In: La Civiltà Cattolica n. 3741, 2006http://www.laciviltacattolica.it/Quaderni/2006/3741/index_3741.html


Ignazio Sanna, L’identità aperta. Il cristiano e la questione antropologica,

Brescia, Queriniana, 2006


L’A., ora arcivescovo di Oristano, è professore ordinario di Antropologia teologica e pro-rettore all’Università Lateranense. Continuando la riflessione avviata in un testo precedente: L’antropologia cristiana tra modernità e postmodernità, egli riflette sull’identità cristiana nella società globalizzata e dominata dalla rivoluzione biotecnologica. Evitando accuratamente di cadere in una sorta di sindrome di autodifesa della propria identità religiosa, la riflessione è divisa in due parti. La prima — «L’identità aperta tra biologia e biografia» — analizza in due capitoli il problema dell’identità e della sua formazione.

Determinato il complesso concetto di identità e messa in evidenza la sua domanda generalizzata, l’A. precisa che il nucleo della riflessione è «l’identità personale» che precede qualunque altra forma di identità, costituendone la base. L’analisi della stagione postmoderna conferma un dato: l’indebolimento e la trasformazione dell’identità sia individuale sia socio-culturale, politica e religiosa. Nel progressivo distanziamento tra la visione cristiana dell’uomo e quella della cultura liberale-radicale, oggi la questione antropologica interessa l’essenza stessa dell’identità umana.

Due i fenomeni di maggior impatto sulla formazione dell’identità personale: la globalizzazione, fattore economico e culturale insieme, e la rivoluzione biotecnologica. La globalizzazione comporta una nuova percezione sia dello spazio sia del tempo, coordinate basilari per la costruzione dell’identità. Si manifesta, così, sia quell’identità debole e impersonale che fonda la questione antropologica, sia il venir meno della dimensione escatologica della visione cristiana. Considerando i principali fattori del processo identitario — natura e cultura — risulta un rischio: «Sono cambiate le problematiche antropologiche che non solo compromettono l’identità umana e sociale, ma mettono anche in pericolo le stesse frontiere della vita» (p. 162).

Il passaggio «da una mentalità religioso-creazionista a una tecno-efficientista» rende meno definiti i confini invalicabili della persona. L’indebolimento dell’identità, poi, si correla all’affermarsi di semplificazioni identitarie, soprattutto in ambito religioso, pericolose quando teorizzano probabili conflitti di civiltà. In tale ambito l’A. analizza l’identità cristiana nel confronto soprattutto con l’ebraismo e l’islàm, e considera lo spostamento del centro di gravità del cristianesimo, con le sue profonde implicazioni.

La seconda parte — «L’identità aperta tra incarnazione e differenza» — cerca una risposta alla domanda di fondo: esiste una categoria teologica e culturale di riferimento per l’identità cristiana nella società globalizzata? La risposta, presente già agli inizi del cristianesimo e oggi valorizzata dalla riflessione cristiana, è nella categoria dell’uomo immagine di Dio, vero nucleo dell’antropologia cristiana. Così il problema di Dio e quello dell’uomo sono considerati nella loro inscindibile connessione. In effetti, indebolendo il concetto di Dio, si indebolisce anche quello dell’uomo, e così la natura umana, prima immutabile perché creata da Dio, oggi diventa manipolabile. La categoria dell’immagine, allora, salvaguarda e promuove proprio ciò che la cultura contemporanea mette in pericolo: la corporeità, la personalità, la dignità dell’essere umano, in definitiva i confini della natura umana.

Nell’imago dei l’uomo contemporaneo non trova soltanto la sua salvaguardia, ma anche una risposta alla sua sazietà di individualismo e alla sua nostalgia di relazionalità. Sapersi a immagine di Dio fonda la reciprocità relazionale uomo-Dio: «Non si può dire uomo senza dire Dio e non si può dire Dio senza dire uomo» (p. 290). Ma per evitare il rischio di costruire un Dio a immagine dell’uomo, è necessario avere un’idea pura di Dio. Il vero nome di Dio è «Padre», e oggi più che mai i cristiani, seguendo l’esempio di Gesù, devono recuperare l’esperienza di Dio come padre. Così la categoria dell’immagine, «nella misura in cui rimanda a un archetipo autentico di Dio Padre, ed è mediata dalla cristologia, diventa la base di un’antropologia filiale e, di conseguenza, anche di un’etica filiale» (p. 307). In definitiva per l’A. la soluzione della questione antropologica è proprio nella concezione dell’uomo come immagine di Dio che, erigendo confini inviolabili, garantisce e difende la vera «umanità» dell’uomo.

Il lavoro si presenta come una vasta e competente analisi del problema dell’identità cristiana nel mondo contemporaneo, alle prese con globalizzazione e rivoluzione biotecnologica. Anche se lascia un po’ in secondo piano la prospettiva psicologica — che pure, in modo prioritario, tratta il problema dell’identità personale — l’analisi proposta dall’A. è solidamente fondata sulle altre prospettive che si occupano dell’identità: antropologica, teologica, sociologica, filosofica. E al valore dell’analisi si aggiunge quello della proposta di soluzione: la visione cristiana dell’uomo come immagine di Dio, categoria capace di garantire sia un’identità forte e aperta, sia il dialogo con le antropologie diverse da quella cristiana.

Il testo, corredato da estesa bibliografia, è raccomandato certamente agli addetti ai lavori nelle diverse discipline che si occupano del problema uomo. E, più in generale, può essere utile a quanti siano interessati a conoscere un po’ meglio il possibile contributo dell’antropologia cristiana per risolvere la crisi d’identità dell’uomo postmoderno.

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