In: La Civiltà Cattolica n. 3750, 2006http://www.laciviltacattolica.it/Quaderni/2007/3750/index_3750.html


Claire Coleman, Lettre à mon mari mort,

Paris, Parole et Silence, 2006


La Coleman è una scrittrice nota soprattutto per i suoi lavori su Mozart redatti insieme a Fernando Ortega. Su pressione di amici, e nell’intima convinzione della sua utilità anche per altri, con il presente lavoro offre al lettore una lunga lettera all’amato marito che ormai non c’è più: John. Egli non ha lasciato tracce significative che consentano al lettore di poterlo in qualche modo ricordare. Per il tempo che precede questa lettera postuma della moglie, lei stessa ricorda che un breve accenno all’esistenza di John appare nel Diario di Raïssa, a cura di Jacques Maritain.

Durante la sua permanenza con Jacques a New York, Raïssa si affeziona molto a Edith Coleman, mamma di John, nota artista e poetessa. Costei, nel novembre 1943 si fa battezzare: il padrino è Jacques. Pochi mesi prima, all’età di 19 anni, anche John si era fatto battezzare, convertitosi alla fede cattolica dopo aver letto le opere di Jacques Maritain. Dopo tali avvenimenti, su John poco o nulla di più. E anche questo breve libro sotto forma di lettera non arricchisce di molto la sua conoscenza. D’altra parte non era questo l’intento primario della Coleman.

Con realismo ci disvela un mondo ricco di umanità, con i suoi aspetti belli e sofferenti, e una vita di coppia non sempre facile. Senza mai cedere alle emozioni e alla quasi inevitabile idealizzazione di chi non c’è più, la Coleman descrive in particolare il tratto finale della loro vita di coppia. Inaspettatamente, l’irruzione di una diagnosi fatale trasforma la loro esistenza, in modo totale e irreversibile. Colpisce in particolare quella specie di isolamento cui la società, a cominciare dal mondo sanitario, costringe il morente e i suoi cari.

E così, mentre anche quasi tutti i conoscenti e amici «sono costretti» a continuare la loro vita quotidiana e quindi non possono aiutarli, John e Claire vengono lasciati pressoché soli di fronte a questa lunga ed estenuante emergenza. Il lento e sofferente cammino verso l’inevitabile e definitivo distacco lascia trasparire i tratti più profondi delle due personalità, della loro relazione reciproca e di quella con Dio. Su tutto spicca un’affermazione di John, che risale ai primi giorni della loro conoscenza. Con parole che fanno riflettere, confida a Claire che l’unico vero scopo della sua vita è di essere un giorno unito alla Trinità (cfr p. 14).

Nell’attuale fuga dal confronto con il tema della morte, la lettera di questa moglie innamorata si rivela come una confidenza umana per nulla retorica, davvero una forte provocazione per il lettore. È una lettura che non deprime, che dà vita. Così come, molto tempo dopo questa morte, la scrittura dà vita a Claire: «Je ne vis pas pour écrire: j’écris pour vivre. La solitude dans le travail d’écrire, c’est le contraire de l’isolement. C’est une solitude peuplée, bruissante de sons et d’images. Quand j’écris c’est toi, c’est tout ceux que j’aime, c’est le monde entier que vient» (p. 35). E lo scrivere al marito, dopo ben 15 anni dal lutto, non è per lei una terapia, ma è possibile perché ha già avuto luogo la catarsi. Soltanto dopo un lungo tempo Claire può sentirsi consolata, anche se provata per sempre da un evento vitale insopportabile (cfr p. 92).

Ora può confidare al marito che pensare a lui è fonte di grande gioia e che può vivere questa nuova vita nella fiducia che «jour après jour, ta présence m’accompagne sur la route qui reste à faire avant les retrouvailles» (p. 93). Senza necessariamente ridurre tutto questo all’invadente interpretazione psicologica, in realtà è la coscienza cristiana di Claire che le consente di avvertire la presenza del marito, nel tempo che la separa dal successivo reale rincontrarsi. È la speranza cristiana che sostiene nel presente, durante l’assenza fisica del proprio caro. Un piccolo testo che fa bene e di cui sarebbe auspicabile la traduzione in lingua italiana.

Paolo Ricca, pastore valdese già docente di Storia del cristianesimo presso la Facoltà valdese di Teologia a Roma, affronta il difficile tema della morte. Articola la sua riflessione lungo tre piccoli ma intensi capitoli, in cui considera la morte come problema politico, teologico e pastorale. Egli pone in evidenza innanzitutto un paradosso di cui occorre prendere coscienza: «Mai nella storia umana la vita è stata così tutelata legalmente e socialmente, e mai è stata così minacciata, manipolata, mercificata, distrutta» (p. 13). Inoltre, questa stessa società, che produce sempre nuove forme di morte, attua la «rimozione della morte» dalla coscienza collettiva: «La nostra società da un lato produce la morte e dall’altro la desocializza» (p. 16). Il confronto teologico con la morte, invece, si imbatte con un tema centrale nella rivelazione cristiana: la Croce di Gesù e la sua risurrezione.

Nella Bibbia Dio è pensato più al di qua della linea della vita che non al di là del confine della morte e «il discorso su Dio non è collegato alla paura di morire ma alla responsabilità di vivere» (p. 33). Se la morte significa che la vita non è eterna, la risurrezione significa che la morte non è eterna. Ma il problema morte, rimane, solleva domande, mette in gioco e chiama in causa la fede del credente. Il cristiano deve mobilitarsi contro la morte, smascherare le sue manifestazioni, impegnarsi per una sanità e una società che non produca la morte, difendere la relazionalità perché «l’essenza della morte è l’assenza di relazioni» (p. 44). Il testo, denso e infarcito di riflessioni estratte dai classici sull’argomento, si legge con facilità e risveglia la coscienza del lettore.

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