In: La Civiltà Cattolica n. 3754, 2006http://www.laciviltacattolica.it/Quaderni/2007/3754/index_3754.html


Maurice Bellet, L’amore lacerato,

Troina (En), Servitium, 2005


L’A. è un sacerdote francese, psicanalista, i cui scritti sono molto apprezzati nel suo Paese. Come ben chiarisce il titolo, qui ci parla dell’amore e di quella lacerazione che, in modo pressoché inevitabile, lo caratterizza. Ci parla quindi «del dolore d’amare, […] del dolore che viene da dentro l’amore: di un dolore, di una tristezza, di una derelizione che è l’amore stesso a generare» (p. 8). Ognuno sa bene che l’amore è esperienza totalizzante: «L’amore non è l’idea di amore, è l’esperienza d’amore: un’esperienza che coinvolge tutto l’uomo. L’amore vuole custodire tutto: vuole il corpo e lo spirito, la testa e il cuore […]. Tutto. L’amore vuole tutto» (p. 13). Amore e lacerazione sono strettamente correlati, in misura direttamente proporzionale: «La lacerazione è tanto più dura e forte quanto più grande è l’amore, quanto più esso viene vissuto come essenziale alla vita» (p. 48). E ogni lacerazione, soprattutto se subita, lascia profonde cicatrici e, prima ancora, può generare odio oppure abbattimento, buio, colpa. Proprio gli opposti dell’amore.

L’amore come massima espressione del bisogno-desiderio di relazione ma anche, e proprio per questo, massima espressione del rischio relazionale, della sofferenza inevitabilmente insita nell’aprirsi all’altro. Ogni relazione d’amore paga un pedaggio, condizionata com’è dalle relazioni primarie individuali e, ancor prima, dall’ereditarietà filogenetica. Certo, il cammino dell’amore deve necessariamente passare di qui, eppure si mantiene nella fede «che tutto ciò che, al di fuori dell’amore o prima di lui, appare in una forma selvaggia e feroce, tutto possa essere toccato, trasfigurato da questa grazia: l’amore stesso» (p. 144).

Certo, l’A. si confronta con un tema difficile, che si presta a discussioni e contestazioni infinite. Per quanto possibile evita sia di forzare l’amore in teorie dis-umanizzanti, sia di «liberare» l’amore da ogni vincolo, riducendolo così a semplice egoismo, alla morte dell’amore stesso. E così si apprezza il coraggio con cui Bellet confronta l’amore con la morale, la ragione, la cultura, la sofferenza psicologica, la religione… Confronto sempre molto problematico, in cui l’A. cerca continuamente un equilibrio tra il rispetto della complessità e della sofferenza da una parte, e il sottrarsi alla «confusione caotica» dall’altra: «La responsabilità dell’amore non dissolve l’amore nel qualunquismo e nella deriva delle voglie» (p. 160).

Da ogni pagina traspare un lungo contatto con la sofferenza individuale e relazionale, nonché una solida esperienza professionale come terapeuta e sacerdote. In definitiva traspare tutta la sua profonda umanità. Attraverso un fraseggio sincopato si dipana una scrittura viva, forte, cruda, asciutta ma insieme ricca di emozionalità, di metafore del quotidiano in cui un po’ tutti si possono ritrovare. In definitiva, dalla profonda analisi delle possibili lacerazioni che intaccano l’amore deriva un vero e proprio «inno all’amore».

Contro le statistiche sulle distorsioni dell’amore e sugli amori che finiscono, e contro una cultura che si limita a prenderne atto, l’esperienza di tanti dice che è possibile superare i confini apparentemente insormontabili dei vari determinismi e del pessimismo imperante. L’amore esiste e, anche quando è lacerato, può sempre rinnovarsi. E questo lascia la porta aperta alla speranza: «Il più piccolo passo fatto dal più sprovveduto degli umani lungo il cammino di questo amore, fosse pure nell’illusione, nell’inestricabile e nell’angustia, il più piccolo passo in avanti è già la salvezza del mondo» (p. 200).

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