In: La Civiltà Cattolica n. 3651-3652, 2002http://www.laciviltacattolica.it/Quaderni/2007/3751-3652/index_3751-3652.html


Gianni Liotti, Le opere della coscienza. Psicopatologia e psicoterapia nella prospettiva cognitivo-evoluzionista,

Cortina, Milano 2001


La psicoanalisi classica considerò la distinzione tra processi mentali coscienti e inconsci prevalentemente come frutto di processi difensivi nei confronti del dolore mentale (rimozione). Il ruolo della coscienza nella cura dei disturbi mentali fu di conseguenza concepito soprattutto come riacquisita consapevolezza di quanto era stato rimosso. Questo libro descrive come la visione dei rapporti tra coscienza e inconscio sia cambiata profondamente, in molti settori tanto della psicoanalisi contemporanea quanto di altri tipi di psicoterapia (terapia cognitiva in particolare), grazie agli apporti della psicologia sperimentale cognitivista e della psicologia evoluzionista.

Al posto di una netta separazione, istituita dai processi difensivi della mente, la prospettiva cognitivo-evoluzionista propone l’idea di continuità e di scambi ininterrotti tra processi mentali coscienti e inconsci. La coscienza, in questa prospettiva, appare come un’articolata e complessa serie di operazioni diverse (le più note fra le quali, nel linguaggio tecnico della psicologia cognitivista, sono la memoria operativa, il monitoraggio e la costruzione di una «teoria della mente»). Queste «opere della coscienza» riguardano anche, e forse soprattutto, la conoscenza e la regolazione della vita emozionale e affettiva, le cui sorgenti sono intrinsecamente e strutturalmente inconsce.

L’A. volutamente non entra nel merito della teoria generale della coscienza, argomento centrale nel dibattito contemporaneo in diverse discipline: filosofia, neuropsicologia, neurobiologia, psicologia, epistemologia evoluzionista. Il libro ha piuttosto un obiettivo clinico: discutere alcuni contributi della prospettiva cognitivo-evoluzionistica alla comprensione della psicopatologia e del processo psicoterapeutico, tutti riferibili al tema centrale della regolazione delle emozioni permessa dalla coscienza. E poiché l’evoluzionismo, se applicato alla psicologia, suggerisce che le emozioni sono da intendersi prevalentemente come comunicazioni pre-verbali, a base innata, tra membri di una stessa specie animale, l’uomo che l’A. studia e cura è fondamentalmente un soggetto-in-relazione, con l’esigenza primaria di conoscere sé-con-l’altro.

A partire da specifici valori innati utili per la sopravvivenza e l’adattamento all’ambiente, nel corso dell’evoluzione si sono precisate specifiche disposizioni innate a diverse forme di relazione (sistemi motivazionali interpersonali: SMI). Si tratta di disposizioni a chiedere cura e aiuto quando si è in difficoltà, a offrire cura in risposta a tale richiesta, a formare una coppia sessuale relativamente durevole nel tempo, a competere per la dominanza nella relazione, a collaborare su un piano paritetico in vista di obiettivi congiunti.

Ad ogni SMI corrispondono emozioni specifiche, che da un lato sono comunicazioni rivolte a un conspecifico, e dall’altro sono pattern di attivazione neurofisiologica, «avvolti nel silenzio del corpo, privi di volto e di nome» (p. 52), e quindi precedenti la coscienza. Dalla necessità evolutiva di non fraintendere questi segnali emozionali nelle relazioni, trae origine la coscienza, sistema mentale che elabora i segni comunicativi per evitare risposte inappropriate. L’elaborazione cosciente dei segnali emozionali permette così di formulare «teorie» sulle intenzionalità dell’altro soggiacenti al suo com-portamento emozionale e di monitorare la propria esperienza cosciente, facendosi un’idea della propria mente.

Il progressivo arricchimento di coscienza e conoscenza, che si forma nei contesti relazionali, non procede sempre senza intoppi, soprattutto nei casi in cui i primi attaccamenti alle figure genitoriali sono ansiosi e insicuri. Ed ecco i disturbi psicopatologici, correlati a deficit nell’autoregolazione delle emozioni. Se le relazioni malate tendono a generare malattia, la correzione dei deficit di regolazione delle emozioni nell’ambito di una relazione sana può produrre guarigione. Queste le basi di un discorso che si snoda lungo vari e intensi capitoli, utilizzando come filo conduttore un caso clinico emblematico.

La materia è complessa, ma l’esposizione del pensiero è ordinata, consequenziale, supportata da utili riassunti finali per ogni capitolo. Si tratta di un testo particolarmente indicato per tecnici del disagio mentale (non solo dell’area cognitivista), in particolare se interessati all’integrazione tra diverse prospettive psicopatologiche e psicoterapeutiche. Basato su un’attenta analisi dei principali studi sperimentali delle varie discipline a livello internazionale, il libro è infatti un personale e convincente accostamento di contributi teorici e clinici potenzialmente integrabili, pur se originati da punti di vista diversi. L’A., che dichiara la propria adesione alla metodologia popperiana della falsificabilità delle teorie scientifiche, suggerisce che l’integrazione tra diverse Scuole di psicoterapia possa avvenire grazie alla selezione delle teorie psicopatologiche e psicoterapeutiche che hanno meglio superato il vaglio della ricerca sperimentale (in neuropsicologia, nella psicologia dello sviluppo, nello studio controllato dell’efficacia delle diverse psicoterapie e del processo psicoterapeutico). Certo, qui si parla di «piccole» teorie emerse nell’ambito delle diverse Scuole di psicoterapia, non di quelle «grandi» teorie, di quelle visioni globali della mente umana tentate da Freud, da Jung, da Melanie Klein. Ma anche una serie di «piccole» teorie, se selezionate da studi empirici accurati, può contribuire a visioni più estese.

Il percorso teorico verso l’integrazione delle teorie psicoterapeutiche, cui il lavoro di Liotti contribuisce, si va sempre più definendo e arricchendo. Su questi temi molto si è compreso, ma molto c’è ancora da comprendere, poiché qui si tratta, in ultima analisi, di diverse visioni dell’uomo. Ed essendo auspicabile un confronto continuo e serrato tra i sostenitori di differenti posizioni antropologiche, ci auguriamo che l’A., pur riconoscendosi essenzialmente come un clinico, non faccia mancare il suo contributo a un tale più ampio dibattito.

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