Umberto Eco - Il nome della rosa

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Invano. Io pensavo alla fanciulla. La mia carne aveva dimenticato il piacere, intenso, peccaminoso e passeggero (cosa vile) che mi aveva dato il congiungermi con lei; ma la mia anima non aveva dimenticato il suo volto, e non riusciva a sentire perverso questo ricordo, anzi palpitava come se in quel volto risplendessero tutte le dolcezze del creato. Avvertivo, in modo confuso e quasi negando a me stesso la verità di quanto sentivo, che quella povera, lercia, impudente creatura che si vendeva (chissà con quanta proterva costanza) ad altri peccatori, quella figlia di Eva che, debolissima come tutte le sue sorelle, aveva tante volte fatto commercio della propria carne, era tuttavia un qualcosa di splendido e mirifico. Il mio intelletto la sapeva fornite di peccato, il mio appetito sensitivo l'avvertiva come ricettacolo di ogni grazia. E' difficile dire cosa provassi. Potrei tentare di scrivere che, ancora preso dalle trame del peccato, desideravo, colpevolmente, di vederla apparire a ogni istante, e quasi spiavo il lavoro degli operai per scrutare se dall'angolo di una capanna, dal buio di una stalla, apparisse quella figura che mi aveva sedotto. Ma non scriverei il vero, oppure tenterei di porre un velo alla verità per attenuarne la forza e l'evidenza. Perché la verità è che io "vedevo" la fanciulla, la vedevo nei rami dell'albero spoglio che palpitavano leggermente quando un passero intirizzito volava a cercarvi rifugio; la vedevo negli occhi delle giovenche che uscivano dalla stalla, e la udivo nel belato degli agnelli che incrociavano il mio errare. Era come se tutto il creato mi parlasse di lei, e desideravo, sì, di rivederla, ma ero pur pronto ad accettare l'idea di non rivederla mai più, e di non congiungermi mai più con lei, purché potessi godere del gaudio che mi pervadeva quel mattino, e averla sempre vicina anche se fosse stata, e per l'eternità, lontana. Era, Ora cerco di capire, come se tutto l'universo mondo, che chiaramente è quasi un libro scritto dal dito di Dio, in cui ogni cosa ci parla dell'immensa bontà del suo creatore, in cui ogni creatura è quasi scrittura e specchio della vita e' della morte, in cui la più umile rosa si fa glossa del nostro cammino terreno, tutto insomma, di altro non mi parlasse se non del volto che avevo a mala pena intravisto nelle ombre odorose della cucina. Indulgevo a queste fantasie perché mi dicevo (o meglio non mi dicevo, perché in quel momento non formulavo pensieri traducibili in parole) che se il mondo intero è destinato a parlarmi della potenza, bontà, e saggezza del creatore, e se quel mattino il mondo intero mi parlava della fanciulla che (per peccatrice che fosse) era pur sempre un capitolo del gran libro del creato, un versetto del grande salmo cantato dal cosmo - mi dicevo (ora dico), che se questo avveniva non poteva non far parte del grande disegno teofanico che regge l'universo, disposto a modo di cetra, miracolo di consonanza e di armonia. Quasi inebriato, godevo allora della presenza di lei nelle cose che vedevo, e in esse desiderandola, nella vista di esse mi appagavo. E pure sentivo come un dolore, perché al tempo stesso soffrivo di un'assenza, pur essendo felice di tanti fantasmi di una presenza. Mi riesce difficile spiegare questo mistero di contraddizione, segno che l'animo umano è assai fragile e non procede mai dirittamente lungo i sentieri della ragione divina, che ha costruito il mondo come un perfetto sillogismo, ma di questo sillogismo coglie solo proposizioni isolate e sovente disconnesse, donde la nostra facilità a cadere vittima delle illusioni del maligno. Era illusione del maligno quella che quella mattina mi rendeva così commosso? Penso oggi che lo fosse, perché ero novizio, ma penso che l'umano sentimento che mi agitava non fosse cattivo in sé, ma solo in riferimento al mio stato. Perché di per se era il sentimento che muove l'uomo verso la donna affinché l'uno si congiunga con l'altra, come vuole l'apostolo delle genti, ed entrambi siano carne di una sola carne, e insieme procreino nuovi esseri umani e si assistano mutuamente dalla gioventù alla vecchiaia. Solo che l'apostolo così parlò per coloro che cercano il rimedio alla concupiscenza e a chi non voglia bruciare, ricordando però che ben più preferibile è lo stato di castità, a cui io monaco mi ero consacrato. E quindi io pativo quella mattina ciò che era male per me, ma per altri forse era bene, e bene dolcissimo, per cui ora capisco che il mio turbamento non era dovuto alla pravità dei miei pensieri, in sé degni e soavi, ma alla pravità del rapporto tra i miei pensieri e i voti che avevo pronunciato. E quindi facevo male a godere di una cosa buona sotto una certa ragione, cattiva sotto un 'altra, e il mio difetto stava nel tentare di conciliare con l'appetito naturale i dettami dell'anima razionale. Ora so che soffrivo del contrasto tra l'appetito elicito intellettivo, dove avrebbe dovuto manifestarsi l'imperio della volontà, e l'appetito elicito sensitivo, soggetto delle umane passioni. Infatti actus appetitus sensitivi in quantum habent transmutationem corporalem annexarn, passiones dicuntur, non autem actus voluntatis. E il mio atto appetitivo era per l'appunto accompagnato da un tremore di tutto il corpo, da un impulso fisico a gridare e ad agitarmi. L'angelico dottore dice che le passioni in sé non sono cattive, salvo che van moderate dalla volontà guidata dall'anima razionale. Ma la mia anima razionale era in quel mattino sopita dalla stanchezza la quale teneva a freno l'appetito irascibile, che si rivolge al bene e al male in quanto termini di conquista, ma non l'appetito concupiscibile, che si rivolge al bene e al male in quanto conosciuti. A giustificare la mia irresponsabile leggerezza di allora dirò oggi, e con le parole del dottore angelico, che ero indubbiamente preso di amore, che è passione ed è legge cosmica, perché anche la gravità dei corpi è amore naturale. E da questa passione ero naturalmente sedotto, perché in questa passione appetitus tendit in appetibile realiter consequendum ut sit ibi finis motus. Per cui naturalmente amor facit quod ipsae res quae amantur, amanti aliquo modo uniantur et amor est magis cognitivus quarn cognitio. Infatti io ora vedevo la fanciulla meglio di quanto l'avessi vista la sera prima, e la capivo intus et in cute perché in essa capivo me e in me essa stessa. Mi chiedo ora se quello che provavo fosse l'amore di amicizia, in cui il simile ama il simile e vuole solo il bene altrui, o amore di concupiscenza, in cui si vuole il proprio bene e il mancante vuole solo ciò che lo completa. E credo che amore di concupiscenza fosse stato quello della notte, in cui volevo dalla fanciulla qualcosa che non avevo mai avuto, mentre in quella mattina dalla fanciulla non volevo nulla, e volevo solo il suo bene, e desideravo che essa fosse sottratta alla crudele necessità che la piegava a darsi per poco cibo, e fosse felice, né volevo chiederle più nulla ma solo continuare a pensarla e vederla nelle pecore, nei buoi, negli alberi, nella luce serena che avvolgeva di gaudio la cinta dell'abbazia. Ora so che causa dell'amore è il bene e ciò che è bene si definisce per conoscenza, e non si può amare se non ciò che si è appreso come bene, mentre la fanciulla l'avevo appresa, sì, come bene dell'appetito irascibile, ma come male della volontà. Ma allora ero in preda a tanti e tanto contrastanti moti dell'animo perché ciò che provavo era simile all'amore più santo proprio come lo descrivono i dottori: esso mi produceva l'estasi, in cui amante e amato vogliono la stessa cosa (e per misteriosa illuminazione io in quel momento sapevo che la fanciulla, dovunque essa fosse, voleva le stesse cose che io stesso volevo), e per essa io provavo gelosia, ma non quella cattiva, condannata da Paolo nella prima ai corinzi, che è principium contentionis, e non ammette consonium in amato, ma quella di cui parla Dionigi nei Nomi Divini; per cui anche Dio è detto geloso propter multum amorem quem habet ad existentia (e io amavo la fanciulla proprio perché essa esisteva, ed ero lieto, non invidioso, che essa esistesse). Ero geloso nel modo in cui per l'angelico dottore la gelosia è motus in amatum, gelosia di amicizia che induce a muoversi contro tutto ciò che nuoce all'amato (e io altro non fantasticavo, in quell'istante, che di liberare la fanciulla dal potere di chi ne stava comprando le carni insozzandola con le proprie passioni nefaste). Ora so, come dice il dottore, che l'amore può ledere l'amante quando sia eccessivo; E il mio era eccessivo. Ho tentato di spiegare cosa allora provassi, non tento per nulla di giustificare quanto provavo. Parlo di quelli che furono i miei colpevoli ardori di gioventù. Erano male, ma la verità mi impone di dire che allora li avvertii come estremamente buoni. E questo valga ad ammaestrare chi, come me, incapperà nelle reti della tentazione. Oggi, vegliardo, conoscerei mille modi di sfuggire a tali seduzioni (e mi chiedo quanto debba esserne fiero, dappoiché sono libero dalle tentazioni del demone meridiano; ma non libero da altre, tal che mi chiedo se quanto sto ora facendo non sia colpevole acquiescenza alla passione terrestre della rimemorazione, stolido tentativo di sfuggire al flusso del tempo, e alla morte). Allora, mi salvai quasi per istinto miracoloso. La fanciulla mi appariva nella natura e nelle umane opere che mi circondavano. Cercai quindi, per felice intuito dell'anima, di immergermi nella distesa contemplazione di quelle opere. Osservai il lavoro dei vaccari che stavano portando i buoi fuori della stalla, dei porcai che recavano cibo ai maiali, dei pastori che aizzavano i cani a riunire le pecore, dei contadini che ponavano farro e miglio ai mulini e ne uscivano con sacchi di buon cibo. Mi immersi nella contemplazione della natura, cercando di dimenticare i miei pensieri e cercando di guardare solo gli esseri come essi ci appaiono, e di obliarmi nella loro visione, giocondamente. Come era bello lo spettacolo della natura non ancora toccato dalla sapienza, spesso perversa, dell'uomo!
Brano tratto da "Il nome della rosa" di Umberto Eco - Bompiani