Andrea De Carlo - Due di due

Chiudi


La prima volta che ho visto Guido Laremi eravamo tutti e due così magri e perplessi, così provvisori nelle nostre vite da stare a guardare come spettatori mentre quello che ci succedeva entrava a far parte del passato, schiacciato senza la minima prospettiva. Il ricordo che ho del nostro primo incontro è in realtà una ricostruzione, fatta di dettagli cancellati e aggiunti e modificati per liberare un solo episodio dal tessuto di episodi insignificanti a cui apparteneva allora. In questo ricordo ricostruito io sono in piedi dall'altra parte della strada, a guardare il brulichio di ragazzi e ragazze che sciamano fuori da un vecchio edificio grigio, appena arginati da una transenna di metallo che corre per una decina di metri lungo il marciapiede. Ho le mani in tasca e il bavero del cappotto alzato, e cerco disperatamente di assumere un atteggiamento di non appartenenza alla scena, anche se sono uscito dallo stesso portone e ho fatto lo stesso percorso faticoso solo un quarto d'ora prima. Ma ho quattordici anni e odio i vestiti che ho addosso, odio il mio aspetto in generale, e l'idea di essere qui in questo momento. La folla di persone giovani viene avanti come un torrente intralciato da tronchi e massi affioranti, appena finita la transenna si riversa nella strada e la invade fino al mio marciapiede. E quasi ogni faccia è troppo pallida o tonda o lunga, quasi ogni corpo troppo angoloso o smussato, quasi ogni andatura priva di equilibrio, come se le cartelle che tutti portano in mano e a tracolla fossero troppo leggere o pesanti. C'è questo fondo di indifferenza attiva in quasi ogni sguardo, in quasi ogni gesto che si unisce al generale dispendio di energia meccanica. Non mi sembra affatto di essere meglio degli altri: è l'idea di vedere i miei difetti moltiplicati per centinaia di volte che accentua la mia insofferenza e la riflette tutto intorno. Osservo la massa confusa di teste e busti in movimento, sperando di riconoscere i capelli di una ragazza che ho visto qualche giorno prima, e invece mi colpisce lo sguardo di uno che cerca di farsi largo con un'espressione di estraneità concentrata. È uno sguardo da ospite non invitato, da passeggero clandestino: uno sguardo che prende distanza dai suoi stessi lineamenti, dal suo stesso modo di girare la testa a destra e a sinistra. Poi nel ricordo ricostruito c'è un vuoto, dove Guido Laremi con il suo sguardo estraneo viene riassorbito dallo sfondo. Libero il mio motorino dalla catena e lo faccio partire, e questi gesti semplici mi costano fatica e ripetizione, rabbia contro gli oggetti. Alla fine sono in sella e cerco di aprirmi un percorso tra la gente e le macchine, e vado addosso a qualcuno. Sento un colpo su un lato del manubrio, ondeggio e perdo l'equilibrio; volo sul motorino trascinato dal mio cappotto pesante, dalla borsa di tela piena di libri obbligatori. Qualche testa tonda e qualche collo lungo, qualche faccia di mela o di zucca o di pinolo, qualche paio di occhiali a finestrella di bunker o a fondo di bottiglia o a televisore panoramico si voltano nella mischia di movimenti; si distolgono appena mi rialzo senza danni interessanti. Guido Laremi a un paio di metri da me si preme una mano su un fianco, dice "Porca miseria". Ha più o meno la mia età, occhi chiari, capelli biondastri disordinati. Ha un impermeabile inglese, ma gli sta corto; anche lui tiene il bavero alzato. Mi fissa, e il suo sguardo è pieno di irritazione adesso, oltre che di estraneità. Gli dico "Mi dispiace"; tiro su il motorino. Tutto intorno gli studenti in uscita continuano a urtarsi e spingersi e appoggiarsi uno all'altro, tra bofonchiamenti e squittii e risate e urla gutturali. Le automobili vanno avanti a piccoli scatti, raddensano con i loro scarichi l'aria già sporca e fredda. Una professoressa rinsecchita scivola oltre, come un vecchio animale da preda sazio e privo di intenzioni pericolose per il momento. Di nuovo dico a Guido Laremi "Mi dispiace". Lui sorride appena, dice "Non importa". Ha una voce leggermente roca, grattata. Ci stringiamo la mano quasi formali, in questa posizione precaria tra strada e marciapiede, nel vocio e il rumore di motori. Poi lui mi chiede se non gli dò un passaggio verso casa: in forma di compensazione, sembra. Rimetto in moto; lui sale dietro e parto, ondeggiante tra le automobili e gli studenti. Non è un motorino per due, sottile e leggero com'è, con la sella corta e senza pedaline posteriori. Guido Laremi tiene le gambe sollevate, mi dice "Attento" tre o quattro volte. Ed è un giorno di novembre e Milano è vicina al suo peggiore grigio persecutorio, la casa dove mi aspettano a mangiare non mi attira affatto, non ho nessun programma interessante per il pomeriggio. Non c'è nessuna ragazza attraente che io speri di vedere presto; tutto quello che ho intorno mi sembra noioso e insensato allo stesso modo, privo di spunti. Anche visto a distanza e ricostruito non è un ricordo idilliaco, questo del mio motorino che vibra per le vecchie vie intasate di traffico, con Guido Laremi dietro stretto ai tubi del telaio.



Nei giorni dopo io e Paolo abbiamo sgombrato le pietre e i mattoni anneriti, li abbiamo disposti in pile dietro alla stalletta delle capre, bene ordinate per possibili usi futuri. Abbiamo zappato la terra e l'abbiamo concimata con cenere e letame, ci abbiamo piantato lavanda e rosmarino che Martina voleva da tempo. Quando abbiamo finito sono andato a fare una passeggiata da solo, fino alla collina che anni prima in un giorno di neve io e Guido avevamo risalito per contemplare il paesaggio. Ho cercato il punto preciso in cui ci eravamo fermati e ho guardato in basso come avevamo fatto allora, ed era strano vedere una casa sola dove ce n'erano state due.
Brani tratti da "Due di due" di Andrea De Carlo - Mondadori