienza, dal fatto che non esiste nessuna alternativa al suo operare.

 

La grande cucina è riscaldata abbondantemente dal camino,dove vengono gettate fascine e tronchi di ulivo, per far si che l’acqua del paiolo bolla in continuazione; inoltre confina con le stalle e da quella parte non potrà mai arrivare il freddo.

 

Le camere, che sono al primo piano,sono stiepidite solo dal calore che sale dalla cucina attraverso le strette scale; il salotto, a cui si accede a metà scale, è tenuto chiuso, in modo che non possa appropriarsi inutilmente di quel tepore.

 

La camera, che ha la finestra sull’aia, è adesso piena di gente felice e timorosa di fare troppo frastuono; il lettone è tenuto caldo da due trabiccoli con i veggioli di terracotta pieni di brace e cenere.

 

Io sono lì in mezzo a tutto e a tutti, in attesa di entrare a pieno diritto in quel gioco  al quale forse un giorno potrò aggiungere nuove regole e cancellarne di vecchie.

 

 

Antella 21 Gennaio 1951                                                 Indice

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Il 1966    (Le feste in casa)


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Il 1972 (il Falterona)

 

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Il 1974                                          (il militare)

Qualche giorno di preparativi, pochi i momenti per concedersi agli amici;

i momenti migliori, i più importanti, sono gli ultimi, quelli a ridosso della partenza

e vorresti passarli con gli amici più cari, e allora corri da una parte all’altra della città

alla loro ricerca.

Poi quel momento così importante di sfugge, sfuma, non riesci più a trattenerlo e lo perdi,

arriva la crisi.

Sono rimasto sempre molto calmo e lucido, adesso è passata mezzanotte e non sono

riuscito a salutare Salvino, Laura, e … inizio a girare a vuoto.

Per fortuna gran parte delle cose per il viaggio sono già pronte, giro per la stanza con

la sensazione di dimenticare a casa le cose più importanti. Provo ad andare a letto,

domani mattina alle cinque mi devo alzare.

Dormire, dormire, … eppure quegli stronzi, non vedendomi, potevano venire loro a

salutarmi, …. forse domani mattina me li trovo giù alla porta ad aspettarmi,

ma che cazzo dico, devo dormire.

………….

E’ ora di partire , via, via, bisogna fare presto, .. veloci, … ma che fa questo treno

non si muove? Via, via, …ciao, ciao, .. si telefono, via partire, … ciao, ciao.

Ops … siamo già partiti, non è stato poi così difficile partire.

Boia quanta gente, .. come? ..vai a Roma .., io vado a Sassari, beato te

… anche tu vai a Roma, beati voi.

Ciao, .. come? … vai a Sassari anche tu, bene, insomma sculo, …

vieni da Pisa? … io sono di Firenze, …. e si, ci sono rimasto proprio male, ..

piacere Aldo, io sono Massimo.

Così è cominciato, con un treno che va verso il mare; non è necessario

parlare del viaggio da Firenze a Sassari, un viaggio che chiunque può fare,

magari con uno spirito diverso dal nostro, … Aldo sta già scrivendo

una lettera a Giovanna.

…………..

Siamo su un camion militare fermo davanti al cancello di una caserma,

ancora qualche secondo e siamo fregati, .. ecco fatto, siamo fregati.

E’ mezzogiorno del 2 agosto, tutto quello che cista intorno c’è lo ricorda

in continuazione.

Adesso siamo in una grande aula, alla cattedra ci sono tre militari, sono molto

loquaci, … Sassari, … Cagliari, … Macomer, .. Sassari, .. Macomer, ……

Mi chiamano e mi dicono: Macomer, … non capisco, ma rinuncio a capire,

non mi va di pensare, tutti noi ci guardiamo e sorridiamo.

Via di corsa a mangiare, alla svelta che dobbiamo prendere il treno, …

ma per andare dove? … a Macomer, … e cosa è? .. una città con la caserma,

chiedo meglio e uno, esperto, mi risponde: Forte Apache.

Entriamo in caserma dopo esserci lasciati il paese laggiù in fondo alla strada;

un enorme piazzale, pochissima gente. Ci guardiamo tutti in faccia,

siamo sempre noi, ci riconosciamo ancora perfettamente.

Tante cose da fare e poi eccoci tutti di fronte alla dura realtà: la prima notte da militare;

ancora ciascuno per conto suo a combattere con le abitudini e i ricordi.

Avrei voglia di parlare, dire che siamo tutti nella merda e che quindi

dobbiamo avere fiducia l’uno nell’altro, aiutarci, capirci e tante altre cose,

ma non c’è la faccio; Aldo è laggiù in fondo alla camerata; si spenge la luce;

per fortuna il viaggio è stato lungo e faticoso.


 

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Il 1975

(la poesia)

 

Gli occhi, il cuore,

non so, forse si;

non serve correre,

sono già caduto non spingete.

 

Gli occhi, si gli occhi

mi oltrepassano nel retrobottega

e ridono, ridono e ridono.

 

Dimenticare, credimi, è bello.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nuvole d’inferno

scoiattoli che corrono

io che non so.

 

 


 

 

Bellissimo è

sentirsi vuoto

di tutto quello

che avevi dentro.

 

Bellissimo è

sentirsi pieno

di tutto quello

che mi stai dando.

 

Bellissimo è

il non possesso di te,

la mia, la tua libertà

di essere

 

Bellissimo è

credere che questo momento

è il sempre.

 

 

 


 

 

A volte mi lascio guidare

senza inibizioni

dalla mia mente,

ma poi mi dico

e mi dicono

che non è giusto;

perché è così difficile

essere se stessi.

 

 

 

 

 

Cavalchiamo la nostra libertà

attraverso stretti vicoli

sui muri dei quali

strisciamo i nostri gomiti.

 

 

 

 

 

Sono già stato vecchio,

adesso sono molto più giovane

di allora

e voglio esserlo sempre di più.

 

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Il 1976        (Cervinia)


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Il 1978            (gli amici)

                   

 

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