J.R.R.Tolkien - Il signore degli anelli

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Ma ecco che all'improvviso, nel pieno della gloria, il re vide oscurarsi il suo scudo dorato. Il nuovo mattino fu come cancellato in cielo. L'oscurità li circondò nuovamente. I cavalli si misero a nitrire impennandosi. Uomini caduti di sella si agitavano per terra. "A me! A me!", gridò Théoden. "Coraggio, Eorlingas! Non temete l'oscurità!". Ma Nevecrino impazzito dal terrore s'impennò, lottando con l'aria, e poi con un terribile grido crollò sul fianco: una freccia nera l'aveva trafitto. Il re cadde sotto il cavallo. La grande ombra scese come una nuvola cadente. E, meraviglia! era una creatura alata: se uccello, assai più grande di qualunque altro uccello, e stranamente nudo, sprovvisto di penne e di piume, e le sue immense ali parevano pelle tesa fra grinfie di corno; emanava un fetore mortale. Era forse una creatura di un mondo scomparso, la cui razza, sopravvissuta in montagne nascoste e fredde sotto la Luna, non si era ancora estinta, covando questi ultimi arcaici esemplari, creati per la malvagità. E l'Oscuro Signore se n'era impadronito, alimentandoli con cibi crudeli, facendoli crescere oltre la misura di ogni altro essere alato; li aveva dati ai suoi servitori da usare come destrieri. L'ombra volante puntò verso terra e infine, piegando le ali, lanciò un urlo gracchiante e si posò sul corpo di Nevecrino, affondandovi le sue grinfie, e curvando il lungo collo spoglio. Su di esso sedeva una figura avvolta in un manto nero, immensa e minacciosa. Portava una corona d'acciaio, fra il cui bordo e le vesti non vi era nulla, se non il micidiale bagliore degli occhi: il Signore dei Nazgûl. Era tornato in aria, chiamando a sé il suo destriero prima che l'oscurità scomparisse del tutto, ed ora attaccava di nuovo, distruggendo tutto, trasformando la speranza in disperazione, e la vittoria in morte. Brandiva un'enorme mazza nera. Ma Théoden non era del tutto abbandonato. I cavalieri della sua scorta giacevano morti intorno a lui, o venivano trascinati via dall'irresistibile follia dei cavalli. Tuttavia ne rimaneva uno accanto a lui: il giovane Dernhelm, fedele nonostante la paura; e piangeva, poiché amava il suo signore come un padre. Durante tutta la carica aveva portato sano e salvo Merry dietro di sé, fino all'arrivo dell'Ombra. Allora Windfola li aveva gettati in terra in preda al terrore, mettendosi a correre imbizzarrito per la pianura. Merry strisciava carponi come una bestia attonita, ed era invaso da un tale orrore che si sentiva cieco e malato. "Uomo del re! Uomo del re!", gridava il suo cuore dentro di lui. "Devi rimanergli accanto. Sarai per me come un padre, gli dicesti". Ma la sua volontà non rispose e il suo corpo tremava. Non osava aprire gli occhi o alzare lo sguardo. Ma poi nel buio della mente gli parve di udire la voce di Dernhelm; eppure ora suonava in modo strano, rammentandogli un'altra voce già udita in passato. "Vattene, orrido dwimmerlaik, signore delle carogne! Lascia in pace i morti!". Una voce glaciale gli rispose: "Non metterti fra il Nazgûl e la sua preda! Rischieresti non di venire ucciso a tua volta, ma di essere portato via dal Nazgûl e condotto alle case del lamento, al di là di ogni tenebra, ove la tua carne verrà divorata e la tua mente raggrinzita verrà esposta nuda all'Occhio Senza Palpebre". Una spada risuonò mentre veniva sguainata. "Fa' ciò che vuoi; ma io te lo impedirò, se potrò". "Impedirmelo? Sei pazzo! Nessun uomo vivente può impedirmi nulla!". Allora Merry udì fra tutti i rumori il più strano: gli sembra che Dernhelm ridesse, e la sua limpida voce era come una vibrazione d'acciaio. "Ma io non sono un uomo vivente! Stai guardando una donna. Éowyn io sono, figlia di Éomund. Tu ti ergi fra me e il mio signore dello stesso mio sangue. Vattene, se non sei immortale! Viva o morente ti trafiggerà, se lo tocchi". L'essere alato rispose strillando, ma lo Schiavo dell'Anello rimase silenzioso, come colto da un improvviso dubbio. Lo stupore sopraffece per un attimo la paura di Merry. Egli aprì gli occhi e l'oscurità scomparve. A pochi passi da lui sedeva la grossa bestia, e intorno ad essa tutto sembrava buio, e su di essa si ergeva il Signore dei Nazgûl come un'ombra di disperazione. Leggermente più a sinistra, di fronte alla bestia, era colei ch'egli aveva chiamata Dernhelm. Ma l'elmo che nascondeva il suo segreto era caduto e i luminosi capelli sciolti sulle spalle brillavano come pallido oro. I suoi occhi grigi come il mare erano duri e spietati, benché sulla sua guancia scorressero delle lacrime. Reggeva in mano una spada, difendendosi con lo scudo contro gli spaventosi occhi del nemico. Era dunque Éowyn e Dernhelm al tempo stesso. Nella mente di Merry apparve nuovamente il ricordo del volto che aveva veduto partendo da Dunclivo: il volto di chi ormai senza speranza parte in cerca della morte. Il suo cuore si empì di pietà e di meraviglia, e ad un tratto il coraggio della sua razza, lento a sorgere, si destò. Strinse i pugni. Éowyn non doveva morire, così bella, così disperata! O comunque non doveva morire sola, senza aiuto. Il viso del nemico non era rivolto verso di lui, e tuttavia osava appena muoversi per il terrore che lo sguardo micidiale cadesse su di lui. Incominciò pian piano a strisciare da una parte; mentre il Capitano Nero considerava, dubbioso e malvagio, la donna che gli si ergeva innanzi, e Merry non era per lui che un verme nel fango. Ad un tratto l'orrida bestia batté le ali, e il loro vento era fetido. Quindi s'innalzò di nuovo in aria per poi piombare rapida su Éowyn, urlando e avventandosi con il becco e le grinfie. Ma ella rimase immobile: fanciulla dei Rohirrim, figlia di re, esile ma come una lama d'acciaio, bella eppure temibile. Vibrò un abile colpo, rapido e micidiale. Squarciò il collo teso e la testa decapitata cadde come un sasso. Con un balzo Éowyn indietreggiò mentre l'enorme massa crollava accasciandosi per terra con le ali aperte; e mentre cadeva, l'ombra scomparve. La luce la circondò e i suoi capelli brillarono al sole sorgente. Dalla carcassa della bestia si levò il Cavaliere Nero, imponente e minaccioso. Con un urlo di odio che lacerò le orecchie come una lama velenosa egli lasciò cadere la sua mazza. Lo scudo di Éowyn andò in mille frantumi e il suo braccio si ruppe; ella cadde in ginocchio. Il Nazgûl si curvò su di lei sovrastandola come una nube, e i suoi occhi scintillavano; alzò di nuovo la mazza, pronto a uccidere. Ma all' improvviso anch' egli cadde in avanti con un terribile urlo di dolore, mancando il colpo e affondando la mazza nel terreno. La spada di Merry l'aveva trafitto alle spalle, squarciando il nero manto e la cotta di maglia, e colpendo il tendine del suo possente ginocchio. "Éowyn! Éowyn!", gridò Merry. Ed ella, barcollando e cercando di alzarsi in piedi, raccolse tutte le forze che le rimanevano e infilò la spada fra la corona e il manto, mentre le grandi spalle si chinavano su di lei. La spada si ruppe in mille pezzi. La corona rotolò con fragore. Éowyn cadde in avanti sul corpo del nemico abbattuto. Ma stranamente il manto e la cotta di maglia erano vuoti. Giacevano per terra informi, laceri e ammonticchiati; un urlo si levò nell'aria vibrante, spegnendosi con una nota acuta, un lacerante lamento che scomparve con il vento, una voce senza corpo che si estinse e fu inghiottita e non si udì mai più in quell'era del mondo. Meriadoc l'Hobbit era rimasto in piedi in mezzo ai feriti, sbattendo le palpebre come un gufo alla luce del giorno a causa delle lacrime che l'accecavano; attraverso un velo guardò la bella testa di Éowyn che giaceva immobile; e guardò il volto del re caduto nel colmo della gloria. Nevecrino nella sua agonia era rotolato via lungi dal suo padrone, e tuttavia era stato lui il colpevole della sua morte. Allora Merry si chinò e prese la mano del suo signore per baciarla, ed ecco che Théoden aprì gli occhi ancora limpidi e parlò con voce calma ma con fatica. "Addio Messere Holbytla!", disse. "Il mio corpo è a pezzi. Tomo dai miei padri. Ma anche in loro compagnia non avrò da vergognarmi. Ho abbattuto il serpente nero. Un mattino spietato, un giorno felice, un tramonto dorato!". Merry non riuscì a parlare per le lacrime. "Perdonatemi, sire", disse infine, "per aver disobbedito ai vostri ordini, e non aver saputo fare altro al vostro servizio che piangere nell'ora della nostra separazione". Il vecchio re sorrise: "Non preoccuparti! Sei già perdonato. Non bisogna scoraggiare un grande cuore. Vivi ora e sii benedetto, e quando fumerai in pace la tua pipa pensami! Ormai non potrò più sedere con te a Meduseld, come promesso, e apprendere da te i segreti delle erbe". Chiuse gli occhi, e Merry ,si inginocchiò accanto a lui. Poi parlò ancora una volta. "Dov'è Éomer? I miei occhi si oscurano, ma vorrei vederlo prima di andarmene. Egli deve essere re dopo di me. E vorrei dargli un messaggio per Éowyn. Lei, lei non voleva che io la lasciassi, ed ora non rivedrò mai più colei che mi è più cara di una figlia". "Sire, sire", cominciò a balbettare Merry, "ella è..."; ma in quel momento vi fu un gran clamore e tutto intorno a loro il suono di corni e di trombe. Merry levò gli occhi: aveva dimenticato la guerra e il resto del mondo, e sembravano trascorse molte ore da quando il re aveva galoppato verso la morte, benché di fatto non fosse passato che qualche minuto. Ma ora si accorse che correvano il pericolo di venire intrappolati nel mezzo di una grande battaglia che stava per cominciare. Dalla strada del Fiume arrivavano in tutta fretta nuove forze del nemico, e dalle mura della Città gli eserciti di Morgul; e dai campi più a sud giungevano i fanti di Harad preceduti dalla cavalleria e seguiti dagli immensi mûmakil che, trasportavano macchinari di guerra. Ma a nord la bianca criniera di Éomer guidava l'avanzata dei Rohirrim, da lui radunati e condotti; dalla Città giunsero tutti gli uomini di cui essa ancora disponeva, e il cigno argentato di Dol Amroth avanzava in testa, cacciando il nemico dal Cancello. Per un attimo un pensiero balenò nella mente di Merry: "Dov' è Gandalf? Non dovrebbe essere qui? Non avrebbe potuto salvare il re ed Éowyn?". Ma in quell'istante arrivò galoppando Éomer, accompagnato dagli ultimi superstiti della scorta del re che avevano ripreso il comando dei loro cavalli. Guardarono stupefatti la carcassa dell'orrida bestia, ed i loro destrieri rifiutarono di avvicinarsi. Ma Éomer balzò di sella e dolore e costernazione si dipinsero sul suo volto quando si avvicinò al re, ed egli rimase immobile e in silenzio. Allora uno dei cavalieri prese il vessillo del re dalla mano di Guthlaf il vessillifero che giaceva morto sul campo, e lo sollevò da terra. Théoden aprì lentamente gli occhi. Vedendo il vessillo fece segno di darlo a Éomer. "Ti saluto, Re del Mark!", egli disse. "Cavalca ora verso la vittoria! Di' addio ad Éowyn!". E così spirò, ignaro che Éowyn giaceva accanto a lui. Coloro che gli erano intorno piansero gridando.: "Théoden Re! Théoden Re!". Ma Éomer disse loro:

Non piangete troppo! Nobile colui che cadde,
Degna la sua morte. Davanti alla sua tomba
Donne singhiozzeranno. La guerra ora ci chiama!

Eppure egli stesso piangeva. "Che gli uomini della sua scorta rimangano qui", egli disse, "e portino via con onore il suo corpo dal campo, affinché la battaglia non lo calpesti! Sì, il suo e quello di tutti i suoi uomini che giacciono qui". Allora guardò i caduti, rammentando i loro nomi. Poi ad un tratto vide Éowyn, sua sorella, e la riconobbe. Fu come se una freccia l'avesse trafitto al cuore; il suo viso divenne bianco come la morte e in lui si levò una gelida furia che lo rese muto per qualche tempo. Un sentimento di morte s'impadronì di lui. "Éowyn, Éowyn!", gridò infine. "Éowyn, come sei giunta tu sin qui? Quale follia o diabolico artifizio è questo? Morte, morte, morte! Che la morte ci prenda tutti!". Poi senza attendere oltre, né aspettare l'arrivo degli uomini della Città, si lanciò a capofitto contro l'avanguardia dell'esercito nemico, e soffiando nel corno ordinò la carica. Su tutto il campo si udì la sua limpida voce gridare: "Morte! Galoppate, galoppate verso la rovina e la fine del mondo!". E con queste parole l'esercito balzò in avanti. Ma i Rohirrim più non cantavano. Morte, gridavano con un'unica voce forte e terribile, e prendendo velocità come un'immensa marea spazzarono tutto ciò che circondava il loro re caduto e passarono come un turbine ruggendo verso sud. E Meriadoc l'Hobbit era ancora lì in piedi, e sbatteva gli occhi per le lacrime, e nessuno gli rivolgeva la parola, nessuno sembrava addirittura accorgersi della sua presenza, Si asciugò le lacrime, e chinatosi a raccogliere lo scudo verde che Éowyn gli aveva dato, se lo mise in spalla. Poi cercò la spada che gli era caduta di mano: perché nel vibrare il colpo il suo braccio era rimasto come intorpidito, ed ora non poteva adoperare che la mano sinistra. Vide la sua arma per terra e, meraviglia! la lama fumava come un ramo secco gettato nel fuoco; ed egli che l'osservava la vide accartocciarsi, incenerirsi e scomparire. Tale fu la fine della spada dei Tumulilande, forgiata nell'Ovesturia. Ma ben felice di conoscerne il destino sarebbe stato colui che l'aveva fabbricata anni ed anni addietro nel regno del Nord quando i Dunedain erano ancora giovani, e il principale nemico era il terrificante regno di Angmar e il suo re negromante. Nessun'altra lama, anche se forgiata da mani più possenti, avrebbe procurato a un simile avversario una ferita così profonda, affondando nella carne viva e rompendo l'incantesimo che gli permetteva di rimarginare i propri tendini con la sola forza del volere. Gli uomini sollevarono il re e, tesi dei manti su tronconi di spade, riuscirono a portarlo sino alla Città; altri alzarono dolcemente Éowyn e camminarono dietro al corteo del re. Ma era impossibile allontanare dal campo anche gli uomini della scorta del re, poiché sette di essi erano caduti, e fra essi anche Déorwine, il loro capo. Allora, raggruppandoli lontano dai nemici e dall'orrida bestia, li circondarono con una palizzata di lance. E quando ebbero finito, gli uomini tornarono e fecero un grande fuoco, bruciando la carogna della bestia; ma per Nevecrino scavarono una fossa sulla quale fu messa una lapide che recava, nelle lingue di Gondor e del Mark, la seguente scritta:

Fedele servitore eppur rovina del padrone,
Nato da Pieleggero, Nevecrino è il suo nome.

E l'erba crebbe verde e lunga là ove era stato seppellito Nevecrino, ma il terreno rimase per sempre nero e spoglio nel luogo in cui avevano bruciato la bestia alata. Lento e triste Merry accompagnava il corteo, noncurante della battaglia. Era sfinito e dolorante, e le sue membra tremavano come colte da brividi di freddo. Una grande pioggia venne dal Mare, e parve che ogni cosa piangesse Théoden ed Éowyn, estinguendo gli incendi nella Città con lacrime grigie. Poi come attraverso una nebbia vide a un tratto avvicinarsi l'avanguardia di Gondor. Imrahil, Principe di Dol Amroth, cavalcò sino a loro e arrestò il suo destriero. "Quale fardello trasportate, Uomini di Rohan?", gridò., "Théoden Re", essi risposero. "Egli è morto. Ma Éomer Re galoppa ora in mezzo alla battaglia, con la sua bianca criniera al vento". Allora il principe smontò da cavallo e s'inginocchiò accanto alla bara in segno di riverenza per il re e il suo eroico assalto; e pianse. Ma alzandosi vide Éowyn e si meravigliò. "Non è questa forse una donna?", esclamò. "Sono dunque partite in guerra per difenderci anche le donne dei Rohirrim?". "No! Una soltanto", risposero. "Ella è Dama Éowyn, sorella di Éomer; ignoravamo ch'ella fosse venuta, ed ora lo rimpiangiamo amaramente". Allora il principe, vedendola così bella, nonostante il pallore del viso freddo, le prese la mano e si chinò per guardarla più da vicino. "Uomini di Rohan!", egli gridò. "Non vi è fra voi un medico? Ella è ferita, forse a morte, ma credo che viva ancora". Le avvicinò alle fredde labbra il lucido bracciale dell'armatura e, meraviglia! quando lo ritrasse era impercettibilmente appannato. "Occorre fare in fretta", egli disse, e mandò in Città un veloce cavaliere in cerca di soccorsi. Ma egli, chinatosi sui caduti, disse loro addio e rimontando a cavallo galoppò verso la battaglia. Ora sui campi del Pelennor il combattimento infuriava, il fragore delle armi si mescolava alle grida degli uomini e al nitrire dei cavalli. Suonavano i corni e squillavano le trombe ed i mûmakil muggivano mentre venivano spinti nella battaglia. Sotto le mura meridionali della Città i fanti di Gondor attaccarono le legioni di Morgul che vi erano ancora radunate in gran numero. I cavalieri galopparono invece verso est a soccorrere Éomer: Hurin l'Alto, Custode delle Chiavi, ed il Sire di Lossarnach, e Hirluin delle Verdi Colline, ed il Principe Imrahil il Bello circondato da tutti i suoi cavalieri. Ma il loro aiuto non giunse troppo presto ai Rohirrim: la fortuna si era infatti rivoltata contro Éomer, e la sua furia l'aveva tradito. La violenza del suo assalto aveva letteralmente travolto il fronte nemico e interi drappelli di Cavalieri erano passati senza difficoltà attraverso le schiere dei Sudroni, sconfiggendone la cavalleria e facendo stragi della fanteria. Ma là dove si trovavano i mûmakil i cavalli si rifiutavano di andare, impennandosi e deviando, così che i grossi mostri rimanevano imbattibili, come torri di difesa, e gli Haradrim si riunivano intorno ad essi. E se gli Haradrim da soli erano tre volte più numerosi dei Rohirrim, ora la situazione peggiorò ancora, poiché nuove forze giunsero in grandi quantità da Osgiliath. Erano state lì riunite per saccheggiare la Città e distruggere Gondor al primo segnale del loro Capitano. Egli era ormai distrutto, ma Gothmog, il luogotenente di Morgul, li aveva tuttavia mandati a combattere; Esterling muniti di asce, Variag del Khand, Sudroni vestiti di rosso, e uomini neri simili a Vagabondi, dagli occhi bianchi e la lingua rossa, giunti dal Lontano Harad. Alcuni si affrettavano ora a sorprendere i Rohirrim alle spalle, mentre altri si dirigevano a ovest per arrestare le truppe di Gondor e impedir loro di raggiungere quelle di Rohan. Fu allora, quando le cose si mettevano male per Gondor e la speranza cominciava a vacillare, che un nuovo grido si levò nella Città; il mattino era a metà e un grande vento soffiava, mentre la pioggia batteva violenta verso nord e il sole brillava. In quell'aria limpida le sentinelle sulle mura videro in lontananza una nuova immagine terrificante, e la speranza li abbandonò del tutto. L'Anduin scorreva in modo tale che dalla Città si riusciva a seguirne il percorso per qualche miglio, e gli uomini dalla vista più penetrante potevano persino vedere avvicinarsi una nave. E fu proprio guardando in quella direzione che tutti gridarono costernati; nera contro le acque scintillanti si distingueva una flotta sospinta dal vento: grosse navi dalla chiglia che affondava profondamente nell'acqua, con molti remi e con vele nere che svolazzavano al vento. "I Corsari di Umbar!", gridarono gli uomini. "I Corsari di Umbar! Guardate! Stanno arrivando i Corsari di Umbar! Belfalas dunque è caduta, e così pure l'Ethir e il Lebennin. I Corsari ci assalgono! E l'ultimo colpo del destino!". Ed alcuni, senza averne ricevuto l'ordine, poiché non vi era nessuno nella Città che li comandasse, corsero alle campane e suonarono l'allarme, mentre altri facevano squillare le trombe ordinando la ritirata. "Tornate alle mura!", gridarono. "Tornate alle mura! Venite in Città prima di essere tutti sconfitti!". Ma il vento che spingeva le navi dissipava il suono dei loro appelli. I Rohirrim non avevano certo necessità di essere avvertiti. Vedevano fin troppo bene le vele nere. Éomer distava ora non più di un miglio dall'Harlond, e una grossa folla di avversari lo separava dal porto, mentre nuovi nemici arrivavano alle sue spalle, dividendolo dal Principe. E quando guardò il Fiume, nel suo cuore morì ogni speranza, ed egli maledisse il vento che prima aveva benedetto. Ma gli eserciti di Mordor si sentirono rincorati, e pieni di nuova furia e di brama si precipitarono urlando all'assalto. Eomer era ritornato freddo e severo, e la sua mente era di nuovo limpida e chiara. Fece suonare i corni per radunare intorno al suo stendardo tutti gli uomini disponibili; pensava infatti di ergere un grande muro di scudi e di resistere in piedi, lottando fino alla fine, e compiere gesta che i menestrelli avrebbero cantato per molti anni, se alcuno fosse rimasto vivo in Occidente per ricordare l'ultimo Re del Mark. Cavalcò quindi sino a una verde collinetta e vi piantò il suo vessillo, e il Cavallo Bianco galoppò nel vento.

Dal dubbio e dalle tenebre verso il giorno galoppai,
E cantando al sole la spada sguainai.
Svanita ogni speme, lacero è il cuore:
Ci attende la collera, la rovina ed il notturno bagliore!

Recitò queste strofe, eppure le disse ridendo. Perché il desiderio di combattere si era nuovamente impadronito di lui, ed egli era illeso, ed era giovane, ed era Re: sovrano di un popolo spietato. E mentre rideva, nella disperazione mirò ancora le navi nere e alzò la spada in segno di sfida. Ma ad un tratto fu colto da stupore e da una grande gioia. Lanciò in alto la spada nella luce del sole, e afferrandola al volo si mise a cantare. Tutti gli occhi seguirono il suo sguardo e, meraviglia! sulla prima nave si aprì un grande stendardo e il vento lo spiegò mentre essa si avvicinava al porto di Harlond. Tutti videro l'Albero Bianco, simbolo di Gondor, ma esso era circondato da Sette Stelle e sormontato da una corona, lo stemma di Elendil che nessuno ormai portava da innumerevoli anni. E le stelle sfavillavano alla luce del sole, perché erano gemme incastonate da Arwen figlia di Elrond, e la corona riluceva nel mattino, poiché era fatta di mithril e d'oro. Così giunse Aragorn figlio di Arathorn, erede d'Isildur, dai Sentieri dei Morti, sospinto dal vento del Mare sino al regno di Gondor; la felicità dei Rohirrim fu come un torrente di parole e di risa, e la gioia e lo stupore della Città si tradussero in una musica di trombe e uno squillare di campane. E gli eserciti di Mordor furono colti da stupore, e parve loro un'incredibile stregoneria che le loro navi fossero piene di nemici; un nero terrore li invase, sapendo che il vento del fato soffiava ora contro di loro e che la loro ora era vicina. I cavalieri di Dol Amroth galopparono verso est, cacciando ,avanti il nemico: Vagabondi, Variag e Orchetti che odiavano il sole. Éomer galoppò verso sud, e tutti fuggivano al suo cospetto, e si trovavano prigionieri tra il martello e l'incudine. Dalle navi, una folla sbarcava sulle banchine dell' Harlond, riversandosi a nord come una marea. Ecco Legolas, e Gimli con la sua ascia, e Halbarad con lo stendardo, ed Elladan ed Elrohir con in fronte una stella, e tutti gli inflessibili Dúnedain, i Raminghi del Nord, alla testa di un grande e valoroso esercito composto di uomini del Lebennin, del Lamedon e dei feudi del Sud. Davanti a tutti marciava Aragorn con la Fiamma dell'Ovest, Anduril, che sfavillava come fuoco appena acceso, Narsil forgiata di nuovo e micidiale come in passato. Sulla sua fronte brillava la Stella di Elendil. E così finalmente Éomer e Aragorn si incontrarono nel mezzo della battaglia, e appoggiandosi ciascuno alla propria spada si guardarono negli occhi e furono felici. "Ecco che c'incontriamo nuovamente, benché tutti gli eserciti di Mordor ci separassero", disse Aragorn. "Non te lo avevo forse detto, quando eravamo nel Trombatorrione?". "Tali furono le tue parole", disse Éomer, "ma spesso la speranza inganna, ed io non sapevo allora che tu fossi dotato di potere premonitore. Due volte benedetto sia l'aiuto insperato, e mai incontro d'amici fu più felice". Si strinsero forte la mano. "Né più tempestivo", soggiunse Éomer. "Giungi proprio in tempo, amico. Molte perdite e grandi dolori ci hanno colpiti". "Allora vendetta sia fatta, ancor prima di parlarne!", disse Aragorn, e galopparono insieme in direzione della battaglia.
Brano tratto da "Il Signore degli Anelli" di J.R.R.Tolkien - Rusconi