QUEL DILEMMA SUL PERDONO

La Repubblica


di GIORGIO BOCCA
21-09-2005

Il 12 aprile del 2003 Simon Wiesenthal, l´uomo che aveva dedicato la vita alla caccia dei criminali nazisti, diceva: «Il mio lavoro è fatto. Se ci sono ancora criminali nazisti che non ho trovato sono troppo vecchi e fragili per sostenere un processo». Il suo motto era «giustizia mai vendetta», il motto di un architetto ebreo che nel 1945 venne assunto dal War Crime Section americano per raccogliere prove, documenti, nomi di nazisti colpevoli di delitti contro l´umanità, per fornire una testimonianza al processo di Norimberga. Era necessaria la testimonianza raccolta da un ebreo tenace e instancabile come Wiesenthal per affermare davanti alla storia che quel crimine spaventoso, incredibile contro l´umanità era davvero avvenuto? La rilevanza del personaggio Wiesenthal più che alla sua opera si affida alla domanda che essa pone a tutti noi: il perdono ha un senso? Il bisogno di giustizia spiega una caccia all´uomo senza esitazioni e senza eccezioni? Una risposta netta e convincente non esiste, più delle ragioni contano le formazioni culturali, religiose, di chi è chiamato a rispondere. Ho incontrato Wiesenthal cinque o sei volte, l´ho per così dire seguito passo a passo nella caccia a Eichmann, il capostazione della morte, nella periferia di Buenos Aires, ma pur non essendo un cattolico credente e praticante c´è troppo cattolicesimo in me per aderire alla sua giustizia implacabile e univoca. Del resto il primo a porsi il problema del perdono, se sia possibile o no, se sincero o ipocrita, se utile o meno nella generale malvagità del mondo, è stato proprio Wiesenthal che nel 1970 scrisse nella prefazione del suo libro «Il girasole»: «Nel giugno del 1942 a Leopoli, in circostanze insolite una giovane SS che stava per morire mi confessò i suoi delitti. Voleva morire in pace dopo aver ottenuto il perdono da un ebreo. Ritenni di doverglielo rifiutare. Ne discussi poi a lungo con i miei compagni di deportazione e finita la guerra andai a trovare la madre del giovane nazista ma non trovai il coraggio di rivelarle la verità su suo figlio. Questa vicenda continuava a tormentarmi. Così decisi di rivolgere la domanda sul perdono ad alcune persone importanti di diverse nazionalità». Le risposte di queste persone importanti sono contrastanti e in buona sostanza dicono che una risposta netta e definitiva è impossibile. Primo Levi è incerto: «Lei non avrebbe potuto perdonarlo se non mentendo e infliggendo a lei stesso una terribile violenza morale. E´ chiaro tuttavia che un suo rifiuto non risolve tutto, e si capisce abbastanza bene che lei abbia conservato dei dubbi. In casi come questo il sì e il no non si possono separare con un taglio netto, qualcosa resta sempre dall´altra parte». Stefano Levi della Torre aggiunge: «Il pentimento è anche un affare. Al pentimento in extremis manca per lo più qualcosa, manca la possibilità e quindi la responsabilità di redimersi con gli atti. Qui invece ha chiamato un ebreo di nascosto che ha tradotto il proprio crimine storico in una crisi privata». Le persone che rispondono a Wiesenthal sono degli intellettuali che hanno fatto della sincerità una ragion d´essere, eppure non si può non vedere che ciascuno tira l´acqua al suo mulino, intellettuale o di vita. L´architetto Albert Speer, l´esempio più noto dell´ambiguità verso il nazismo, il più stretto collaboratore di Hitler scampato al processo di Norimberga, ci racconta un Wiesenthal diversissimo da quello che seguiva come un segugio Eichmann su un tram, nella periferia di Buenos Aires, che organizzava il suo sequestro e il trafugamento su un aereo, piratesco e illegale pur che il colpevole dell´Olocausto pendesse impiccato nella veste rossa dei condannati a morte in un carcere segreto di Israele. Il Wiesenthal incontrato da Speer nel centro di documentazione ebraica è molto diverso. «Non mi ha accusato e non mi ha buttato in faccia la sua collera, ha dimostrato clemenza e umanità. L´ho guardato negli occhi, gli occhi che avevano visto la sofferenza, il degrado, il fatalismo e l´agonia dei suoi compagni, e tuttavia quegli occhi non esprimevano odio, erano caldi e tolleranti e pieni di comprensione per le sventure altrui. Sono venuto da lei traumatizzato, gli dissi. E lei mi ha molto aiutato, come ha aiutato quella giovane SS morente quando non ha ritirato la sua mano e non l´ha rimproverato. Ogni essere umano deve portare il suo fardello. Nessuno può assumersi quello di un altro, ma il mio, dopo il nostro incontro, è diventato più leggero». E qui bisogna riconoscere a Speer l´arte dell´inganno per cui è sfuggito alle forche di Norimberga. E Paolo De Benedetti: «Se il secolo XX dovesse trasmettere al XXI un solo messaggio vorrei che fosse l´angosciosa domanda del Girasole». Forse il disagio che ho provato di fronte a Wiesenthal le volte che l´ho incontrato deriva da un diverso atteggiamento verso la giustizia. Non cattolico ma imbevuto di cattolicesimo, ho sentito nei giorni della resa dei conti della guerra partigiana, aprile del ´45, che quella giustizia non avrebbe lavato i peccati del mondo e che la voglia di fascismo sarebbe, nonostante tutto, ritornata. Mi sono sbagliato?