Umberto Eco - Baudolino

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"In quei giorni d'attesa, signor Niceta, avevo provato sentimenti opposti. Ardevo dal desiderio di vederla, temevo di non vederla più, la immaginavo preda di mille pericoli, provavo insomma tutte le sensazioni proprie dell'amore, ma non provavo gelosia." "Non pensavi che la Madre avrebbe potuto mandarla dai fecondatori proprio allora?" "E' un dubbio che non mi ha sfiorato. Forse, sapendo quanto ormai ero suo, pensavo che lei fosse mia a tal punto che si sarebbe rifiutata di farsi toccare da altri. Ci ho riflettuto a lungo, dopo, e mi sono convinto che l'amore perfetto non lascia spazio alla gelosia. La gelosia è sospetto, timore e calunnia tra amante e amata, e San Giovanni ha detto che il perfetto amore caccia ogni timore. Non provavo gelosia, ma cercavo ogni minuto di evocare il suo volto, e non ci riuscivo. Ricordavo ciò che provavo guardandola, ma non potevo immaginarla. Eppure, durante i nostri incontri, non facevo che fissarle il volto, non facevo altro..." "Ho letto che succede a chi ama di intenso amore..." disse Niceta, con l'imbarazzo di chi forse non aveva provato mai una passione così travolgente. "Non ti era successo con Beatrice e con Colandrina?" "No, non in modo da farmi soffrire a tal segno. Credo che con Beatrice coltivassi l'idea stessa dell'amore, che non aveva bisogno di un volto, e poi mi pareva sacrilegio sforzarmi di immaginarne le fattezze carnali. Quanto a Colandrina, mi accorgevo - dopo avere conosciuto Ipazia che con lei non era stata passione, ma piuttosto allegria, tenerezza, affetto intensissimo, come avrei potuto provare, Dio mi perdoni, per una figlia, o una sorella minore. Credo che accada a tutti coloro che s'innamorano, ma in quei giorni ero convinto che Ipazia fosse la prima donna che avevo veramente amato, e certamente è vero, ancora ora, e per sempre. Ho poi compreso che il vero amore prende dimora nel triclinio del cuore, e lì trova quiete, attento ai propri più nobili segreti, e raramente torna nelle camere dell'immaginazione. Per questo non riesce a riprodurre la forma corporale dell' amante assente. È solo l'amore di fornicazione, che non entra mai nei penetrali del cuore, e si nutre solo di fantasie voluttuose, che riesce a produrre tali immagini." Niceta tacque, dominando a fatica la sua invidia. Il loro ritrovarsi fu timido e commosso. Gli occhi di lei lucevano di felicità, ma subito abbassava pudicamente lo sguardo. Si sedettero tra le erbe. Acacio pascolava tranquillo a poca distanza. I fiori intorno profumavano più del solito, e Baudolino si sentiva come se avesse appena sfiorato del burq con le labbra. Non osava parlare, ma si risolse a farlo perché l'intensità di quel silenzio lo avrebbe trascinato a qualche gesto scomposto. Comprendeva solo allora perché aveva udito raccontare che i veri amanti, al loro primo colloquio d'amore, impallidiscono, tremano e ammutoliscono. È perché, visto che l'amore domina entrambi i regni della natura e dell'anima, attira a sé tutte le loro forze, comunque si muova. Così, quando i veri amanti vengono a conciliabolo, l'amore perturba e quasi pietrifica tutte le funzioni del corpo, sia fisiche che spirituali: per cui la lingua si rifiuta di parlare, gli occhi di vedere, le orecchie di udire, e ogni membro si sottrae al proprio dovere. Questo fa sì che, quando l'amore si attarda troppo nel profondo del cuore, il corpo, privo di forza, deperisca. Ma a un certo punto il cuore, per l'impazienza dell'ardore che prova, quasi getta fuori di sé la sua passione, permettendo al corpo di riprendere le proprie funzioni. E allora l'amante parla. "E così," disse Baudolino, senza spiegare ciò che provava e ciò che stava comprendendo, "tutte le cose belle e terribili che mi hai raccontato sono quello che Ipazia vi ha tramandato..." . "Oh no," disse lei, "ti ho detto che le nostre progenitrici sono fuggite avendo scordato tutto ciò che Ipazia aveva loro insegnato, tranne il dovere della conoscenza. È attraverso la meditazione che noi abbiamo scoperto sempre più la verità. Durante tutti questi mille e mille anni ciascuna di noi ha riflettuto sul mondo che ci circonda, e su ciò che sentiva nel proprio animo, e la nostra consapevolezza si è arricchita giorno per giorno, e l'opera non è ancora terminata. Forse in quello che ti ho detto c'erano cose che le mie compagne non avevano ancora capito, e che io ho capito cercando di spiegartele. Così ciascuna di noi si fa "saggia, ammaestrando le compagne su ciò che sente, e facendosi maestra apprende. Forse se tu non eri qui con me, io non avrei reso chiare a me stessa alcune cose. Sei stato il mio demone, il mio arconte benigno, Baudolino." "Ma tutte le tue compagne sono così chiare e faconde come te, mia dolce Ipazia?" "Oh, io sono l'ultima fra loro. Talora si prendono gioco di me perché non so esprimere quello che provo. Devo ancora crescere, sai? Però in questi giorni mi sentivo fiera, come se possedessi un segreto che loro non conoscono, e non so perché ho preferito che segreto restasse. Non capisco bene che cosa mi accade, è come se... come se preferissi dire le cose a te piuttosto che a loro. Pensi che sia male, che io sia sleale con loro?" "Sei leale con me." "Con te è facile. Penso che a te direi tutto quello che mi passa per il cuore. Anche se non fossi ancora sicura che sia giusto. Sai cosa mi accadeva, Baudolino, in questi giorni? Sognavo di te. Quando mi svegliavo al mattino pensavo che era una bella giornata perché tu eri da qualche parte. Poi pensavo che la giornata fosse brutta, perché non ti vedevo. È strano, si ride quando si è contente, si piange quando si soffre, e a me accade che ora rido e piango nello stesso momento. Sarò forse malata? Eppure è una malattia bellissima. È giusto amare la propria malattia?" "Sei tu la maestra, mia dolce amica," sorrideva Baudolino, "non devi chiedere a me, anche perché penso di avere la tua stessa malattia." Ipazia aveva allungato una mano, e ancora gli sfiorava la cicatrice: "Tu devi essere una cosa buona, Baudolino, perché mi piace toccarti, come mi accade con Acacio. Toccami anche tu, forse potrai risvegliare qualche scintilla che c'è ancora in me, e che io non so. "No mio dolce amore, ho paura di farti del male." "Toccami qui dietro l'orecchio. Sì, così, ancora... Forse attraverso di te si può evocare un dio. Dovresti avere da qualche parte il segno che ti lega a qualcosa d'altro..." Gli aveva messo le mani sotto la veste, faceva scorrere le dita tra i peli del suo petto. Si appressò per annusarlo. "Sei pieno di erba, di erba buona," disse. Poi diceva ancora: "Che bello sei lì sotto, sei morbido come un animale giovane. Sei giovane tu? Io non capisco 1'età di un uomo. Sei giovane tu?" "Sono giovane, amore mio, incomincio a nascere ora." Lui le accarezzava ora quasi con violenza i capelli, lei gli aveva messo le mani dietro alla nuca, poi aveva preso a dargli piccoli colpi di lingua sul viso, lo stava leccando come se fosse un capretto, poi rideva guardandolo da vicino negli occhi e diceva che! sapeva di sale. Baudolino non era mai stato un santo, la strinse contro di sé e cercò con le labbra le sue labbra. Lei emise un gemito di spavento e di sorpresa, tentò di ritrarsi, poi cedette. La sua bocca sapeva di pesca, di albicocca, e con la sua lingua dava piccoli colpi a quella di lui, che assaggiava per la prima volta. Baudolino la spinse indietro, non per virtù, ma per liberarsi di ciò che lo copriva, lei gli vide il membro, lo toccò con le dita senti che era vivo e disse che lo voleva: era chiaro che non sapevi come e perché lo volesse, ma qualche potenza dei boschi o delle fonti le stava suggerendo cosa dovesse fare. Baudolino riprese coprirla di baci, scese dalle labbra al collo, poi alle spalle, mentre le sfilava lentamente la veste, scopri i suoi seni, vi affondò il viso, e con le mani continuava a farle scivolare l'abito lungo le anche, sentiva il piccolo ventre teso, tastava il suo ombelico, avverti prima di quanto si attendesse quella che doveva essere la peluria che le celava il bene suo supremo. Lei bisbigliava, chiamandolo: mio Eone, mio Tiranno, mio Abisso, mia Ogdoade, mio Pleroma... Baudolino spinse le mani sotto la veste che la velava ancora, e senti che quella peluria che sembrava annunciare il pube s'infoltiva, le copriva l'inizio delle gambe, la parte interna della coscia, si prolungava verso le natiche... "Signor Niceta, le ho strappato la veste, e ho veduto. Dal ventre in giù Ipazia aveva forme caprine, e le sue gambe terminavano in due zoccoli color avorio. Di colpo ho capito perché, velata dalla veste sino a terra, non sembrava camminare come chi posa i piedi, ma trascorreva leggera, quasi non toccasse il suolo. E ho capito chi fossero i fecondatori, erano i satiri-che-non-si-vedono-mai, dal capo umano cornuto e dal corpo di ariete, i satiri che da secoli vivevano al servizio delle ipazie, donando loro le femmine e crescendo i propri maschi, questi con il loro stesso volto orrendo, quelle ancora memori della venustà egizia della bella Ipazia, l'antica, e delle sue prime pupille." "Che orrore!" disse Niceta. "Orrore? No, non è stato quello che ho provato in quel momento. Sorpresa, sì, ma per un solo istante. Poi ho deciso, il mio corpo ha deciso per la mia anima, o l'anima mia per il mio corpo, che quello che vedevo e toccavo era bellissimo, perché quella era Ipazia, e anche la sua natura ferina faceva parte delle sue grazie, quel pelo riccioluto e morbido era quanto di più desiderabile avessi mai desiderato, profumava di muschio, quei suoi arti prima nascosti erano disegnati da mano d'artista, e amavo, volevo quella creatura odorosa come il bosco, e avrei amato Ipazia anche se avesse avuto fattezze di chimera, d'icneumone, di ceraste." Fu così che Ipazia e Baudolino si unirono, sino al tramonto, e quando erano ormai spossati si trattennero sdraiati l'una accanto all'altro, accarezzandosi e chiamandosi con appellativi tenerissimi, dimentichi di tutto quello che li circondava. Ipazia diceva: "La mia anima se n'è andata come un soffio di fuoco... Mi sembra di fare parte della volta stellata..." Non cessava di esplorare il corpo dell'amato: "Come sei bello, Baudolino. Però anche voi uomini siete dei mostri," celiava. "Hai le gambe lunghe e bianche senza pelliccia e piedi grandi quanto quelli di due sciapodi! Ma sei bello lo stesso, anzi, di più..." Lui le baciava gli occhi in silenzio. "Hanno le gambe come le tue anche le donne degli uomini?" domandava lei corrucciata. "Hai... provato l'estasi accanto a creature con le gambe come le tue?" "Perché non sapevo che esistevi tu, amore mio." "Non voglio che tu guardi mai più le gambe delle donne degli uomini." Lui le baciava in silenzio gli zoccoli. Stava facendo buio, e dovettero lasciarsi. "Credo," sussurrò Ipazia sfiorandogli ancora le labbra, "che non racconterò nulla alle mie compagne. Forse non capirebbero, loro non sanno che esiste anche questo modo per salire più in alto. A domani, amore mio. Senti? Ti chiamo come tu mi hai chiamata. Ti aspetto."
Brano tratto da "Baudolino" di Umberto Eco - Bompiani