Primo
Levi: ''Se questo è un uomo''
Dovete perdonarmi per la lunghezza di questo tread, si tratta di documenti da me
postati l'anno scorso nel periodo intorno alla giornata della memoria, volevo
che fossero anche quì la memoria di questi eventi, per quei pochi che ancora
non li conoscono o li sottovalutano,
questo libro in particolare è di una belellezza e drammaticità sconvolgente,
è da leggere...però lo si puo anche ascoltare in via telematica nelle teche di
radio rai3 ecco vi lascio il link subito qui sotto, e vi auguro buona lettura,
buona meditazione casomai ne aveste voglia...
www.radio.rai.it/radio3/terzo_anello/alta_voce/archivio_2004/eventi/2004_01_01_se_questo_e_...
presentazione dell’opera
Romanzo autobiografico pubblicato per la prima volta nel 1947.
Intervista
L’annullamento della personalità, il degrado dell’essere umano alla
condizione di animale, la privazione della dignità: che cos’è tutto questo
se non una morte anticipata, una morte ancora più grave, non fisica, bensì
spirituale?.
Tutto nei campi di sterminio era finalizzato al raggiungimento di questo
obiettivo, dalla scritta sul cancello d’entrata fino all’orchestra che
scandiva le ore di lavoro. Anche i kapò, come ricorda Levi, erano vittime e
allo stesso tempo carnefici di questa progressiva distruzione della personalità.
L’essere umano è da considerarsi tale in quanto insieme di domande, di
memorie, di emozioni, di sentimenti, di pensieri, tutti fattori che
all’interno del Lager venivano ridotti al minimo e dai meno forti addirittura
abbandonati, per lasciare posto agli istinti animali, dettati dalla
sopravvivenza. Questa è la cosa più terribile che veniva attuata, perché,
anche nella schiavitù, un uomo ha la capacità di rimanere tale, di rimanere se
stesso, pur subendo angherie, sopraffazioni. Nei Lager no, il target primario
era l’annullamento totale, del corpo e dell’anima: a queste persone non era
neanche consentito morire da esseri umani, ma da animali.
Il testo seguente è tratto da un’intervista effettuata a Primo Levi nel
1982 per la trasmissione televisiva ”Sorgente di vita”.
Si può ottenere secondo lei l’annullamento dell’umanità dell’uomo?
Purtroppo si, purtroppo si. E direi che è proprio la caratteristica del lager
nazista - degli altri non so , perché non li conosco, forse in quelli russi
avviene altrettanto - è di annullare la personalità dell’uomo, all’interno
e all’esterno, e non soltanto del prigioniero, ma anche del custode del Lager
perde la sua umanità; sono due itinerari divergenti, ma che portano allo stesso
risultato: Direi che è toccata a pochi la fortuna di conservarsi consapevoli
durante la prigionia; alcuni hanno riacquistato la consapevolezza di cosa era
stata questa esperienza dopo, ma durante l’avevano persa. Molti hanno
dimenticato tutto, non hanno registrato le loro esperienze mentalmente, non le
hanno incise nel nastro della memoria, per così dire. Quindi avveniva si,
sostanzialmente in tutti una profonda modificazione delle personalità, con una
attenuazione della sensibilità, soprattutto, per cui della casa, le memorie
della famiglia, passavano in secondo piano di fronte al bisogno urgente , alla
fame, al bisogno di difendersi dal freddo, al difendersi dalle percosse, al
resistere alla fatica. Tutto questo portava a delle condizioni che si potevano
chiamare animalesche, come quelle degli animali da lavoro. […]
( “La Stampa”, Torino, domenica 26 gennaio 2003, p. 19)
Introduzione
Il campo di sterminio è stato organizzato fin dall’inizio per distruggere
l’umanità dei deportati, oltre che sterminarli. E dalla testimonianza di Levi
si può capire che i nazisti sono riusciti anche in questo, sebbene lentamente,
togliendo al deportato tutto quanto possedeva, spingendolo a lottare per
obiettivi a prima vista futili, ma indispensabili alla sopravvivenza.
Le persone erano vuote e come degli spettri si aggiravano nel campo seguendo la
routine imposta dai nazisti. Dopo pochi giorni all’interno del campo i
deportati rinunciavano già a ribellarsi o soltanto guardare male una SS.
Avevano compreso che l’unica cosa importante era mangiare quel poco che veniva
distribuito. Di conseguenza cercavano di ingannare gli altri e di derubarli, non
essendoci più posto né per la gratitudine né per il rispetto.
Ma è interessante notare come appena il campo venne abbandonato, i valori umani
vengono recuperati velocemente. I nazisti, quindi, erano riusciti ad
“animalizzare” l’uomo, ma allo stesso è bastato poco per ritornare
indietro e recuperare le capacità di pensare, riflettere, essere generoso e
provare gratitudine, che sono tipiche dell’uomo.
passi scelti
1. Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case
Questa poesia costituisce la Prefazione di “Se questo è un uomo”.
Essa riassume in sé il contenuto del libro stesso e la sua funzione di
testimonianza e di ammonimento per le generazioni future.
Se questo è un uomo
“Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.”
(Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1976, p.1)
2. La solitudine e la forza dell’uomo
L’uomo, ogni singolo uomo, è solo. Nessuno lo può aiutare. I legami di
sangue sono svaniti, le amicizie non sussistono. Dio, in un momento tale, non
esiste. O è molto lontano.
Questa frase riassume l’intero orrore dei campi di sterminio, di tutti i campi
di sterminio della storia dell’umanità, non solo quelli nazisti.
Questa frase è il momento della scelta: trovare se stessi, saggiare la base del
proprio essere, oppure annegare nell’oblio. Nessuno di noi può sapere quale
potrebbe essere la sua scelta, in tali condizioni: per chi non è parte in
causa, è molto facile schierarsi.
Non si tratta di coraggio, di orgoglio, di rabbia; nulla di tutto ciò. Si
tratta di trovarsi faccia a faccia con il proprio io, nudi, sospesi nel nulla;
si tratta di urlare la propria umanità, più forte, o meno, dipende da sé, di
tutta la disumanità di una massa numerosa, urlante, forte della violenza. Si
tratta di annichilire in un solo momento tutti coloro i quali credono di poter
distruggere altro che il corpo dei propri avversari. Si tratta di rendere
impotente chi crede di essere il più forte, senza sfiorarlo con un dito.
Se chi sta di fronte avesse ancora un barlume di lucidità, capirebbe; del
resto, se avesse ancora un barlume di lucidità, non porterebbe la parte in
causa fino ad un tale bivio.
Forse è egoismo: affermare il proprio io su tutto ciò che sta intorno,
affermare la propria inviolabilità sino al punto di annullare l’esistenza di
chi si pone come oppressore.
Non mi toglierai il nome: troverò in me la forza di conservarlo, e sarai tu
stesso, con il tuo odio, con il tuo disprezzo, a donarmi tale forza; tu stesso
ti distruggerai per l’inutile desiderio di annullare il mio corpo. È questo
ciò che un osservatore esterno riesce a pensare.
Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi
la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di
noi quali eravamo, rimanga.
(Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1976, p.
3. La facoltà di negare il consenso
In questo brano è rappresentata la lotta quotidiana dei deportati per rimanere
umani. Una lotta combattuta contro l’intera concezione di Lager, studiata a
tavolino per annientare l’animo degli uomini prigionieri.
Sono descritte le fatiche e le rinunce che il campo di sterminio imponeva: la
possibilità di lavarsi con la consapevolezza di sporcarsi completamente in
breve tempo; molti si attaccavano anche a queste piccole cose pur di rimanere
uomini, di mantenere una dignità che li differenziasse dai musulmani, gli
uomini, se così si potevano chiamare, ormai stanchi di vivere e lottare che non
aspettavano altro che la morte.
Steinlauf mi vede e mi saluta, e senza ambagi mi domanda severamente perché
non mi lavo. Perché dovrei lavarmi? starei forse meglio di quanto sto? [...] Più
ci penso, e più mi pare che lavarsi la faccia nelle nostre condizioni sia una
faccenda insulsa, addirittura frivola: un’abitudine meccanica, o peggio, una
lugubre ripetizione di un rito estinto. Morremo tutti o stiamo per morire: se mi
avanzano dieci minuti fra la sveglia e il lavoro, voglio dedicarli ad altro,
chiudermi in me stesso, a tirare le somme, o magari a guardare il cielo e a
pensare che lo vedo forse per l’ultima volta; [...] appunto perché il Lager
è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare;
che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler
sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è
importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma
della civiltà. Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa,
votati a morte quasi certa, ma che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo
difenderla con ogni vigore perché è l’ultima: la facoltà di negare il
nostro consenso. Dobbiamo quindi, certamente, lavarci la faccia senza sapone,
nell’acqua sporca, e asciugarci nella giacca. Dobbiamo dare il nero alle
scarpe, non perché così prescrive il regolamento, ma per dignità e proprietà.
Dobbiamo camminare dritti, senza strascicare gli zoccoli, non già in omaggio
alla disciplina prussiana, ma per restare vivi, per non cominciare a morire.
(Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1976, p. 35 – 36)
4. Letti
I brani che seguono dimostrano il diverso modo in cui erano organizzati i
"letti" dei prigionieri nei Lager e nei Gulag durante la Seconda
Guerra mondiale, come attestano le opere di Levi e di Solzenicyn. Inoltre
permettono di intravedere quelle piccole differenze che nei Lager riducono
l’uomo a mero strumento di lavoro, nei gulag consentono la sopravvivenza delle
caratteristiche umane.
Non so chi sia il mio vicino; non sono neppure sicuro che sia sempre la
stessa persona, perché non l'ho mai visto in viso se non per qualche attimo nel
tumulto della sveglia, in modo che molto meglio del suo viso conosco il suo
dorso e i suoi piedi. Non lavora nel mio Kommando e viene in cuccetta solo nel
momento del silenzio; si avvoltola nella coperta, mi spinge da parte con un
colpo delle anche ossute, mi volge il dorso e comincia subito a russare. Schiena
contro schiena, io mi adopero per conquistarmi una superficie ragionevole di
pagliericcio; esercito con le reni una pressione progressiva contro le sue reni,
poi mi rigiro e provo a spingere con le ginocchia, gli prendo le caviglie e
cerco di sistemarle un po’ più in là in modo da non avere i suoi piedi
accanto al viso: ma tutto è inutile, è molto più pesante di me e sembra
pietrificato dal sonno."
(Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1976, p.52)
Solo che la buona giornata l'aveva reso tanto di buon umore che gli sembrava
di non avere più sonno. Andare a letto era una cosa semplice: bastava sollevare
la coperta nerastra, sdraiarsi sul materasso (su un lenzuolo Suchov non dormiva
dal '41, da quando, cioè, era partito da casa, e gli sembrava persino una cosa
strana che le massaie si preoccupassero di lavare le lenzuola, un lavoro
perfettamente inutile), sistemare la testa sul cuscino imbottito di trucioli,
coprire i piedi con il giaccone imbottito, stendere sopra la coperta, la
casacca, e , grazie a Dio, un'altra giornata era trascorsa.
(Aleksandr Solzenicyn, Una giornata di Ivan Denisovic, Einaudi, Torino, 1963,
p.163)
5. Considerate la vostra semenza
All’episodio prendono parte Levi e Jean, il pikolo della baracca, mentre si
stanno dirigendo velocemente per mettersi in fila per avere la loro razione di
zuppa. Egli esprime il desiderio di imparare l’italiano e a Levi viene in
mente il canto di Ulisse della Divina Commedia. Quasi senza pensarci si trova a
recitarlo, mentre Jean attentissimo cerca di ripetere. Levi si aggrappa a quei
ricordi, è quasi come se non avesse inteso il vero senso del canto fino a quel
momento.
Il passo può quasi essere definito un elogio alla letteratura consolatoria e,
inoltre, se viene fatto il confronto tra il canto e la situazione in cui viene
recitato, si trovano delle analogie e delle contrapposizioni estremamente
significative: dall’elogio della virtù dell’uomo, in contrasto con la
situazione, alla fine tragica della nave di Ulisse che sembra coinvolgere la
barca di ogni uomo.
…Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non
abbiamo tempo di scegliere, quest’ora già non è più un’ora. Se Jean è
intelligente capirà. Capirà: oggi mi sento da tanto.
…Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si
prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è
distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è la Ragione,
Beatrice la Teologia.
Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato:
Lo maggior corno della fiamma antica
Cominciò a crollarsi mormorando,
Pur come quella cui vento affatica.
Indi, la cima in qua e in là menando
Come fosse la lingua che parlasse
Mise fuori la voce, e disse: Quando…
Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese!
Tuttavia l’esperienza pare che prometta bene: Jean ammira la bizzarra
similitudine della lingua, e mi suggerisce il termine appropriato per rendere
“antica”.
E dopo “Quando”? Il nulla, Un buco della memoria. “Prima che sì Enea la
nominasse”. Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile:
“…la pietà Del vecchio padre, né’l debito amore Che doveva Penelope far
lieta…” sarà poi esatto?
…Ma misi me per l’alto mare
Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di
distinguere perché “misi me” non è “je me mis”, è molto più forte e
più audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là della
barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha
viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se
stesso, libero diritto e semplice, e non c’è ormai che odore di mare: dolci
cose ferocemente lontane.
Siamo arrivati a Kraftwerk, dove lavora il Kommando dei posacavi. Ci
dev’essere l’ingegner Levi. Eccolo, si vede solo la testa fuori dalla
trincea. Mi fa un cenno con la mano, è un uomo in gamba, non l’ho mai visto
giù di morale, non parla mai di mangiare.
“mare aperto”. “Mare aperto”. So che rima con “diserto”:
“…quella compagna Picciola, dalla qual non fui diserto”, ma non rammento
più se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là
delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa:
un sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi:
…Acciò che l’uom più oltre non si metta.
“Si metta”: dovevo venire in Lager per accorgermi che è la stessa
espressione di prima, “ e misi me”. Ma non ne faccio parte a Jean, non sono
sicuro che sia un’osservazione importante. Quante altre cose ci sarebbero da
dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta
furibonda.
Ecco, attento Pikolo, apri gli occhi e la mente, ho bisogno che tu capisca:
Considerate la vostra semenza:
Fatte non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.
Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba,
come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.
Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta
facendo bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione
scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha
sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in
specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le
stanghe della zuppa sulle spalle.
Li miei compagni fec’io sì acuti…
…e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire questo “acuti”.
Qui ancora una lacuna, questa volta irreparabile. “…Lo lume era di sotto
della luna” o qualcosa di simile; ma prima?… Nessuna idea, “keine Ahnung”
come si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine.
- ça ne fait rien, vas-y tout de meme.
…Quando mi apparve una montagna, bruna
Per la distanza, e parvemi alta tanto
Che mai veduta non ne avevo alcuna.
Sì, sì, “alta tanto”, non “molto alta”, proposizione consecutiva. E le
montagne, quando si vedono di lontano…le montagne…oh Pikolo, Pikolo, di’
qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel
bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!
Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono.
Pikolo attende e mi guarda.
Darei la zuppa di oggi per sapere saldare “non ne avevo alcuna” col finale.
Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le
dita: ma non serve, il resto è silenzio. Mi danno per il capo altri versi:
“…la terra lagrimosa diede vento…” no, è un’altra cosa. E’ tradi,
è tradi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere:
Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque,
alla quarta levar la poppa in suso
E la prora ire in giù, come altrui piacque…
Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che
comprenda questo “come altrui piacque”, prima che sia troppo tardi, domani
lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli
del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e
altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto,
nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro
essere oggi qui…
Siamo oramai nella fil per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata
dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle
spalle. –Kraut und Ruben?- Kraut und Ruben-. Si annuncia ufficialmente che
oggi la zuppa è di cavoli e rape: -Choux et navets.- Kaposzta es repark.
Infin che’l mar fu sopra noi rinchiuso
(Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1976, pp. 100 - 103)
6. La difficile libertà
Questo passo è molto importante perché racchiude in sé la condizione morale
in cui si ritrovavano i deportati, ormai ridotti allo stremo delle forze, anche
a causa del rigidissimo inverno.
Primo Levi sostiene che l’unica libertà ad Aushwitz era rappresentata dal
suicidio, ma per convincersene avrebbe dovuto avere le forze ed il tempo
necessario per attuarlo.
E’ la testimonianza di un uomo che sembra aver perso definitivamente la
propria dignità umana e la speranza.
“24 gennaio. Libertà. La breccia nel filo spinato ce ne dava l’immagine
concreta. A porvi mente con attenzione voleva dire non più tedeschi, non più
selezioni, non lavoro, non botte, non appelli, e forse, più tardi, il ritorno.
Ma ci voleva sforzo per convincersene e nessuno aveva tempo di goderne.”
(Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1976, p. 152)
7. Lo sguardo d’altri
La seguente frase di Levi colpisce particolarmente perché esprime il bisogno
assoluto che l’uomo ha dei suoi simili, tanto che una parte dell’esistenza
di ognuno appartiene a coloro che gli sono vicini. Anche in un contesto disumano
come fu quello di Auschwitz questo istinto naturale non è mai venuto meno,
persino nelle situazioni più dolorose e raccapriccianti.
E siccome lì, nel campo di Auschwitz, quello che prima si chiamava “uomo”
era diventato una “cosa”, non si può che considerare l’esperienza di ogni
deportato non-umana; essa rispecchiava infatti il non essere uomo, l’aver
superato ogni limite della sopportazione, l’annientamento della dignità
umana, una condizione in cui la vita e la morte parevano la stessa cosa.
Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è
non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una
cosa agli occhi dell’uomo.
(Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1976, p. 152)
"); //-->