Michail Bulgakov - Il Maestro e Margherita

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 «Guardiamo bene in faccia la realtà» e l'ospite si girò verso l'astro notturno che correva attraverso una nuvola. «Sia io che lei siamo pazzi, perché negarlo? Capisce, lui le ha dato una scossa violenta, e lei ha perso la ragione, poiché, evidentemente, c'era in lei un terreno favorevole. Ciò che lei racconta è sicuramente accaduto nella realtà. Ma è cosi insolito che neppure Stravinskij, che è un grande psichiatra, le ha creduto. È vero?» (Ivan annui.) «Il suo interlocutore è stato da Pilato, ha pranzato con Kant, e ora è venuto a visitare Mosca.»
 «E chissà che cosa combinerà, qui! In qualche modo bisogna acciuffarlo.» L'Ivan di prima, non ancora definitivamente arreso, riprese timidamente il sopravvento sul nuovo Ivan.
 «Ci ha già provato, e le basterà» disse l'ospite con ironia. «Agli altri non consiglio di tentare. Che ne combini d'ogni colore, può essere certo. Ah, ah. Ma mi fa una gran rabbia che l'abbia incontrato lei e non io. Giuro che per un incontro del genere darei le chiavi di Praskov'ja Fedorovna, poiché non ho nient'altro da dare. Sono un miserabile.»
 «A che cosa può giovarle?»
 L'ospite si fece triste e ebbe una contrazione in viso; infine cominciò a dire:
 «Vede, è una storia strana, io mi trovo qui per lo stesso motivo per cui ci si trova lei: a causa di Ponzio Pilato». L'ospite si guardò intorno con sospetto e disse: «Il fatto è che un anno fa ho scritto un romanzo su Pilato».
 «Lei è uno scrittore?» chiese interessato il poeta.
 L'ospite si rabbuiò in volto e minacciò col pugno Ivan, poi disse:
 «Io sono un Maestro» e con un aria severa si tolse dalla tasca della veste da camera un berrettuccio nero, tutto unto, su cui era ricamata in seta gialla le lettera "M". Se lo ficcò in testa e si fece vedere da Ivan di fronte e di profilo, per dimostrare che era un Maestro. «Me l 'ha cucito lei con le sue mani» soggiunse con un aria segreta.
 «Come si chiama?»
 «Non ho più nome» rispose con cupo disprezzo l'ospite. «Vi ho rinunziato, come ho rinunziato a tutto, nella vita.»
 «Mi parli almeno del romanzo» pregò Ivan con dolcezza.
 «Mi scusi, signore. La mia vita, bisogna dirlo, non è stata del tutto comune...» cominciò l'ospite.
 Storico di professione, fino a due anni prima lavorava in un museo di Mosca, ma si occupava anche di traduzioni.
 «Da che lingua?» s'interessò Ivan.
 «Conosco cinque lingue oltre a quella paterna,» rispose l'ospite «inglese, francese, tedesco, latino e greco. E leggo un po' l'italiano.»
 «Perbacco!» mormorò con ammirazione Ivan.
 Lo storico viveva da solo, non aveva parenti né paterni né materni, e non conosceva quasi nessuno a Mosca. E una volta, figuriamoci, vinse centomila rubli.
 «Immagini il mio stupore,» sussurrava l'ospite col cappello nero «quando infilai la mano nel cesto della biancheria sporca e ci trovai lo stesso numero che c'era sul giornale. Il biglietto» spiegò «me l'avevano dato al Museo.»
 ...Con la Vincita, l'enigmatico ospite di Ivan si era comprato dei libri, aveva abbandonato la sua stanza in via Mjasnickaja...
 «Un maledetto buco» sibilò.
 ...E aveva preso in affitto da un capomastro, in un vicolo vicino all'Arbat, due locali seminterrati, in una villetta abbastanza nuova, con un piccolo giardino. Lasciò l'impiego al Museo e cominciò a scrivere il romanzo su Ponzio Pilato.
 «Ah, era il secolo d'oro!» sussurrò l'ospite con gli occhi scintillanti. «Un alloggio perfettamente isolato, e c'era anche un lavabo nell'anticamera,» sottolineò, chissà perché, con una particolare fierezza «e le piccole finestre davano proprio sul breve passaggio che conduceva al cancelletto. Lì, di fronte, a quattroce passi, lungo lo steccato c'erano un lillà, un tiglio e un acero. Ah, ah! Ben di rado, d'inverno, scorgevo dalla finestra i neri piedi di qualcuno o li udivo frusciare nella neve. E nella stufa ardeva in continuazione il fuoco. Poi giunse d'un tratto la primavera, e dai vetri appannati vedevo i rami nudi dei lillà ricoprirsi di verde. Fu allora, la primavera scorsa, che mi accadde qualcosa di molto più emozionante di una vincita di centomila rubli. Sebbene, ne convenga, si tratti di una somma enorme.»
 «È vero» disse Ivan che lo ascoltava con molta attenzione.
 «Avevo aperto il finestrino e me ne stavo nella seconda stanza, piccolissima.» L'ospite si mise a descriverla a gesti «Ecco, qui il divano, di fronte un altro divano, in mezzo un tavolino con una magnifica lampada per la notte, e dei libri, qui una piccola scrivania, e nella prima stanza, una stanza enorme, quattordici metri!, libri, libri e la stufa. Ah, come stavo bene allora! Il lillà mandava un profumo particolare. E la mia testa diventava leggera per la stanchezza, e la mia storia di Pilato volava verso la fine...»
 «La toga bianca foderata di porpora! Capisco» esclamò Ivan.
 «Proprio cosi! Volava verso la fine, verso la fine, e già sapevo che le ultime parole del romanzo sarebbero state: "...il quinto procuratore della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato". Naturalmente uscivo a passeggiare. Centomila rubli sono una cifra enorme e vestivo molto bene. Oppure andavo a pranzare in qualche ristorante di lusso. All'Arbat c'era un magnifico ristorante, non so se esista ancora.» Gli occhi dell'ospite si dilatarono ed egli continuò a sussurrare guardando la luna. «Lei aveva in mano un mazzo di disgustosi, inquietanti fiori gialli. Sa il diavolo come si chiamano ma sono i primi a comparire a Mosca. E i fiori spiccavano violentemente sul suo soprabito nero. Aveva dei fiori gialli! Brutto colore. Sbucò da via Tverskaja in un vicolo e qui si voltò. Lei conosce via Tverskaja? Ci passavano migliaia di persone, ma io le assicuro che lei vide me solo e mi guardava non si può dire inquieta ma addirittura in modo morboso. E lei mi colpi non tanto per la sua bellezza, quanto per il senso di solitudine insolito, mai visto, che c'era nei suoi occhi. Obbedendo a quel segnale giallo, svoltai anch'io nel vicolo e la seguii. Camminavamo per la viuzza monotona, tutta curve, l'una da una parte, l'altro dall'altra, in silenzio. Non c'era anima viva. Io soffrivo perché mi pareva che fosse indispensabile parlare e stavo in pena perché se non dicevo niente, lei se ne sarebbe andata e io non l'avrei più rivista. E, si figuri, fu lei che cominciò d'un tratto a parlare.
 "Le piacciono i miei fiori?".
 Ricordo chiaramente il tono della sua voce, abbastanza profonda ma a scatti e, per quanto sia stupido, mi sembrava che l'eco urtasse nella viuzza e riecheggiasse dalla sporca parete ingiallita. Passai rapidamente dalla sua parte e avvicinandomi a lei risposi: "No".
 Mi guardò stupita, e d'un tratto compresi - e fu una cosa del tutto inaspettata - che per tutta la mia vita avevo amato proprio lei. Una bella storia, no? Certamente lei dirà che sono pazzo.»
 «Non dico niente» esclamò Ivan, e soggiunse: «La prego, continui».
 E l'ospite prosegui:
 «La ragazza mi guardò stupita e poi mi chiese: "Non le piacciono i fiori?". Nel suo tono mi parve di sentire dell'astio. Camminavo al suo fianco cercando di starle al passo, e mi stupivo di non sentirmi affatto a disagio.
 "Sì, i fiori mi piacciono, ma non questi" dissi.
 "Quali?"
 "Le rose mi piacciono."
 Mi pentii di ciò che avevo detto perché lei sorrise con un'aria colpevole e gettò i suoi fiori nel fossato. Un po' sconcertato li raccolsi e glieli porsi, ma la ragazza con un sorriso buono li respinse ed io tenni quei fiori in mano per un momento. Così camminammo per un po' in silenzio finché lei non mi strappò di mano i fiori e li gettò in mezzo alla strada, poi m'infilò sotto il braccio la sua mano guantata di nero. Proseguimmo l'uno accanto all'altra».
 «Avanti,» disse Ivan «la prego, non tralasci niente.»
 «Avanti?» domandò l'ospite «quello che avvenne poi potrebbe indovinarlo da solo.» D'un tratto si asciugò inaspettatamente una lacrima con la manica e proseguì: «L'amore ci aveva sorpreso inatteso e violento come un assassino che sbuchi fuori d'improvviso, e ci aveva pugnalato entrambi. Così colpisce il fulmine, così colpisce la lama finnica. Del resto, lei sosteneva in seguito che non avvenne così, che noi ci amavamo sicuramente da sempre, senza saperlo, senza esserci mai visti; lei viveva con un altro uomo... e io, allora... con quella, come si chiama...».
 «Con chi?» domandò Bezdomnyj.
 «Con quella, be', con quella...» rispose l'ospite e fece schioccare le dita.
 «Era sposato?»
 «Ma sì... con quella... Varen'ka... Manecka... No, Varen'ka... un eterno vestito a righe, un Museo... del resto non ricordo.
 Così mi disse che quel giorno era uscita con i fiori gialli perché finalmente la trovassi e che se non fosse successo si sarebbe avvelenata perché la sua vita era vuota.
 Già, l'amore ci aveva pugnalati di colpo. lo l'ho saputo quello stesso giorno, un'ora dopo, quando ci trovammo, senza accorgerci della città, vicino alle mura del Cremlino, sulla Moscova. Parlavamo come se ci fossimo separati la sera prima, come se ci conoscessimo da anni. Ci accordammo di ritrovarci il giorno dopo ancora lì sul lungofiume. Ci incontrammo. Il sole di maggio ci illuminava. E ben presto questa donna diventò la mia donna segreta.
 Veniva da me ogni giorno, nel primo pomeriggio, ma io cominciavo ad aspettarla fin dal mattino. Per vincere l'attesa non facevo che spostare gli oggetti sul tavolo. Poi mi sedevo vicino alla piccola finestra e cominciavo a mettermi in ascolto, per sentire il rumore del vecchio cancelletto. Ed era strano, fino al momento del nostro incontro ben poca gente entrava nel piccolo giardino, anzi, non entrava nessuno, ma allora mi pareva che tutta la città si dirigesse lì.
 Sbatteva il cancello, cominciava a battere il mio cuore, e immagini: ecco avanzare al di là della finestra, all'altezza del mio viso, gli stivali sporchi di un tizio qualsiasi. Magari era l'arrotino. Ma a chi poteva servire un arrotino nella nostra casa? Che cosa poteva affilare? Quali coltelli?
 Lei entrava una sola volta dal cancelletto ma fino a quel momento avevo avuto almeno dieci tuffi al cuore, non mento. E poi quando si avvicinava l'ora del suo arrivo e la lancetta segnava mezzogiorno, il batticuore non cessava fino a che senza rumore di tacchi, quasi silenziose, non apparivano alla finestrella quelle scarpe legate da piccoli nastri neri di camoscio. Qualche volta con un'aria divertita si fermava vicino alla seconda finestrella e batteva sul vetro con la punta del piede. Io correvo a quella finestra ma la scarpa non c'era più; il suo abito nero, che per un attimo aveva offuscato la luce del pomeriggio, era scomparso e io andavo ad aprirle.
 Nessuno sapeva del nostro legame, mi creda, per quanto non succeda quasi mai. Non lo sapeva suo marito, non lo sapevano i conoscenti. Quelli del vecchio villino dove abitavo, certamente, sapevano, vedevano che ogni giorno veniva da me una donna, ma non conoscevano il suo nome.»
 «Ma chi era?» domandò Ivan, estremamente interessato a questa storia d'amore.
 L'ospite fece un gesto come per dire che questo non lo avrebbe mai detto a nessuno e prosegui il racconto.
 Cosi Ivan seppe che l'amore del Maestro e della sconosciuta era così intenso che i due non potevano più separarsi. Immaginava ormai con chiarezza le due stanze seminterrate del villino, sempre in ombra per via dei lillà e dello steccato. Il mobilio logoro, lo scrittoio su cui l'orologio suonava ogni mezz'ora, libri, libri dal pavimento verniciato al soffitto nero di fumo, e la stufetta. Ivan seppe che il suo ospite e la donna misteriosa, fin dai rimi giorni del loro amore, si erano convinti che il destino li aveva spinti in quel vicolo che faceva angolo con la via Tverskaja e che erano legati l'uno all'altra per sempre.
Brano tratto da "Il Maestro e Margherita" di Michail Bulgakov - Bur