Le
Deportate di Ravensbrück
Quando Rosa P.G. giunse al campo tedesco di Ravensbrück, lesse sul portone tre
iniziali, F.K.L. Volevano dire: campo di concentramento per donne. Un lungo
muro, altissimi pali di cemento che reggevano del filo spinato ad alta tensione,
file di baracche a perdita d'occhio. Nel vasto piazzale, un gruppo di donne in
casacche a strisce grigio-azzurre trainavano un carro ricolmo di salme
femminili; e cantavano, su comando, una strascicata canzone, che risuonava in
quel vuoto come lugubre nenia.
Fu, per anni, una vita inumana. Sotto la frusta degli aguzzini, e di femmine
perverse, migliaia di donne abbatterono tronchi d'albero nella foresta,
costruirono strade, scavarono sabbia, scaricarono mattoni: lì come in tanti
altri campi, ma lì più che altrove, in quel campo fatto tutto per loro,
meticolosamente organizzato per spremerne ogni residua energia di lavoro; fino a
che, esauste, malate, ridotte a larve esangui, erano avviate al forno
crematorio. Di notte, un bagliore rossastro aleggiava attorno al tozzo camino;
di giorno si levava una nuvola nera che poi si spandeva sul campo. Erano donne
ebree, ma anche "politiche" d'ogni paese; e non mancavano quelle
arrestate a casaccio, e qualcuna d'infimo livello morale, che poi si prestava ai
più degradanti servigi.
Così si compì in quei campi, e specialmente a Ravensbrück, una lenta, crudele
disgregazione di ogni femminilità. Bruno Piazza, purtroppo scomparso, ha
lasciato scritto: "Nel Lager le donne hanno certamente sofferto più degli
uomini […]. Con le teste rapate, i piedi e le gambe gonfie, deturpate in tutto
il corpo da piaghe e da ascessi purulenti, la faccia piena di macchie nere e
violacee, scheletri ambulanti, noi le vedevamo girare in una ridda vorticosa nel
campo attiguo, sotto la sferza di una prostituta".
Secondo accurate statistiche, si calcola che le donne, le giovinette, i bambini
passati al campo di Ravensbrück fossero più di centotrentamila. Novantamila e
più morirono. Le donne italiane furono molte centinaia, ebree e politiche. Lì
come altrove, fu una barbara ecatombe. Quintali di ceneri buttate nello
Schwedtsee, tenera pelle trasformata in paralumi, montagne di lucenti capelli
ridotte a pagliericci. C'è forse ancora qualche tedesco che dorme i suoi
placidi sonni su uno di questi giacigli nefandi?
Claire Van Den Boom scrisse ai propri figli prima di essere decapitata:
"Muoio per dare la prova che si può amare appassionatamente la vita e
accettare la morte come una necessità. Sono caduta perché il cielo del Belgio
sia più chiaro, perché quelli che verranno dopo di me possano vivere in libertà,
come lo avrei fatto io stessa con tanto piacere. Ma nonostante tutto, non
rimpiango nulla… Penso a voi, figli miei, che domani sarete liberi". Con
questa stessa speranza un'altra deportata di Ravensbrück, Lidia Rolfi, poco
prima di essere liberata dalle truppe sovietiche ripensava alla sua terra
piemontese, e annotava nel suo diario, miracolosamente scampato alla
distruzione: "Guardo le stelle: tanti punti nella volta scura, uguali a
quelli che vedevo da casa mia. Laggiù, ora, i prati sono verdi, i meli sono in
fiore, sui castagni spuntano le prime foglie e chissà se i lillà sono già
fioriti… Chissà se papà avrà abbattuto il pero gobbo che stava
seccando".
Dopo la Liberazione, una parte del campo di Ravensbrück, adibito a deposito
dalle truppe di occupazione, cominciò a cadere in rovina. Ma si salvarono i
bunker, la prigione, il forno crematorio, il muro di cinta; e furono trasformati
in museo. Ai piedi del muro, sulla lunga fossa comune, sono stati trapiantati
cespi di rose, portati da Ridice e Oradour. Si conserva ancora intatto, e fosco
tra due alti muri, il "corridoio delle fucilazioni", dove le infelici
erano finite con un colpo alla nuca. Su una lapide vicino all'ingresso sono
incise le parole dettate da Anna Seghers per le giovani generazioni che verranno
in pellegrinaggio "Sono le madri e le sorelle di tutti noi. Voi oggi non
potreste studiare e giocare in libertà, e forse non sareste neppure nati, se
queste donne, con i loro corpi teneri e fragili, non vi avessero protetto, voi e
il vostro avvenire, come con uno scudo di acciaio".
Nei primi mesi di Lager l'ostinata speranza di queste donne alimenta favole
assurde. C'è chi dice di aver visto, al di là dei reticolati, donne anziane e
bambini. Chi sa, forse quello è il campo che accoglie pietoso le vecchie madri
e gli infanti, da cui erano state staccate al momento dell'arrivo. Solo più
tardi si saprà che tutte queste creature più deboli erano state portate al
crematorio la cui fiamma sinistra nella notte, accompagnata dall'odore di carne
umana bruciata, finirà per svelare, anche alle più incredule, la realtà
atroce. E allora tutte sapranno dove sono diretti i camion stipati di donne
ignude, urlanti, consapevoli.
C'è una sposa francese che aspetta un bimbo. "Come tutte le madri del
mondo Edith non sapeva se il bimbo sarebbe nato vitale o no, ma non sapeva
ancora se avrebbe potuto vivere o no, se avrebbe avuto il diritto alla vita o se
appena nato l'attendesse il crematorio". Un giorno di ottobre la notizia:
Edith sta bene, era nato un bel maschio di circa quattro chili, aveva aperto gli
occhi, vagito, e tosto li aveva richiusi per sempre. A quella notizia, dice la
scrittrice, "piansi con la testa nascosta nelle coperte, non so se più per
la tua nascita o più per la tua morte, mio piccolo bimbo".
Un giorno, una squadra di queste donne adibite ai lavori più assurdi, esce dal
campo e va, attraverso un bosco di betulle, a un magazzino che raccoglie la
preda dei convogli. Deve trasportare una cinquantina di carrozzelle da bimbo.
"Lo strano corteo si mosse: le madri che avevano lasciato dei figli lontano
poggiavano le mani sul manubrio cercando istintivamente la posizione più
naturale, alzando dinanzi agli ostacoli prontamente le ruote anteriori…. Le
donne che avevano perduto i bambini al crematorio provavano lo struggimento
fisico di avere un bambino attaccato al seno… Quelle che non erano state
madri, spingendo maldestre la carrozzina, pensavano che mai lo sarebbero
diventate, e ringraziavano Dio".
Se in Danimarca, in Olanda, in Cecoslovacchia, anche nell'Italia fascista, e in
molti altri paesi dell'Europa occupata, ci sono stati privati cittadini e
autorità politiche e militari che sfidando i nazisti hanno aiutato in mille
modi gli ebrei (e il processo di Gerusalemme ha messo bene in luce tutti questi
episodi di generosità), non sono neppure mancati gli sgherri che per lucro o
per odio di razza o per servilismo abietto hanno dato man forte agli assassini,
facendosi delatori o dando la caccia all'ebreo.
"); //-->