In: La Civiltà Cattolica n. 3771-3772, 2007http://www.laciviltacattolica.it/Quaderni/2007/3771-3772/index_3771-3772.html


Mario Motta, Kelsen e il Leviatano,

Palermo, Sellerio, 2006


Il titolo, accattivante, introduce subito nel cuore di questo saggio: il pensiero del noto giurista Hans Kelsen (1881-1973). L’A. fa riferimento soprattutto a due problemi fondamentali della riflessione giuridico-politica: la validità delle norme e la legittimità del potere. In particolare, da questo secondo tema deriva il riferimento, nel titolo, al noto trattato di filosofia politica: il Leviatano, scritto dal filosofo inglese T. Hobbes (1588-1679). H. Kelsen insegnò Diritto all’Università di Vienna e collaborò al progetto per la Costituzione austriaca. Con l’avvento del nazismo emigrò negli Stati Uniti, dove continuò l’insegnamento universitario, diffondendo soprattutto la Dottrina pura del diritto, come recita il titolo della sua opera più importante.

A prescindere dal giudizio personale sulle sue idee, Kelsen è figura di primissimo piano nel panorama della teoria del diritto e dello Stato nel XX secolo, un autore con cui bisogna inevitabilmente confrontarsi. E così fa anche l’A., che, accostandosi criticamente a Kelsen, fa frequente riferimento a N. Bobbio (1909-2004), insigne interprete e divulgatore del suo pensiero. Intento primario di Motta è quello di impiegare il confronto con le idee di Kelsen come stimolo per una «riflessione critica intorno allo stato dell’attuale cultura giuridico-politica e soprattutto sulle difficoltà determinate in essa dalla persistente egemonia del positivismo» (p. 11).

In effetti Kelsen è fortemente legato al positivismo: il suo nome rimane indissolubilmente connesso alla teoria del positivismo giuridico o giuspositivismo, che si oppone al giusnaturalismo. Come ricorda l’A., quello di Kelsen è il più originale tentativo di mettere in evidenza i fondamenti del diritto positivo senza ricorrere al diritto naturale. Ma tale tentativo è fallito e così, alla crisi del giusnaturalismo, si è aggiunta quella del giuspositivismo. La teoria di Kelsen, allora, appare come una deriva del positivismo, un documento della sua fine irreversibile. Questo, però, non significa che dopo Kelsen si possa semplicisticamente tornare al giusnaturalismo, senza incontrare le stesse difficoltà nelle quali Kelsen è incorso e che non è riuscito a superare. E, se ciò è vero, vuol dire che ci si trova oggi in una crisi radicale della filosofia giuridico-politica, crisi a cui la maggior parte del pensiero contemporaneo starebbe prestando scarsissima attenzione.

Con riferimento soprattutto al diritto internazionale, l’A. pone al centro della sua riflessione critica il principio fondamentale che regola i rapporti nella comunità internazionale: il principio di effettività. Secondo tale principio, in realtà «ogni ordinamento è valido per il solo fatto che esiste e che le sue norme devono essere obbedite» (p. 236). Ne consegue che si ritiene giusto obbedire alle norme per il solo fatto che i più le osservano, a prescindere dalla loro origine e dal loro contenuto. Se non è possibile definire che cosa sia giusto o ingiusto in assoluto, diventa chiaro lo stretto legame tra positivismo giuridico e relativismo giuridico. In sostanza per l’A. il principio di effettività, portatore di sostanziale nichilismo, è un chiaro risultato del pensiero debole, diffuso ed egemone anche nella scienza del diritto. Quello di effettività è un principio imperante e accettato ormai senza giudizi di valore. Sono intuibili anche da parte dei non specialisti le conseguenze che tale principio ha a livello di singole nazioni e nel rapporto tra le nazioni e, quindi, nel diritto internazionale, con particolare riferimento ai problemi della democrazia.

Di fronte a problemi di tale portata, l’intento dell’A. va ben oltre una semplice critica negativa al cuore del pensiero di Kelsen. È piuttosto il tentativo di proporre una prospettiva teorica più allargata, realistica ma anche capace di rimettere in discussione ciò che oggi sembra indiscutibile. Quelle dell’A. appaiono come una serie di riflessioni prevalentemente filosofiche che liberamente si muovono, come egli stesso riconosce, tra filosofia giuridica e filosofia politica. È il tentativo di proporre una possibile via di uscita dall’attuale crisi che attanaglia la filosofia giuridica e che sembrerebbe senza soluzione. Contrariamente al parere della maggior parte degli studiosi, invece, l’A. ritiene non utopistico proporsi lo scopo — lo stesso di Kelsen — di una conoscenza del diritto «libera da qualsiasi ideologia politica e da ogni elemento scientifico naturalistico» (p. 14).

Di sicuro, quella dell’A. risulta una voce critica, fuori dal coro, che oscilla tra consapevolezza della realtà e sua contestazione. Lo stesso Motta, realisticamente, è consapevole delle enormi difficoltà inerenti il cambiamento di paradigma, o la sola rimessa in discussione del principio di effettività, con tutte le conseguenze sul diritto internazionale. Eppure, nonostante tale consapevolezza, non rinuncia a porre il problema. E alla fine della lettura sembra che si possa condividere il progetto dell’A., agli inizi apparentemente anacronistico: quel suo ripartire proprio da Kelsen per affrontare a livello teorico i problemi fondamentali del pensiero giuspolitico. Testo rivolto principalmente agli specialisti e a quanti si interessano alla scienza del diritto, soprattutto se ancora capaci di riflessioni critiche sull’attuale imperante relativismo giuridico.

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