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I.
Arek scivolò lungo la
scanalatura del gigantesco telescopio. Il grande occhio magnetico puntato
contro l'infinito captava senza posa le perturbazioni stellari di
lontanissime nebulose.
Nel buio freddo dell'Osservatorio, Arek rabbrividì. Fin dalla nascita, egli
sapeva come avrebbe dovuto essere l'Universo. Poi era cominciato il
"flagello".
La voce della Gran Madre gli risuonò irritata nel cervello. Da troppo tempo
Arek si isolava per pensare, prima di fare il regolare rapporto. E adesso la
Gran Madre voleva che lui le si accostasse.
Arek non era mai stato vicino alla Gran Madre, eppure ne conosceva
perfettamente l'enorme mole oblunga, giù nella grande caverna. Tutti i Trug
nascevano sapendo le cose che dovevano sapere. E il concetto primo era la
forma e l'infallibilità della Gran Madre.
Arek scivolò lungo il condotto circolare che dall'Osservatorio portava
nella Città. Continuava a sentir risuonare nella mente l'appello imperioso.
Il suo corpo ovale aderì perfettamente alla superficie liscia e
magnetizzata di un condotto, e si lasciò portare, cercando di radunare i
pensieri.
Che ci fosse luce o buio, era per Arek completamente indifferente, per il
semplice fatto che lui poteva appena vagamente ricordare il concetto di
queste parole. Anche i suoni erano solo vaghi ricordi atavici... Forse,
chissà, molti millenni addietro i Trug erano forniti di organi atti a
distinguere e a ricevere tali sensazioni. Forse nella Gran Madre riposava il
ricordo di quei lontani tempi.
Il condotto era pressoché deserto. Pochi, i pensieri di altri Trug
apparivano e si affievolivano subito nella mente di Arek. Per coloro che si
trovavano a passargli accanto, il chiaro appello che suonava nel cervello
del Trug era ordine perentorio di precedenza.
Così Arek doveva soltanto lasciarsi andare. Tra poco avrebbe sentito contro
la sua la pelle della Gran Madre!
Il contatto avvenne, dolce ma deciso. La mente di Arek venne annullata, come
se una spugna bagnata gli avesse cancellato ogni ricordo, ogni volere. Poi
affluirono i concetti della Gran Madre.
II.
Il ramo biforcuto era spazioso e
cedevole. O-Baa si sistemò meglio. Tra le grandi foglie della cima,
ondeggiante nel vento della notte, brillavano i punti luminosi del cielo.
La grande foresta era piena delle voci dei terribili animali in caccia. Il
rauco grido di
Grro, il leone, si alzò poco lontano dall'albero. O-Baa rabbrividì.
Guardò in giù. La poderosa mole di O-Paa, il capofamiglia, accosciato
sulla grande piattaforma dei primi rami, lo rassicurò un poco. Accovacciate
accanto al fortissimo O-Paa stavano le sue femmine: la vecchia O-Maa, la
bella O-Lii, e la piccola O-Ree.
O-Baa si fece scorrere le mani sulle braccia e sul torace. I. suoi muscoli
erano ben poca cosa in confronto a quelli di O-Paa. E la piccola O-Ree
apparteneva a lui.
O-Baa conosceva la Legge. Il maschio più forte della famiglia aveva per sé
tutte le femmine. Per prendergliele bisognava ucciderlo. Ma da tanti anni
O-Paa era il più forte. Da sempre, per quel che lui riusciva a ricordare.
Il lungo barrito di Muu, l'elefante, fece di nuovo fremere O-Baa. Avrebbe
voluto scendere sotto, accoccolarsi come una volta tra le braccia della
vecchia O-Maa, ma ormai non poteva più farlo: O-Paa l'avrebbe ucciso.
Muu urlò più forte, e tutti gli altri rumori tacquero. No, non tutti.
L'orecchio acutissimo di O-Baa percepì un lieve annaspare sulla parte più
bassa del tronco. Guardò giù, raggomitolandosi tutto sul suo ramo. Adesso
il rumore era cessato, e O-Paa sembrava non essersi accorto di nulla. Ma
stavolta la calma di O-Paa non rassicurò più il piccolo. Si era accorto,
negli ultimi giorni, di riuscire ad ascoltare rumori che sfuggivano alle
orecchie del capo famiglia. La bella O-Lii si mosse leggermente.
Intanto, dal cielo, la pallida U-Ua gettò sulle cose il suo sguardo
cinereo. O-Baa si protese di più sul suo ramo. Il buio sotto continuava a
rimanere impenetrabile, eppure O-Baa comprese. Istintivamente si ritrasse su
un ramo più alto, poi la curiosità vinse la paura, e si lasciò di nuovo
scivolare sulla biforcazione.
Adesso la sagoma scura di O-Gaa era visibile tra i rami.
O-Gaa aveva lasciato la famiglia quando le piante stordivano col profumo dei
loro fiori. Era fuggito dopo che O-Paa l'aveva sorpreso troppo vicino alla
bella O-Lii. Quella notte, il piccolo O-Baa aveva cercato di capire. L'urlo
del fiori, l'ansare degli animali, U-Ua alta nel cielo, gli avevano messo in
corpo qualcosa che gli formicolava nelle vene e lo spingeva a strusciarsi
contro la corteccia del suo ramo fino a farsi sanguinare la pelle. Quella
notte lui sentì che avrebbe voluto aver vicino la piccola O-Ree.
O-Gaa era fuggito. Tutti fuggivano di fronte al poderoso O-Paa. Ma adesso
era tornato. Era tornato sapendo che il suo gesto significava la morte di
uno dei due. Il vincitore avrebbe avuto le femmine.
O-Baa arrotò i denti. Quando avrebbe avuto la forza per prendere O-Ree? Lui
era nato, insieme alla piccola, dalla bella O-Lii, nata a sua volta da O-Maa,
e O-Paa aveva difeso i suoi piccoli contro i mortali pericoli della foresta.
Li aveva difesi, pur sapendo vagamente che un giorno avrebbe dovuto lottare
contro di essi per il possesso delle sue femmine. Ma questa era la Legge, e
O-Paa lo sapeva. Lui aveva ucciso il padre in una notte in cui tutta la
Natura sembrava essersi scatenata per rendere più grande la sua lotta. Per
ore e ore si era rotolato con lui in una stretta mortale, e infine lui solo
si era rialzato e aveva avuto O-Maa. Ma erano passati molti anni, molte
volte le piante si erano coperte di fiori, molte volte aveva atteso il daino
steso sul ramo basso di un albero, accanto a una sorgente. Com'era veloce il
daino! Ma O-Paa sembrava volare, e lo raggiungeva sempre. Da qualche giorno
però, le bestiole sembravano avere aumentato la loro agilità. Al tramonto,
O-Paa non aveva raggiunto la preda, e adesso il giovane O-Gaa stava salendo
verso di lui.
Quando O-Paa si accorse del nuovo venuto, era ormai troppo tardi. Il braccio
peloso e duro di O-Gaa si chiuse intorno al suo collo. Il capo famiglia
radunò le sue forze e il suo orgoglio. Una mano pesante come una clava
calò sul viso di O-Gaa. Il giovane urlò ma non allentò la presa. Un dito
di O-Paa gli penetrò, spietato, in un occhio, e cominciò a girare. O-Gaa
urlò in un modo orribile. La foresta tacque come per il grido di Muu. Il
piccolo O-Baa seguiva la lotta, ansando come se lui stesso vi partecipasse.
O-Gaa, nel tentativo di sottrarsi al dito crudele, perdette l'equilibrio e
cadde, trascinandosi dietro, tra un rovinio di rami, il vecchio O-Paa.
Per qualche attimo, Il piccolo O-Baa sperò che fossero morti entrambi: cosi
le femmine sarebbero state tutte sue! Ma presto il rauco grido di vittoria
di O-Gaa risuonò nel buio.
Il vecchio, poderoso O-Paa, era morto. Il grande, valoroso O-Gaa, l'aveva
ucciso! Questo era il senso del grido, alle orecchie del piccolo O-Baa. Ben
presto sentì nuovamente annaspare sul fondo del tronco, ma senza
precauzione, stavolta.
Il piccolo guardò la bionda O-Ree, che tremante di paura stava addossata al
tronco, mentre la bella O-Lii si stirava come una pantera in attesa.
O-Baa prese la decisione più importante della sua vita. Con un balzo fu
sulla piattaforma di sotto, afferrò O-Ree per i fianchi e cominciò ad
arrampicarsi veloce verso l'alto. O-Lii non li degnò di uno sguardo: eppure
questo era contro la Legge!
O-Baa era appena scomparso con la sua bionda preda, che apparve sulla
piattaforma la faccia sfigurata e sanguinante di O-Gaa. Il giovane si issò
sui rami e rimase per un momento eretto davanti a O-Lii. Poi si percosse il
largo petto con un pugno:
- O-Gaa, forte! O-Gaa, capo! — articolò con fatica, e sollevata la bella
O-Lii per i capelli, la strinse fra le braccia.
Cosi O-Baa poté salvarsi. Dai rami superiori dell'albero si lasciò
scivolare su quelli di un altro, e poi di un altro ancora, allontanandosi
nella notte.
Quando O-Gaa, ruotando intorno il suo unico occhio, si accorse della
scomparsa di O-Ree, con un unico salto raggiunse la biforcazione su cui
O-Baa passava la notte e, non trovando nessuno, cominciò a percuotersi il
petto con un sordo rumore. Si lasciò cadere di sotto e prese a scuotere la
bella O-Lii, che a gesti gli spiegò l'accaduto.
O-Gaa grugni di rabbia.
- O-Baa, morte! — sillabò.
La vecchia O-Maa si alzò in piedi e venne verso O-Gaa. Forse voleva tentare
di dissuadere il giovane dalla sua minaccia, ma non poté neppure articolare
un suono, perché O-Gaa, con uno spintone, la scaraventò giù dall'albero.
O-Lii non si mosse. Anche questa era la Legge: O-Gaa era il capofamiglia.
III.
Il biancore dell'alba sorprese
O-Baa e O-Ree, tremanti, stretti l'uno all'altro, accovacciati su un albero
sconosciuto.
Man mano che il sole avanzava nel cielo, O-Baa si andava rendendo conto di
avere ben poche di speranze di salvezza . La foresta era grande, ma O-Gaa lo
avrebbe certamente ritrovato. E lui non aveva nessuna possibilità di
farcela, contro il vincitore di O-Paa! Fece passare una mano sui lunghi
capelli di O-Ree e scopri i denti bianchissimi in un sorriso. O-Ree allungò
una mano a toccargli i denti, e lui la morsicò, piano, con dolcezza,
facendone uscire appena una goccia di sangue che poi succhiò avidamente.
Aveva visto O-Paa fare cosi una notte con la bella O-Lii. Il ricordo della
donna gli riportò subito alla mente O-Gaa che, certamente, stava già
saltando di albero in albero alla loro ricerca.
Camminare sul terreno era estremamente pericoloso e molto più lento, ma
O-Gaa non li avrebbe cercati laggiù, almeno non per diversi giorni. O-Ree
aveva paura, ma O-Baa la convinse.
Il terreno era soffice, elastico, putrescente. Una luce verdastra illuminava
la pelle dei due giovani. Il maschio camminava avanti e la femmina gli
teneva dietro guardandosi intorno con paura. Da un momento all'altro la
morte poteva piombare su di loro in mille forme. Grro il leone, Muu
l'elefante, Soo l'orso bruno, Zee la pantera, Sii il serpente. La paura non
aveva nome, ogni fruscio faceva fremere O-Baa. Tuttavia il maschio cercava
di mostrarsi sicuro: O-Ree doveva avere fiducia in lui.
Blaa, la scimmia, lanciò contro i due una grossa pigna e poi fuggi tra gli
alberi. O-Baa accolse il proiettile e lo soppesò, pensieroso.
La marcia continuò per diverse ore. Un gorgogliare di acqua corrente li
arrestò. Il giovane costrinse O-Ree ad accovacciarsi tra le grosse radici
di un albero, poi, guardingo, cominciò a strisciare verso l'acqua che
scorreva poco lontano. O-Baa ricordava che il vecchio O-Paa si muoveva
sempre con grande cautela, ogni volta che si avvicinava all'acqua corrente.
Tutti gli animali devono bere, e i più forti aspettano al varco i più
deboli.
Scostando gli ultimi rami del sottobosco, O-Baa si affacciò sulla riva del
placido torrentello. Gli alberi intrecciavano i loro rami da una sponda
all'altra, formando un verde soffitto, brillante per la luce del sole ormai
alto. O-Baa scrutò attentamente le due rive, e i grossi sassi che
affioravano qua e là rompendo la molle corrente delle acque. Tutto il posto
parlava di pace. Il grido acuto, lacerante, di O-Ree giunse inaspettato alle
orecchie del giovane. Serrando istintivamente la mano contro la pigna,
balzò in piedi e corse verso la ragazza.
Un grosso rettile giallastro a chiazze nere stava avvolgendo la povera O-Ree
tra le sue spire. Sii, il serpente, si avvinghiava lentamente intorno alla
preda, ben sicuro della sua enorme forza. La testa, vagamente triangolare,
ondeggiava nella danza di morte.
O-Ree ormai non gridava più: gli occhi sbarrati, i muscoli irrigiditi,
pareva non vedere e non sentire.
Sii continuò ad avvolgersi. Forse vide il piccolo O-Baa. Ma cosa poteva
temere da quella scimmietta bianca?.
Fu allora che O-Baa, pazzo di rabbia, di dolore, di paura, si buttò sul
serpente colpendolo con la pesante pigna.
Sii abbandonò subito l'inerte O-Ree e si avvinghiò alle gambe della
scimmietta bianca che era riuscita a fargli male. O-Baa comprese che per lui
ormai non c'era scampo, ma invece di abbandonarsi al terrore, sentì una
forza nuova corrergli su per le arterie. Con una mano afferrò la testa di
Sii, che aveva ripreso la sua danza, e con l'altra afferrò la dura pigna e
colpì, colpì, colpì finché lo sforzo lo sopraffece. La foresta cominciò
a danzargli davanti agli occhi e la notte calò su di lui, ma O-Baa
continuava. a colpire. Gli pareva di non potersi più fermare, gli pareva
che se avesse smesso Sii lo avrebbe stritolato.
Quando tornò in sé, sentì l'acqua fresca scendergli in gola attraverso la
chiostra serrata dei denti. Apri gli occhi. Le azzurre iridi di O-Ree, i
capelli biondi come il sole di O-Ree riempivano il cielo. Dalla bocca di
O-Ree entrava, a forza, acqua nella sua. Le labbra della ragazza premevano
sulle sue nello sforzo di farlo bere. La mano di O-Baa accarezzò le spalle
esili di O-Ree, poi il ricordo di Sii tornò nella sua mente, e lui balzò
in piedi terrorizzato, buttando da un lato la piccola, bionda O-Ree. Fece
alcuni passi. Dietro un cespuglio giaceva, inerte, il lungo possente corpo
di Sii. O-Baa fece un salto indietro, ma poi capì che Sii era morto. Si
avvicinò al serpente e lo osservò. Sii aveva il capo ridotto a un'informe
poltiglia in cui si mescolavano anche scaglie di pigna. Un po' più in là
c'era la pigna semidistrutta. O-Baa toccò Sii. Dapprima con rispetto e poi
sempre più allegro, lanciando piccole grida soddisfatte. Con uno sforzo,
sollevò il lungo Sii e lanciò un altro urlo:
- O-Baa forte! O-Baa capo! O-Baa ucciso Sii!
O-Ree si avvicinò al giovane e gli si strinse contro, dolcemente. Lui
l'aveva salvata dalla morte: adesso lei gli apparteneva anche per la Legge.
O-Baa comprese. Ebbro di gioia, afferrò O-Ree per le spalle e la buttò per
terra. Poi si chinò su di lei e si avvolse il viso dei suoi capelli. O-Ree
si allacciò a lui. La foresta ricominciò a girare davanti a O-Baa. Quella
non era la stagione dei fiori, eppure O-Baa ne udiva lo stordente profumo.
Le sue braccia stringevano O-Ree sempre più forte, senza che lui lo
volesse. Il sangue gli gonfiava le arterie. I suoi muscoli gli sembravano
fortissimi. Nessuno in quel momento avrebbe potuto vincerlo.
La luce si andava ritirando dalle cime degli alberi. La fame colse i due
giovani ancora stesi sulla sponda del torrente. O-Paa cacciava spesso il
daino anche di notte, ma O-Paa conosceva molte astuzie. Però anche O-Baa
conosceva qualcosa. Il giovane entrò nell'acqua fino alle ginocchia e si
chinò per raccogliere un grosso sasso. Lo guardò un poco, lo soppesò e lo
lanciò con forza. Il sasso compì una lunga traiettoria e cadde nel
torrente sollevando un alto spruzzo.
O-Baa scoppiò a ridere e ne lanciò un altro, e un altro ancora. Anche
O-Ree volle provare, ma i suoi tiri erano assai più incerti e più corti.
Il giovane gonfiò i muscoli e indicò alla ragazza un grosso tronco che
sorgeva sulla sponda opposta del torrente. Bilanciò a lungo un pesante
sasso e lo scagliò con forza. Il proiettile colpì il tronco, asportando un
grosso pezzo di corteccia. L'urlo di vittoria di O-Baa risuonò a lungo
sotto la volta, ormai quasi buia, della fitta foresta.
Strani fruscii notturni stavano nascendo intorno ai due giovani. O-Baa,
però, si sentiva assai più tranquillo. Aveva ucciso Sii, e il massiccio
sasso che teneva in mano gli dava uno straordinario senso di potenza: poteva
colpire a distanza!
Poteva forse dare la morte con un solo gesto del braccio! O-Ree gli si
avvicinò tremando. Il contatto col corpo caldo del giovane le diede
fiducia. O-Baa se ne accorse e ne gioì. Ormai era diventato un uomo. I
grandi occhi della ragazza adesso chiedevano che lui facesse il suo dovere.
E il suo dovere era quello di trovare cibo. O-Baa guardò il sasso che
teneva in mano e sorrise tra sé.
I due giovani camminarono per un'ora lungo il greto del torrente, ormai
immerso nell'oscurità della notte. Di tanto in tanto, O-Baa fiutava
rumorosamente l'aria. Così faceva O-Paa per scoprire la pista della
selvaggina e l'aspro odore delle belve. Alla fine il giovane si fermò, e
O-Ree si addossò a lui. L'aria era impregnata dal caratteristico odore di
selvatico. O-Baa costrinse a terra la propria compagna e continuò ad
avanzare guardingo. Dopo pochi metri si fermò. Indovinò il sentiero, più
che vederlo. Bee, il daino, non avrebbe dovuto tardare. O-Baa sapeva che
sarebbe venuto a bere, passando per il consueto sentiero.
Il tempo trascorreva lento. Grro il leone ruggiva, ora vicino, ora lontano.
Anche il leone era in caccia. Quante volte O-Baa aveva invidiato la sua
forza e i suoi artigli! Adesso però si ricordò di Sii: neppure Grro
avrebbe potuto far meglio! Un leggero fruscio attrasse la sua attenzione:
Bee si stava avvicinando.
Il giovane si raccolse pronto allo scatto, poi si distese e soppesò il
sasso. Bee era veloce e lui sapeva che non l'avrebbe mai raggiunto.
Vagamente aveva pensato al sasso fin da principio. Per questo se l'era
portato appresso.
Bee apparve trotterellando sulla pista. L'oscurità, umida, pesante,
silenziosa, aveva qualcosa di teso. Bee si fermò titubante, pronto a una
fuga velocissima. Anche O-Baa tendeva le orecchie a quello strano silenzio.
Grro non ruggiva più... Forse stava acquattato in un cespuglio poco lontano
e teneva i suoi grossi occhi di fuoco fissi su Bee...
Il daino, immobile come una statua, fiutava l'aria. Il dolce effluvio
dell'acqua fresca del torrente gli arrivava a solleticare le nari, secche
per la lunga corsa. La tentazione era forte, per Bee, ma non irresistibile.
Bee era molto sospettoso e prudente. O-Baa sapeva tutto questo e non attese
più. Intuiva, sentiva il punto esatto in cui il daino doveva essersi
fermato: l'oscurità era troppo fitta per distinguerlo con certezza. Ma il
sasso di O-Baa si abbatté pesante, terribile, inaspettato sulla testa del
povero Bee. Il daino crollò al suolo senza un lamento. Morto. O-Baa stesso
si spaventò. Non osò muoversi subito.
Un tonfo sordo lo riscosse dal suo strano stupore. La pallida U-Ua si
infilò nel groviglio dei rami e inargentò la scena. La possente figura di
un uomo sconosciuto era china su Bee, immobile, terrorizzata forse da quel
misterioso sasso piovuto nel buio sul cranio dell'animale.
O-Baa raccolse un'altra pesante pietra: non si sarebbe certo lasciato portar
via la preda senza combattere!
Il lieve tocco di O-Ree lo fece sussultare. Costrinse di nuovo la femmina a
terra, e prese a bilanciare il sasso. La perdita di questi pochi attimi, non
solo salvò la vita di O-Baa, ma accorciò, forse per diversi millenni, il
periodo ferino dell'Uomo.
Lo sconosciuto stava per caricarsi Bee sulle larghe spalle, quando il sordo,
agghiacciante brontolio di Grro si fece sentire a pochi passi da lui. Il
brontolio si spense subito, ma l'uomo sembrava essere diventato di sasso. In
preda alla più completa paura, i suoi muscoli non gli avrebbero più
obbedito, anche se il suo primordiale cervello avesse saputo ancora
formulare dei comandi.
E Grro, sicuro del fatto suo, uscì maestosamente alla luce di U-Ua. Lanciò
un sonoro, breve ruggito, volgendo intorno la testa regale, come a chiedere
se qualcuno osasse avanzare qualche diritto sulla preda che si accingeva a
divorare.
O-Ree sussultava dalla paura, mordendosi le palme delle mani. O-Baa sentiva
i suoi muscoli irrigidirsi dal terrore. Eppure Bee era suo: lo aveva ucciso
lui. Nessuno avrebbe dovuto prenderglielo: questa era la Legge. Ma né Grro,
né l'uomo sconosciuto, avevano capito che era stata la sua mano a uccidere.
Grro si avvicinò all'uomo e al daino a passi lenti. Girò loro attorno,
sferzandosi i fianchi con la coda. O-Baa senti uno strano furore crescergli
dentro: lui aveva ucciso, Bee gli apparteneva! La figura di quell'uomo,
immobilizzato dal terrore dinanzi a Grro, non fece che accrescere la sua
rabbia. Quell'uomo doveva essere molto forte. Al suo confronto lui, O-Baa,
doveva sembrare un cucciolo caduto da un albero.
O-Baa non aveva mai visto Grro. Aveva sentito la paura degli altri e il
brivido sottile nelle notti in cui le sue urla si avvicinavano troppo
all'albero su cui si accovacciava, tra le braccia di O-Maa. All'improvviso
balzò fuori. Grro si fermò interdetto. Arricciò il labbro superiore,
quasi in un sorriso di scherno e di sorpresa. O-Baa fece roteare il braccio.
- O-Baa forte! O-Baa ucciso Bee! O-Baa ucciso Sii! Bee è di O-Baa!
L'uomo, sempre col daino sulle spalle, si voltò verso O-Baa. La sorpresa
dello sconosciuto ebbe il sopravvento sulla paura, perché lasciò scivolare
il daino a terra, distogliendo il suo sguardo dal leone.
In effetti, l'acerba figura di O-Baa appariva ben minuscola in confronto a
quella dell'uomo, e addirittura ridicola se paragonata a quella formidabile
di Grro.
Il leone scosse la criniera, incredulo. Com'era possibile che un cucciolo di
quelle scimmie bianche e spelacchiate osasse sfidarlo? Ma O-Baa non lo
lasciò molto nelle sue supposizioni. Il pesante sasso si abbatté sul muso
di Grro squarciandogli un occhio. L'urlo di dolore del leone fece tremare
tutta la foresta. Soltanto Muu, l'elefante, talvolta resisteva a Grro.
Neppure Soo, il formidabile orso bruno, amava discorrere col temibile Grro.
Un secondo, pesante sasso, calò sul muso del leone proprio mentre la belva
stava per balzare su O-Baa. Un nuovo altissimo ruggito squarciò la foresta.
O-Ree, pallida, sorrise a O-Baa. L'aiuto della ragazza era stato
provvidenziale. O-Baa aveva lanciato il primo sasso seguendo un impulso di
rabbia, irrazionale. O-Ree aveva scagliato il secondo, solo perché la paura
di perdere O-Baa era stata più forte di quella di finire tra le fauci di
Grro. Ma, presi insieme, i due sassi erano qualcosa di più di una reazione
dovuta alla paura: erano un nuovo modo di combattere. Il giovane si chinò e
raccolse una terza pietra. Allora lo sconosciuto comprese e, ormai libero
dal terrore di Grro, si chinò e raccolse a sua volta un sasso. O-Ree lo
imitò. Adesso Grro era in completa balia dei tre: la gragnola ininterrotta
di pesanti pietre lo costringeva a girare in tondo senza lasciargli il tempo
di prendere una qualsiasi iniziativa. I suoi ruggiti sembravano non avere
più effetto su quelle scimmie bianche che ora intravedeva attraverso il
sangue che gli velava gli occhi. Confuso, coperto di lividi e di piaghe, con
un occhio quasi accecato, Grro dopo un ultimo lamentoso ruggito si sottrasse
con un balzo alla lapidazione, sparendo nel buio.
O-Baa lanciò il suo urlo di vittoria. L'uomo si avvicinò al giovane, che
al ritrasse in atteggiamento di difesa, proteggendo col suo corpo O-Ree. Ma
l'uomo scosse vigorosamente il capo. Si puntò un dito sul petto e sillabò:
- O-Too!
O-Baa, diffidente, ripeté il gesto dell'altro e disse il suo nome. O-Too
puntò il dito verso il giovane.
- O-Baa piccolo ma grande! O-Too non volere sua femmina. O-Too capo, O-Too
tante femmine, ma O-Baa più forte di O-Too, O-Baa vinto Grro.
Questo lungo discorso sembrò aver stancato lo sconosciuto. Aprì ancora la
bocca per parlare, ma sembrò non trovare le parole. Si avvicinò a O-Baa e
gli tese le mani a palma in su. Il giovane distese le sue su quelle
dell'uomo, che grugnì di soddisfazione. Forse per la prima volta nella
storia del mondo, due uomini si erano toccate le palme delle mani in segno
di amicizia. O-Too indicò Bee e poi ancora O-Baa:
- Bee è di O-Baa. O-Baa ucciso Bee!
Il giovane si avvicinò al daino e lo sollevò con evidente sforzo,
portandolo verso O-Too. Lo posò a terra e, coi denti, aprì la vena
giugulare dell'animale. Il sangue ancora caldo della bestia prese a
sgorgare. O-Baa Invitò O-Too ad accostare le labbra alla ferita. L'uomo
ubbidì e bevve un lungo sorso, poi fu la volta di O-Baa e infine di O-Ree.
U-Ua si ritirò lentamente e il buio fitto tornò a regnare sul teatro di
tanti avvenimenti.
O-Too si picchiò il petto con un pugno, brontolò, grugnì e poi,
all'improvviso, si allontanò tra gli alberi.
I due giovani furono ancora soli. Soli: non si erano mai accorti di esserlo.
Il maschio con la sua femmina, o con le sue femmine. Il maschio coi suoi
piccoli, mai un maschio con un altro maschio.
Tirarono il corpo del daino sui primi rami di un albero e, nel silenzio
della notte, consumarono il loro primo pasto da quando erano diventati una
famiglia.
IV.
Vennero sorpresi dall'alba,
strettamente abbracciati. O-Baa scese dall'albero. Cominciava a preferire
spostarsi sul terreno col solo uso delle gambe, ai lunghi salti da un ramo
all'altro degli alberi.
Tornò sulla sponda del torrente e cominciò ad esaminare i sassi che via
via trovava. Durante la notte aveva ragionato sul suo combattimento con Sii
e Grro, e aveva deciso di non lasciarsi mai più sorprendere senza sassi a
portata di mano.
L'attenzione di O-Baa fu presto attratta da una pietra appuntita,
stranamente assomigliante alla pigna con cui aveva ucciso Sii. Il giovane
l'afferrò e si accorse che le sue dita aderivano perfettamente a una specie
di manico che spuntava dal sasso, levigato nei secoli dalle acque.
O-Baa alzò il pugno armato e di nuovo si sentì invincibile. Dopo un'ora di
cammino lungo il greto del torrente, i due giovani sbucarono sul bordo di
una sterminata zona pianeggiante, quasi completamente sgombra di alberi.
O-Baa, che serrava sempre nel pugno il sasso del torrente, si fermò
interdetto. La pianura verdeggiante, priva di alberi e quindi di ripari, gli
diede un senso di sgomento.
Lunghe erbe spuntavano a ciuffi radi e il torrente vi si perdeva. Vaghi
luccichii qua e là, nel verde, rivelavano dovunque la presenza di acqua.
O-Ree chiuse le palpebre al sole che le batteva sfacciatamente sul viso,
come mai nella foresta. La linea del bosco continuava da una parte fino
all'orizzonte. O-Baa sentì la curiosità di seguirla. Non avrebbe mai osato
addentrarsi nella pianura, ma nello stesso tempo quel verde a vista d'occhio
esercitava su di lui uno strano fascino.
Il terreno cedevole, intriso d'acqua, conservava profondamente le loro orme.
I rumori della foresta parevano disperdersi di fronte a quell'immenso vuoto.
Sciacquii, gracidii, tonfi, li avevano sostituiti.
O-Ree si fermò. Perché continuare? Perché non rientrare nella foresta? Ma
O-Baa la spinse rudemente. Non avrebbe saputo rispondere altrimenti.
Un lungo barrito sonoro si alzò nell'aria, seguito da un altro. O-Baa si
arrestò: Muu, l'elefante! A volte si sentivano le sue grida dagli alberi
della foresta; O-Paa raccontava di averlo visto un giorno immerso in uno
stagno e indicava un grosso albero per dare un'idea della sua mole. Però
Muu attaccava difficilmente, se non aizzato.
O-Baa rassicurò O-Ree con un basso grugnito e continuò ad avanzare.
Sentiva dentro di sé un desiderio nuovo, quello di conoscere. Strinse il
sasso appuntito e allungò il passo.
A cento metri da lui, gli apparve all'improvviso una grande placida pozza
d'acqua. O-Baa non ne aveva mai vista tanta insieme. Alcuni elefanti vi si
erano immersi e barrivano fiutando l'aria. I bestioni erano immensi.
Lunghissime zanne, fortemente ricurve, uscivano ai lati delle massicce
teste. Lunghi peli lisci ricoprivano i loro corpi. Proboscidi grosse come
tronchi si arrotolavano e stendevano continuamente.
O-Ree, tremando, si addossò al suo maschio. O-Baa si sentì inerme davanti
ai pachidermi. Anche il suo sasso era diventato una ben misera cosa. Il
branco si sparpagliò sulle rive dello stagno. All'improvviso, un grosso
maschio si fermò e annusò l'aria. I due giovani si sentirono morire. Muu,
però, non si mosse nella loro direzione, trotterellò verso un grosso
cespuglio. Alzò la proboscide e barrì. Stavolta l'urlo suonò terribile.
Non era più un grido di soddisfazione: ira, paura e sfida vibravano
insieme.
Il terreno rombò, quando il pachiderma partì al galoppo verso il
cespuglio. Prima che Muu arrivasse a calpestarlo, un bolide giallo scattò
contro di lui. L'animale piombò sul muso di Muu, trattenendosi con gli
artigli.
O-Baa non aveva mai visto lo strano animale giallo. Gli ricordava un poco
Zee, la pantera, ma era almeno quattro volte più grosso. Larghe strisce
nere gli correvano sulla schiena. Dal muso uscivano molti denti larghi e
ricurvi.
Muu barrì di dolore, mentre gli artigli della belva si piantavano sempre
più profondamente nelle sue carni. Gli orribili denti a sciabola del felino
aprirono una grande ferita nella testa di Muu, che cominciò a scuotere il
capo, lanciando intorno grandi spruzzi di sangue. La belva gialla non mollò
la presa, ma alla fine Muu riuscì ad afferrarla con la proboscide. Con la
sua terribile forza, il pachiderma la staccò dalla propria carne, pur
rimettendoci larghi brandelli sanguinanti che restarono appesi ai lunghi
artigli dell'avversario.
Con un ultimo sforzo, Muu lanciò il nemico contro il suolo con inaudita
violenza, poi in un baleno gli fu sopra con le pesanti zampe. Pazzo di
dolore, Muu continuò a calpestarlo per diversi minuti, finché le forze non
gli vennero meno e, con un ultimo barrito, soffocato da un rigurgito sangue,
si abbatté sulla belva ormai ridotta a un'informe poltiglia.
Gli altri elefanti continuarono a giocare nell'acqua come se nulla fosse
avvenuto.
O-Baa si allontanò pensieroso. Lui, con l'aiuto di O-Too e di O-Ree, aveva
messo in fuga Grro. Senza di loro ci sarebbe mai riuscito. Muu era morto, ma
se i suoi compagni fossero intervenuti, adesso il bestione sarebbe tornato a
giocare nell'acqua in mezzo a loro. O-Baa scosse la testa. Non aveva mai
pensato tanto. Volse lo sguardo in giro e abbracciò il grande, libero
orizzonte: nemmeno i suoi occhi avevano mai spaziato su tanta terra con un
solo sguardo.
Afferrò O-Ree per un braccio e tornò dentro la foresta.
Camminava da forse dieci minuti, quando una sagoma scura piombò a poca
distanza da lui. O-Ree lanciò un urlo di terrore: O-Gaa Stava davanti la
loro. L'uomo li fissò con il suo unico occhio e arricciò un labbro in
segno di sfida. O-Baa alzò il suo sasso. Sapeva di non avere speranze
contro O-Gaa, e non osava lanciare la pietra per paura di mancarlo.
O-Gaa cominciò ad avvicinarsi, con la sua andatura ciondolante. O-Lii fece
capolino attraverso le foglie di un albero.
O-Baa lanciò la pietra che colpi l'uomo su una spalla, strappandogli un
grido di dolore e di sorpresa. O-Gaa, guardò il giovane che gli aveva
rubato una delle sue femmine e poi si osservò intorno, come per capire che
cosa lo avesse colpito. Infine scosse il capo, si leccò la spalla contusa e
sanguinante, e riprese ad avanzare. Per O-Baa non c'era alcuna possibilità
di difesa.
Proprio nel momento in cui le mani enormi di O-Gaa stavano per calare sul
giovane, un grosso sasso solcò l'aria, fischiando. L'uomo, colpito alla
nuca, si abbatté come un tronco schiantato dal fulmine. O-Baa non si mosse.
Lo stupore lo irrigidì.
Dal bosco emerse O-Too con le palme tese in avanti. Dietro di lui un gruppo
di cinque femmine.
O-Baa capì. Se O-Too non fosse intervenuto, lui avrebbe fatto la stessa
fine di Muu. Ma O-Too era intervenuto, come lui era intervenuto salvandolo
da Grro.
Dall'albero scivolò al suolo la bella O-Lii e andò a stringersi contro il
corpo muscoloso di O-Too: lui aveva ucciso il suo maschio, quindi quello era
il suo nuovo padrone. Ma O-Too la spinse contro O-Baa. Il giovane sorrise.
O-Lii rimase ferma accanto a lui: non capiva. O-Too fece un gesto verso il
bosco, e allora O-Baa vide altri due grossi maschi della sua specie, seguiti
dalle rispettive femmine. I due, diffidenti e pronti all'attacco,
osservavano la scena. O-Too puntò il dito verso O-Baa.
- O-Baa — sillabò — O-Baa vinto Grro! O-Too salvato da O-Baa! O-Baa
salvato da O-Too! — e stese le palme verso l'amico, che le toccò con le
sue.
I due maschi avanzarono un poco. Non capivano, ma erano curiosi.
O-Too parlò di nuovo.
- O-Too ucciso O-Gaa! O-Gaa, nemico di O-Baa, O-Gaa nemico di O-Too! O-Too
dà femmina di O-Gaa a O-Baa! — e spinse ancora di più O-Lii verso il
giovane. O-Baa sorrise all'amico. Aveva accettato il dono. Il primo dono
fatto da uomo a un altro uomo.
Gli altri due maschi, rassicurati, avanzarono ancora. O-Baa scorse allora
che ognuno di essi portava in mano un grosso sasso. O-Too sorrise a O-Baa.
Poi stese le palme verso i due maschi:
- O-Too non vuole le femmine di O-Pee! O-Too non vuole le femmine di O-Taa.
I due maschi sillabarono piano:
- O-Pee non vuole le femmine di O-Too! O-Pee non vuole le femmine di O-Baa!
- O-Taa non vuole le femmine di O-Too! O-Taa non vuole le femmine di O-Baa!
I quattro maschi, in mezzo alla radura, si sfiorarono le palme. O-Too
parlò:
- I nemici di O-Baa sono nemici di O-Too! I nemici di O-Pee sono nemici di
O-Too! I nemici di O-Taa sono nemici di O-Too!
La dichiarazione venne ripetuta da tutti. E O-Too parlò di nuovo:
- O-Baa scaglia pietra, O-Too scaglia pietra, O-Pee scaglia pietra, O-Taa
scaglia pietra! O-Too paura di Grro, O-Baa paura di Grro, O-Pee paura di
Grro, O-Taa paura di Grro! O-Too con O-Baa con O-Pee con O-Taa, non paura di
Grro!
A quattro maschi raccolsero le rispettive pietre e si incamminarono con le
loro femmine, a poca distanza gli uni dagli altri: era nata la società.
In breve, Il clan degli Scagliapietre divenne famoso nella foresta e nessuno
poteva resistere loro. I figli dei primi quattro andarono a ingrossare il
clan e, aiutati da tutti, uccisero i maschi isolati per appropriarsi delle
loro femmine. Allora gli altri maschi si riunirono in un altro clan.
La Storia era cominciata.
I clan, ingrossandosi, elessero un capo e divennero tribù. Le tribù si
moltiplicarono e la terra non bastava mai. Allora si stabilirono su una
certa estensione e la difesero contro tutti: cosi nacquero gli Stati.
Poi gli Stati si ingrandirono e si combatterono, si fusero e si separarono,
finché ne rimase uno solo, uno solo su tutto il pianeta.
Allora gli uomini conquistarono gli spazi e si impadronirono delle energie
della materia. Questo unico Stato aveva la sua capitale in una grande isola,
la più grande della Terra, un'isola chiamata di volta in volta Isola di Mu,
Atlantide, Antartide, e con altri nomi ancora.
V.
La Gran Madre si ritrasse di
qualche centimetro, e Arek tornò in sé. Gli pareva di aver vissuto
millenni interi nel corpo di strani esseri dotati di sensi assai diversi da
quelli della sua razza.
Li aveva seguiti dalle origini, su fino alla conquista degli spazi, ma non
capiva assolutamente né dove questi esseri fossero vissuti o vivessero, né
perché la Gran Madre avesse voluto raccontargli tutta quella storia.
Lui, Arek, doveva tornare all'Osservatorio. Il grande telescopio magnetico
avrebbe potuto registrare il formarsi di altre catene di supernove e forse
registrare un aumento del pericolo!
Il pensiero della Gran Madre suonò chiaro nel cervello del Trug.
- Arek, non ho finito. Ho solo voluto che ti riposassi. In questo momento
altre milleduecento catene di supernove sono scoppiate nelle nebulose a
venti miliardi di millenni luce, nella zona 1127/C.
Arek ebbe un fremito: venti miliardi di millenni-luce! Non erano mai state
così vicine. E il fenomeno si spostava senza leggi apparenti, a una
velocità assolutamente incalcolabile, se pure di velocità di trattava!
La Gran Madre continuò, senza emozione:
- So bene il pericolo che corriamo. Ma tranquillizzati, non è la prima
volta. Con questo non voglio dire che arriveremo in tempo, solo che ci sono
ottime possibilità di arrivarci.
- Arrivare dove? - chiese Arek, ma la Gran Madre ignorò la domanda e disse:
- Hai vissuto con gli esseri che ti ho mostrato... Che pensi di loro?
Arek si annebbiò, poi divenne quasi luminescente, alla fine concentrò il
suo pensiero sugli esseri con due gambe e due braccia.- Gran Madre, hanno
lottato per avere il loro mondo. Sono strani. Soprattutto non capisco quel
loro affannarsi per potersi stringere con un loro simile. Sembra che questo
sia il massimo scopo della loro vita... Tuttavia mi sono piaciuti.
- Bene - disse la Gran Madre nel cervello di Arek. - Anche a me erano
piaciuti. In quanto a quel loro stringersi, che ti ha lasciato perplesso, ti
dirò che sono degli animali bisessuati, ecco tutto.
All'improvviso il corpo della Gran Madre tornò a sfiorare dolcemente quello
del Trug. Arek si senti di nuovo invaso da una sensazione di annullamento.
Il suo cervello tornò limpido e le immagini ricominciarono ad apparire.
VI.
Tutto era pronto da diversi anni. I grandi radiotelescopi elettronici
registravano, da un decennio, i segnali dei grandi satelliti artificiali.
Ormai lo spazio non era più un mistero totale. Radiazioni, raggi X, raggi
cosmici, ultravioletti, erano stati profondamente studiati dai satelliti
telecomandati.
Luhna, alta nel cielo, a una distanza media di 187.000 chilometri, aspettava
gli uomini. Ma gli uomini volevano essere sicuri.
L'alba sorse sul grande altopiano artificiale. Quasi volesse restituire la
punta al vecchio monte, spianato per costruire l'astroporto, un gigantesco
missile si ergeva là in cima brillando alle prime luci dei giorno.
Una squadra di uomini stava lavorando alacremente per togliere l'ultima
incastellatura.
Era l'alba del I Periodo dell'anno 3258 di Anthin.
Dalla cima del missile si potevano scorgere, a nord, i luccichii dell'Oceano
Atlantico, mentre a sinistra si evidenziava una linea scura: la lunga
penisola di Gramh. A ovest, l'oscurità ancora non permetteva di scorgere le
acque del Grande Oceano. A sud, il chiarore vivissimo di Sylva, la capitale,
si rifletteva nel cielo. Sylva era anche la Città per antonomasia. In tutto
il pianeta non esisteva nulla di simile. La sua popolazione superava i cento
milioni di anime, i suoi palazzi gareggiavano con le nubi, a cinquecento
metri di altezza. Sylva distava dall'astroporto, sorgente sul monte Ulmer,
più di mille chilometri. Si affacciava sul Grande Oceano sdraiata sul fondo
di un immenso golfo. Ad est, dove il cielo cominciava a tingersi di rosso,
si estendeva la maggior parte del continente. La grande Isola degli Anthin,
il centro della civiltà terrestre, l'evolutissima Atlantide.
Tagliata in mezzo dalla linea dell'equatore, fin dal tempi più antichi che
si perdevano nella foschia della preistoria, era stata teatro dei maggiori
eventi umani. Eventi che, uno scalino alla volta, stavano per condurre
l'uomo nello spazio. Il resto del pianeta, quasi interamente coperto dalle
acque e da giganteschi vulcani, era scarsamente popolato. Da 3258 anni, gli
Atlantidi erano riuniti in una sola grande nazione sotto la dinastia degli
Anthin.
Le grandi maree prodotte da Luhna, non erano molto sensibili sulle coste
della grande isola.
Abolite le guerre interne, gli Atlantidi non avevano mai sentito il bisogno
di combattere le tribù selvagge abitanti in altre parti del globo, e cosi
il pianeta Terrah faceva placida mente il giro intorno a Shol nel corso di
lunghi duecentotrentuno giorni e altrettante notti.
Shol aveva percorso appena un quarto del suo cammino nel cielo, quando i
motori atomici del Luhnic, il missile del monte Ulmer, avviarono le loro
reazioni. Cinquecento milioni di Atlantidi seguivano le varie fasi della
partenza dai loro grandi televisori.
Anthinea LXII, imperatrice di Atlantide, seguiva da una delle casematte
dell'astroporto lo scatenarsi delle forze atomiche nel ventre plumbeo del
missile. Un grande elicottero a pale l'aveva trasportata ai tremilaottocento
metri dei monte Ulmer nel cuore della notte.
Il tecnici e gli scienziati erano eccitati e scortesi. Per la prima volta
nella storia del mondo, un oggetto terrestre stava per essere lanciato fuori
della gravità del pianeta.
Sul missile non c'era nessuno: solo una quantità di perfezionatissimi
apparecchi, che avrebbero comunicato agli uomini tutti i dati necessari per
il primo vero viaggio interplanetario.
Il Luhnic si staccò dal suolo, scavando una profonda voragine nel cemento
armato dell'astroporto. Nell'intero continente gli uomini trattennero il
fiato. Tutti sapevano che la fase più delicata dell'operazione era il
superamento dei primi mille chilometri.
In pochi minuti, il missile si mise in rotta. Il suo moto era continuamente
accelerato fino a raggiungere la velocità di fuga, poi i motori si
sarebbero fermati e il missile avrebbe proceduto per inerzia, rallentando,
fino a venire poi agganciato dall'attrazione di Luhna. In spirali sempre
più larghe, il Luhnic prese a girare intorno a Terrah. Avrebbe impiegato
trentasei ore per raggiungere la velocità di fuga.
Per questo, un anziano imponente per statura e portamento, si avvicinò ad
Anthinea LXII.
- Anthinea, quello che si poteva vedere, l'abbiamo visto. Ora non resta che
incollarci
al radiotelescopi e ascoltare. Ti terremo informata, naturalmente, ma adesso
ti conviene rientrare a Sylva.
Anthinea si scosse e sorrise un po' al vegliardo. L'imperatrice era forse
anche più anziana del suo interlocutore, ma dai suoi occhi azzurri si
sprigionava una luce fulgida di vivacità e intelligenza.
Aiutata dal pilota dell'elicottero, Anthinea si alzò.
- Hai ragione, Clitoh. E inoltre quest'aria cosi ricca di ossigeno non si
confà più ai miei polmoni... - L'imperatrice mosse alcuni passi, poi si
voltò verso il vecchio.
- Clitoh - disse - grazie!
Il vecchio arrossì come un bambino. Anthinea sorrise ancora.
- Grazie in nome dei popoli di Atlantide. Tu oggi li hai tolti dalla
schiavitù di Terrah!
Lo scienziato arrossì ancora di più e chinò il capo, con reverenza.
- Gloria a te, Imperatrice! Poiché sotto il tuo Impero, Iddio ha concesso
che l'uomo cominciasse a scuotere le sue catene.
Anthinea salutò con un cenno della testa, poi si volse al suo pilota:
- Andiamo Than, aiutami!
- Appoggiati a me, Imperatrice.
La coppia usci dalla casamatta. Poco dopo il radiotelescopio cominciò a
captare i segnali del missile. Tutto funzionava alla perfezione, solo la
velocità era leggermente in eccesso.
Dal ventre del Luhnic miliardi e miliardi di atomi cedevano la loro
spaventosa energia e fornivano al veicolo spaziale la spinta necessaria.
Nel buio dello spazio, il missile continuava a lanciare i suoi segnali. Su
tutta la superficie di Atlantide gli abitanti seguivano la sua corsa con la
stessa ansia che se fossero stati a bordo.
Dopo trentasei ore il missile aveva raggiunto la velocità di fuga. Clitoh
si accorse subito che qualcosa non andava. L'oggetto sfuggiva alla gravità
terrestre, ma non sarebbe stato catturato da Luhna: la sua velocità era
eccessiva.
Nervosamente impostò i dati del calcolatore elettronico e i risultati gli
diedero ragione. Il missile sarebbe passato a seimila chilometri da Luhna e
poi avrebbe continuato la sua corsa attraverso il Sistema solare. Nonostante
il piccolo errore, questa non era una sconfitta: in fondo l'obiettivo
principale era stato pienamente raggiunto, e adesso il Luhnic non sarebbe
mai più tornato su Terrah. Quasi impossibile calcolare la deviazione
datagli da Luhna, comunque il missile si sarebbe, prima o poi, messo in
un'orbita ellittica intorno a Shol; oppure sarebbe precipitato sull'astro in
una vorticosa spirale.
Clitoh si alzò. Indubbiamente il mondo conosceva ormai l'esito
dell'impresa: centinaia di scienziati avevano certamente fatto gli stessi
suoi calcoli ed erano giunti alle stesse conclusioni.
Si avvicinò alla grande vetrata e guardò in alto. Shol splendeva ancora
nel cielo, prossimo al tramonto. Tra poco sarebbe sorta Luhna. L'armonia
affascinava Clitoh. Ora l'uomo avrebbe dovuto sapersi inserire in quella
musica senza scompigliare nulla. Ma l'uomo era pronto. La grande astronave
era già nei cantieri. L'immenso motore atomico sarebbe presto entrato in
azione e l'uomo avrebbe volato tra gli astri.
Un'idea strana affiorò nella mente del vecchio. I corpi celesti si muovono
in base alle loro leggi, notissime nei loro effetti ma assolutamente oscure
nelle loro cause. L'uomo stesso avrebbe cominciato a muoversi egli pure con
gli stessi effetti, ma l'origine della sua forza poggiava su basi totalmente
estranee all'armonia dei cieli. L'uomo sarebbe passato con la forza. L'uomo
avrebbe infranto le barriere gravitazionali, le sue parabole sarebbero state
artificiali, obbligate.
Nell'altissima, metallica reggia
degli Anthin, si festeggiava la riuscita del lancio del Luhnic.
Invitati d'onore, tre uomini: Reeh, Alstoh e Brenh. I tre che avrebbero
assai presto affrontato lo spazio; i tre uomini che le macchine
selezionatrici avevano ritenuto più idonei alla grande avventura.
I redattori dei giornali visivi, murali e teletici assediavano i futuri
astronauti.
Tutti potevano avere accesso alla reggia. Tutti coloro che fossero riusciti
a farsi largo nella calca della folla che riempiva il piazzale antistante.
D'altra parte la festa dilagava dalla reggia per tutte le strade e le case
di Sylva. Gli ultimi aerobus vomitavano sui lungomare e sulle terrazze dei
palazzi del centro vere e proprie fiumane di curiosi, desiderosi di
partecipare alla festa.
Anthinea LXII, assisa su di uno scranno di plastica azzurra, portava sulla
fronte i simboli dell'Impero: un triangolo d'oro in campo celeste.
La vecchia imperatrice fece vagare il suo sguardo sulla fuga di saloni che
si dipartivano a raggiera dalla sala del trono, tutti pieni di gente di ogni
età, che si abbandonava alla più schietta allegria. Tra loro c'erano anche
i tre uomini che avrebbero per primi sfidato lo spazio. Li cercò con lo
sguardo, e il tumultuoso cerchio di giornalisti che li circondava le
facilitò le ricerche.
D'un tratto però il cerchio si ruppe, ondeggiò, si riformò, mentre il
vocio andava crescendo.
Anthinea si alzò in piedi con evidente sforzo. Qualcuno portava a braccia
un uomo, svenuto, fuori dalla calca. Quell'uomo era Reeh!
Anthinea pregò una guardia d'onore di sorreggerla e si diresse verso la
sala medica in cui Reeh era stato trasportato.
La festa proseguì, come se nulla fosse accaduto. Milioni di Atlantidi
brindarono alla loro civiltà imperitura. Avevano abolito le guerre, le
diversità sociali di ogni genere, il denaro. Anthinea, l'imperatrice, era
esattamente uguale a qualsiasi cittadino, e ognuno poteva parlarle come se
si fosse trattato di una qualsiasi vicina di casa. Le cariche erano
puramente onorifiche e lo Stato si reggeva con la democrazia diretta, resa
possibile dalle meravigliose macchine selezionatrici e dalle calcolatrici
elettroniche che erano in grado di sondare l'opinione pubblica per la
decisione di qualsiasi problema. Ogni atlantide era quindi deputato di se
stesso, in un parlamento grande come la Nazione.
Erano ben degni di balzare nello spazio. Cosa potevano temere?
Il pianeta Terrah avrebbe girato intorno a Shol ancora per miliardi di anni
e quando il gelo e il fuoco l'avrebbero ucciso, gli Atlantidi sarebbero
stati ormai padroni dell'intera Galassia, forse di tutto l'Universo.
E gli Atlantidi, popolo felice, brindarono e brindarono per tutta la notte.
L'alba sorprese Sylva ancora piena di risa e di canti.
Le macchine selezionatrici tacevano e avrebbero invece dovuto trasmettere
parole di morte. Di una morte minacciata da un nemico irraggiungibile,
invincibile, che lottava per la propria sopravvivenza. Ma le macchine
tacquero perché nessuno poté ricevere le parole di Reeh.
Anthinea LXII seguì subito il futuro astronauta, inspiegabilmente svenuto.
Per tutto il giorno l'imperatrice aveva avuto strani presagi che la sua
mente razionalissima aveva respinto in fondo al cuore.
Reeh stava sdraiato su una barella di gas compresso. Il suo corpo si trovava
così nel riposo assoluto. Un medico osservò l'astronauta e sorrise:
- Non è nulla. Probabilmente si è stancato di rispondere a tutte le
domande dei giornalisti! Vero, Reeh?
Reeh aprì gli occhi ma non
sorrise. Girò lo sguardo attorno come se non capisse dove si trovava,
balbettò qualcosa di indistinto. Il medico rise e gli fece passare una mano
tra i capelli.
- Ci hai fatto prendere un bello spavento!
Stavolta Reeh sorrise. Poi alzò una mano e se la guardò con curiosità.
Infine si mise a sedere. Il medico premette un bottone e il gas della
barella cominciò a disperdersi. Reeh finì su pavimento. L'astronauta rise.
Anthinea si sentì correre un brivido lungo la schiena.
Presto il medico e i pochi curiosi che erano riusciti a entrare se ne
andarono. Solo l'imperatrice rimase, appoggiata alla guardia che l'aveva
accompagnata; sedette su una poltrona e pregò la guardia di andare via.
L'uomo ubbidì.
Appena rimasero soli, Reeh tornò serio. Provò a muovere alcuni passi, ma
dovette sostenersi per non cadere. Poi, pian piano, sembrò ricuperare le
sue facoltà. Una fitta dolorosa serpeggiò nel cervello dell'imperatrice e
un lampo di stupore negli occhi di Reeh. Anthinea osservò l'uomo con
un'espressione molto simile al terrore. Infine Reeh mosse le labbra e
lanciò un piccolo grido; poi sorrise e parlò. La sua voce suonò
stranamente chiara, limpida, senza cadenze né inflessioni. Una voce senza
emozione. Pareva provenire da un mondo privo di suoni.
- Tu sei Anthinea LXII, imperatrice di Atlantide e questo è l'anno 3258
dell'era degli Anthin?
La vecchia assentì. Fissò il suo sguardo acuto e luminoso negli occhi di
Reeh, e capì che Reeh non c'era più.
- Tu chi sei, straniero? Da dove vieni, che vuoi da noi?
Reeh rimase silenzioso, poi si decise.
- Il mio nome non è fatto per essere pronunciato. Se vuoi, puoi chiamarmi
Mafaus, tanto per capirci. Da dove vengo non saprei spiegartelo perché
anch'io ho le idee piuttosto confuse su questo punto. Però vengo certamente
da un altro mondo. Che cosa voglio da voi, è semplice: che moriate.
Anthinea si chinò verso colui che si faceva chiamare Mafaus. L'uomo che era
stato Reeh ora parlava freddamente di morte. Di dar morte a tutto il
pianeta!
Anthinea si mantenne calma.
- Mafaus, perché dovremmo morire?
Reeh si passò una mano sui capelli. Sembrò così umano, quel gesto. Ma si
trattava solo d'un riflesso involontario di quel corpo, ormai ospitante una
mente del tutto estranea.
- Neanche a questo so rispondere con precisione, imperatrice! So solo che
sono venuto per farvi morire. Se non morite voi, moriranno i miei simili. E'
una legge universale, questa. Spero che la capirai!
- Posso capirla, Mafaus. Solo, non immagino come noi si possa essere un tale
pericolo per i tuoi simili. Noi non facciamo guerre, e il messaggio che ci
accingiamo a portare nello spazio è esclusivamente un messaggio di pace.
Reeh scosse il capo.
- Non credo che tu possa capire. Nessuno lo potrebbe. Siete ancora troppo
arretrati. Voi usate energie della Natura senza neppure pensare alle
conseguenze che questo può avere nell'Universo.
Anthinea LXII si eresse, radunando tutte le sue forze.
- Straniero, ci insulti senza conoscerci. Vieni qui a parlare di morte e io
ti sto ad ascoltare perché mi hanno insegnato che è diritto di tutti
esporre liberamente le proprie idee. Però tu minacci, e io posso farti
annient...
Anthinea LXII cadde pesantemente al suolo. Era morta prima di finire la
frase. Reeh, impassibile, uscì dalla sala.
VII.
Sul monte Ulmer l'astroporto era inondato dalla luce di grossi globi
fluorescenti. Tutto il continente era stato di nuovo collegato
televisivamente con l'astroporto. L'evento più importante da quando il
primo animale era uscito dall'acqua per respirare aria, stava per compiersi
nel misterioso disegno della Vita: l'uomo abbandonava il Pianeta, l'uomo si
accingeva a valicare gli abissi dello spazio.
La morte di Anthinea LXII aveva
gettato tutto il popolo in lutto. La vecchia imperatrice era stata una gran
donna, sotto il suo impero l'umanità si era avvicinata alla realizzazione
del suo sogno. Il destino aveva però voluto privare l'imperatrice della
gioia di assistere al primo tentativo, il destino non le aveva lasciato
inaugurare la nuova era, quella spaziale. Il destino. Così pensavano tutti
in Atlantide, ma nessuno supponeva che il destino si chiamasse Reeh e fosse
assai più crudele di quanto mai avessero pensato.
Anthinea LXIII era una giovane donna sul vent'anni. Bellissima, pronipote
della defunta imperatrice. Ora la giovane era accanto a Clitoh, nella stessa
casamatta in cui pochi mesi prima Anthinea LXII aveva assistito al lancio
del Luhnic.
Reeh, Alstoh e Brenh attraversarono il piazzale. Vestivano attillate tute di
plastica e portavano il casco buttato dietro le spalle. La mole paurosa
dell'astronave rendeva ridicolmente piccole le pur notevoli e muscolose
figure dei tre uomini. Nessuno li accompagnava. Erano tre uomini soli. Già
staccati dal pianeta, già imbarcati in un'avventura che a tratti sembrava
addirittura inumana.
Anthinea si riscosse: guardò le tre figure avanzare verso il cono d'acciaio
puntato contro il cielo. Si sentiva orgogliosa di appartenere al genere
umano!
Mentre Clitoh si chinava sui suoi apparecchi, l'imperatrice corse fuori.
Attraversò lo spazio illuminato e si buttò fra le braccia di Brenh. L'uomo
la strinse a sé, commosso, e Anthinea lo baciò a lungo sulla bocca. Poi
baciò Alstoh, e fu la volta di Reeh. Le labbra dell'uomo non si mossero
sotto la dolce pressione di quelle di Anthinea, rimasero fredde.
Inspiegabilmente, l'imperatrice ebbe paura. Si staccò dall'uomo e lo
guardò negli occhi. Reeh cercò di dare espressione al suo sguardo, ma
scoprì ancor più l'abisso che lo divideva dagli esseri di cui portava le
sembianze. Anthinea arretrò. Reeh rimase un attimo indeciso se sopprimerla
o meno, poi pensò che avrebbe destato troppi sospetti e salì di corsa
sull'elevatore che lo avrebbe portato al portello dell'astronave. Alstoh e
Brenh seguirono il compagno.
I tre uomini erano già entrati nello scafo affusolato e lucente alla luce
dei globi al fluoro, quando Anthinea urlò. Accorsero alcuni uomini addetti
alla rimozione delle incastellature, e Anthinea svenne nelle loro braccia.
L'ora fissata per la partenza dell'astronave non poteva essere rimandata per
nessun motivo. Sarebbero occorsi giorni per calcolare la nuova rotta se
l'apparecchio non avesse lasciato Terrah all'ora fissata.
Tuttavia lo svenimento dell'imperatrice sembrò un così cattivo presagio,
che Clitoh per qualche attimo pensò di rimandare l'inizio della grande
avventura dell'uomo. Poi scosse il capo e si strinse nelle spalle: chi era
lui, per permettersi decisioni tanto grandi? Anthinea era giovane, e da poco
aveva assunto il rango di imperatrice, certamente troppe emozioni in di
pochi giorni l'avevano sfibrata.
Clitoh diede il segnale. Le incastellature vennero rimosse. Nella grande
cabina sferica Brenh, Alstoh e Reeh si accomodarono meglio nelle loro
cuccette. I visi di Brenh e Alstoh erano tesi per l'emozione e la paura.
Solo Reeh, gli occhi chiusi, sembrava dormire placidamente. E forse Reeh,
l'autentico Reeh, dormiva davvero.
Clitoh premé un pulsante rosso: nel ventre di piombo dell'astronave la
reazione ebbe inizio: E = mc2.
Tutti gli altoparlanti dell'astroporto
e la radio dell'astronave presero a scandire all'unisono la numerazione
progressiva che portò, in pochi minuti, alla parola fatale: ZERO!
Per un secondo tutto tacque. Parve che non accadesse nulla.
Poi, da sotto l'astronave scaturì un piccolo sole, fiammeggiò
irresistibile e prese ad allungarsi. In realtà era l'immenso scafo che si
andava sollevando dal suolo.
L'astroporto fu tutto un bagliore accecante, ma lentamente riapparvero i
globi fluorescenti, la notte riprese il sopravvento sulle cose. Nel centro
del cielo, simile a una grossa stella fiammeggiante, l'astronave di
Atlantide correva verso la sua meta.
Anthinea LXIII aperse gli occhi. Clitoh, premuroso le fu accanto.
- Mi dispiace, imperatrice, ma l'astronave è già partita. Tu sai che in
queste cose bisogna essere precisi e puntuali: i cieli non aspettano.
Lo scienziato abbozzò un sorriso, ma subito una ruga profonda gli si
disegnò sulla fronte spaziosa: Anthinea lo guardava con gli occhi sbarrati
dalla disperazione.
- So... sono partiti... tutti? - articolò con fatica.
- Certo! Brenh, Alstoh e Reeh... Perché? -
Anthinea parve volersi alzare di scatto, ma poi si lasciò ricadere. Clitoh
si chinò su di lei.
- Imperatrice, perché? -
I bellissimi occhi dorati della bionda e giovane Signora di Atlantide
fissarono quelli trasparenti e senza colore di Clitoh.
- Amico mio, credo che ci stia per accadere qualcosa di spaventoso! Quando
ho baciato Reeh mi sono resa conto che... che...-
- Che? -
Anthinea si alzò.
- Che non era un essere umano! -
Lo scienziato sussultò.
- Che cosa? Non era... -
La giovane sostenne il dubbio che lesse nello sguardo del vecchio.
- Reeh non è un umano: qual cosa si deve essere impossessato di lui.
Qualcosa che mi ha fatto svenire per impedire che io impedissi la partenza
dell'astronave. Qualcosa che ha ucciso Anthinea LXII perché doveva avere
scoperto la verità. -
Clitoh si diresse a un video: tra i tanti punti fermi del cielo, ce n'era
uno che lentamente andava spostandosi tra loro. Lo scienziato giocherellò
con i pulsanti dell'apparecchio, sovrappensiero. La bella imperatrice gli
andò accanto.
- Ormai è lontano. Ormai tutto è nello mani di Brenh e Alstoh - mormorò
lo scienziato.
- Grazie, Clitoh, temevo che non mi avresti creduta!
- Anthinea LXII è morta per essere rimasta sola con Reeh, anche se
l'astronauta disse di averla lasciata in uno stato perfettamente normale, e
tu sei svenuta dopo averlo baciato... La tua bisnonna è morta per
congestione cerebrale... forse Reeh può uccidere o mettere temporaneamente
fuori uso i cervelli delle persone che gli danno fastidio.
- O forse può fare molto di più. Perché si sarebbe imbarcato
sull'astronave? Un uomo con tali poteri non rischia la vita, neppure per
compiere la prima trasvolata dello spazio!
Clitoh si accarezzò la barba.
- Reeh è stato scelto dalle nostre macchine elettroniche. Un essere in
grado di ingannarle è ben capace di portare un'astronave su Luhna, senza
correre rischio alcuno! Sì, Anthinea, credo che l'impresa sarà un sicuro
successo... Almeno dal punto di vista del viaggio spaziale.
Adesso Anthinea era in preda a una grande ansia. Si torse le mani e poi se
le passò sul viso. Intanto la radio annunciava al mondo che l'astronave
Atlantide 1 era ormai in orbita attorno al pianeta. Ancora una volta il
popolo felice della grande isola brindò alla imperitura gloria delle loro
gesta.
Clitoh accompagnò l'imperatrice al suo elicottero.
- Non disperare, Anthinea, forse quell'uomo non ha intenzioni malvagie...
La bella donna scosse il capo con tristezza e mormorò, più a se stessa che
allo scienziato:
- Quello sguardo... buio, freddo, abissale... Inumano! Non lascia speranze
se riesce ad attuare i suoi progetti. Forse... forse sarebbe meglio che
quell'astronave non arrivasse mai in nessun posto.
Clitoh si passò una mano sul mento.
- Forse. Ma non credo sia possibile far altro che seguire con la radio il
viaggio dell'Atlantide. Ti terrò al corrente, imperatrice.
Anthinea salì sull'elicottero, tutto in plasticglas, che si alzò veloce e
silenzioso, scomparendo a sud verso le luci di Sylva, mentre Shol arrossava
la parte orientale del cielo.
VIII.
Reeh guardò il globo biancastro
dall'oblò: con la sua mole, Luhna riempiva la gran parte del campo visivo.
Il satellite, quasi privo di atmosfera, offriva ai raggi di Shol la sua
crosta senza protezione.
Montagne, pianure, colline, immobili da millenni, poco levigate da
quell'atmosfera troppo rarefatta.
Alstoh abbandonò la sua cuccetta e si fece accanto all'oblò.
- Bella vista, vero, Reeh?
Reeh sobbalzò come se il compagno lo avesse colto in un atteggiamento
sospetto. Alstoh se ne accorse e sorrise.
- Nervoso? - soggiunse.
Reeh alzò le spalle, e si allontanò dall'oblò.
Brenh alzò la testa dal calcolatore elettronico e rassicurò i compagni:
- Tutto va a meraviglia, siamo perfettamente nel limiti di tolleranza. Tra
poco dovremmo entrare in orbita intorno a Luhna!
Alstoh tornò a guardare lo spazio. Shol batteva quasi a picco su Luhna.
Doveva fare molto caldo, laggiù. Guardò i termometri della temperatura
esterna dello scafo e si lasciò sfuggire un fischio.
- Accidenti! Stiamo cuocendo da una parte e gelando dall'altra. — Infatti,
la temperatura dal lato di Shol raggiungeva i centocinquanta gradi,
dall'altro lato invece si avvicinava ai duecento sotto zero.
- Non deve esserci un clima turistico, là sotto! - scherzò Brenh.
Reeh guardò i suoi due compagni. In fondo erano dei simpatici animali, con
tutto il loro orgoglio di razza e la loro presunzione. Forse, se non fosse
stato necessario distruggerli, chissà, avrebbero potuto costruire una
civiltà sul tipo di quella dalla quale lui proveniva. Ma non toccava a lui
decidere la fine di una civiltà: le decisioni erano già state prese ed
egli ne era solo l'esecutore. Reeh chiuse gli occhi e l'essere extra-umano
che era in lui si irradiò nelle menti degli altri due.
La mente di Brenh era immersa completamente nei calcoli sulla rotta
dell'astronave, ma quella di Alstoh stava immaginando curiose scene che
rendevano difficile, per aumento di emotività, il sondaggio di Reeh.
L'alieno infatti non poteva capire né l'erotismo né l'affetto e il
desiderio di una famiglia. Reeh osservò vagamente incuriosito le
fantasticherie di Alstoh: scene che si susseguivano assai velocemente.
Specialmente la compagna che l'uomo sceglieva, cambiava continuamente. E
tutte le scene cominciavano con un gesto uguale a quello che Anthinea aveva
fatto coi tre astronauti prima di partire. Doveva essere qualcosa di più
che un semplice rito, perché Anthinea LXIII aveva capito, o intuito
qualcosa, proprio dopo aver posto le labbra sulle sue.
- Siamo in orbita! -
L'urlo di Brenh scosse Reeh dai suoi pensieri e Alstoh dalle sue
fantasticherie. Tutti e tre corsero agli oblò di plasticglas, ma dovettero
farli ruotare di novanta gradi per avere una visione di Luhna. Ormai
facevano parte delle forze gravitazionali del satellite e Atlantide 1 vi
dirigeva il proprio baricentro. Luhna apparve appena poco più grande di
prima, però i picchi delle montagne cominciavano a lanciare lunghe ombre
sulle pianure circostanti.
Reeh si avvicinò al fondo della cabina e, in silenzio, cominciò ad
infilarsi la tuta preparata per la loro sopravvivenza sulla superficie del
satellite. Alstoh lo guardò, divertito.
- Questa sì che si chiama prudenza! Ci vorranno almeno trentasei ore prima
che si entri in fase di atterraggio.-
Reeh ricambiò il sorriso meccanicamente, poi, senza dire nulla, entrò nel
compartimento stagno e chiuse la porta. Brenh e Alstoh rimasero
esterrefatti. Che cosa voleva fare, Reeh? Era impazzito? Voleva verificare
le camere di piombo?
Reeh lavorò alla svelta. Scivolò fuori dall'astronave con una perizia
straordinaria e senza degnare di uno sguardo gli abissi bui che si aprivano
dovunque sopra, sotto e intorno a lui; camminò con le scarpe magnetiche che
aderivano al metallo dell'astronave, passando dalla zona di ombra a quella
accecante di Shol. Polarizzò il vetro del casco, innestò il sistema
refrigerante e continuò tranquillamente a muoversi sullo scafo,
apparentemente fermo sopra Luhna. Pallido, offuscato dalla luce di Shol, Il
pianeta Terrah sembrava già in preda all'agonia.
Reeh giunse alle bocche delle fornaci atomiche e ci si infilò dentro con la
massima naturalezza. La tuta gli faceva da schermo, ma solo una pesante
lastra di piombo avrebbe potuto deviare e assorbire le terribili radiazioni
in modo da renderle innocue. Reeh, entrando nella bocca d'espulsione, aveva
accettato la morte: a una scadenza più o meno lunga, a seconda del proprio
fisico. Ma all'essere che viveva in Reeh, poco importava di danneggiare il
corpo che momentaneamente lo conteneva, purché questi rimanesse in vita
sino a che lui non avesse portato a termine la propria missione e non fosse
tornato laggiù, nel proprio vero corpo, sul suo mondo natale.
Ed ora, proprio per evitare che il razzo finisse sfracellato su Luhna, lui
doveva entrare nelle camere plumbee e installare il repulsore antigravità.
L'essere che Reeh ospitava conosceva leggi ignote agli Atlantidi. Arrivato
nella camera atomica, si guardò intorno. Una mortale luminescenza rendeva
facile l'individuazione delle varie parti. In fondo, il canale della presa
d'aria; a destra, in alto, l'iniettore della miscela di gas per poter
dirigere l'astronave anche nel vuoto; e a sinistra le masse critiche di
uranio, ora separate e tranquille, ma pronte a sprigionare tutta la loro
paurosa energia. Reeh si avvicinò il più possibile al fondo della camera e
cominciò a tessere una specie di ragnatela con fili di rame. Poi scivolò
ancora all'esterno, e camminò sullo scafo fino a un punto preciso. Si
fermò e avvicinò alla piastra il cannello ossidrico di cui ogni tuta era
fornita. In capo a dieci minuti, scavò un buco nella piastra e poté farci
passare una mano. Toccò i delicati apparecchi elettrici che fornivano il
campo magnetico alle pareti delle camere plumbee e dei condotti degli
espulsori, affinché i gas che passavano a milioni di gradi non avessero a
toccarle e a fonderle. Senza guardare, tolse alcuni fili e li attaccò ad
altri, mettendoli poi a massa con lo scafo stesso. Infine, sudato dentro la
tuta, Reeh riapparve nel compartimento stagno. Chiuse la prima porta e
l'aria riempì il vano. Si sfilò la tuta e l'appoggiò alla porta esterna,
poi entrò nella cabina, richiudendo dietro di sé la seconda porta.
Manovrò l'apertura di quella esterna, che si aprì con un risucchio
orribile, e la tuta, ormai "calda", si perse nello spazio.
Alstoh e Brenh non osarono parlare subito, vedendo il viso affaticato di
Reeh. Poi ruppero il silenzio.
- Si può sapere...-
Reeh non li lasciò continuare.
- Sono stato nelle camere di piombo.-
Istintivamente gli altri due uomini fecero un passo indietro, poi la
solidarietà verso il compagno vinse la loro paura, e gli si avvicinarono
fino a toccarlo. Reeh sorrise e stavolta il suo fu un sorriso sincero,
umano.
- Amici, sono "caldo"...-
Alstoh gli posò una mano sulla spalla.
- Se l'hai fatto per salvarci...-
Ancora, Reeh non lo lasciò continuare. Leggeva nella mente dei due compagni
e sapeva che erano commossi. Pian piano credette di intuire quello che gli
Atlantidi chiamavano: sentimento. Sì, quei due uomini gli volevano bene! O
almeno, volevano bene al corpo che lo conteneva! Lui invece era là per
distruggere la loro razza! Per la legge universale della sopravvivenza del
migliore, lui aveva ragione... ma era poi proprio cosi? Le sue armi erano
più forti, ma... Reeh si riscosse. Doveva fare quanto gli era stato
ordinato. Forse non sarebbero morti tutti, quegli strani esseri a due gambe!
Forse la decisione crudele era saggia anche per quelle creature! E Reeh
parlò.
- Atlantidi, io non sono un
uomo. - Brenh e Alstoh non si mossero. Forse avevano sempre sentito qualcosa
di estraneo nel loro compagno, e la rivelazione li trovava psichicamente
pronti. Reeh continuò:
- Non sono un uomo e vengo da un
mondo lontano, molto lontano... Ho ucciso Anthinea LXII perché mi aveva
scoperto, e ho fatto svenire l’altra perch6 non mi impedisse di partire.
lo leggo nei vostri cervelli, e se volessi potrei uccidervi senza neppure
muovermi. Ma non lo farò se non mi costringerete. lo devo portare a termine
una. missione, una missione che riguarda Luhna e Terrahl lo devo allontanare
Luhna a una distanza doppia di quella attuale. -
I due astronauti aprirono la
bocca per parlare e Reeh li prevenne ancora.
- Pensate solo, ci intenderemo
meglio. -
Alstoh pensò, un po' incredulo,
ai cataclismi che avrebbe subito il suo pianeta se una simile catastrofe
fosse successa, e Reeh gli rispose subito, facendogli suonare la. propria
voce dentro, il cervello:
- Sarà anche peggio. Credo che
le masse liquide dei vostri oceani si sposteranno, provocando inondazioni e
mareggiate in scala continentale. Forse il peso delle acque cambierà
l'inclinazione dell'asse di Terrah, o addirittura lo spostamento dei poli.
No - continuò il pensiero di Reeh nei cervelli di Alstoh e Brenh - non sono
un essere diabolico e nemmeno malvagio. Obbedisco a un'intelligenza
infinitamente superiore alla vostra. Io stesso mi sento ingiusto verso di
voi, ma sono, sicuro che c’è una valida ragione perché sia stata scelta
questa soluzione. -
Brenh pensò di uccidere Reeh di
uccidere il mostro che gli si era annidato dentro, ma subito si accorse di
non poter più muoversi. Il pensiero di Reeh gli suonò nel cervello, ma non
era un pensiero di vittoria, anzi sembrava triste.
- Non possiamo farci niente,
amico. Né tu né io! Io dispongo di forze per voi inimmaginabili. Se io non
fossi qui con voi, adesso staremmo per precipitare su Luhna. Il magnetismo
del satellite è ben diverso da quello del vostro pianeta: i campi magnetici
per l’isolamento delle pareti delle camere di piombo non avrebbero
funzionato e l’astronave si sarebbe fusa, disintegrata, facendoci cadere
su Luhna sotto forma di polvere radioattiva.
Brenh sussultò e parlò a voce
alta. Se qualcuno avesse potuto osservare i tre uomini, tesi, sconvolti,
mutare espressione senza parlare, li avrebbe presi per schizofrenici. Anche
per rompere quell’atmosfera da incubo, Brenh parlò ad alta voce.
- Per questo sei... siete
uscito? -
Reeh assentì e rispose, con
parole, a sua volta.
- Sì. Adesso non avremo bisogno
di usare i motori. L'astronave funziona distorcendo i campi gravitazionali.
E' da barbari forzare le leggi della natura, dissociando la materia come
fate voi altri. -
Anche Alstoh si accorse di non
potersi più muovere. Intanto l’astronave scendeva tranquillamente sul
satellite, ormai avvolto nell'ombra. Il pianeta Terrah brillava verdeazzurro
nel cielo. Il pianeta Terrah lanciava da ore disperati messaggi alla sua
astronave. Messaggi a cui nessuno dava risposta.
Pesanti lastroni di gas
congelati si stavano rapidamente trasformando in vapore, senza passare
attraverso lo stato liquido, non appena Shol li investiva. coi suoi raggi
infuocati. Tutto intorno il paesaggio appariva tormentato dai continui
sbalzi di temperatura. Di tanto in tanto alcune rocce scoppiavano, quasi
senza rumore, data la scarsa conducibilità della tenuissima atmosfera di
Luhna.
Alstoh e Brenh, immobilizzati
nella cabina dell'astronave, guardavano il curioso paesaggio. Ormai una
sorta di calma era subentrata alla loro disperazione. Una calma mista a un
po' di incredulità, a un po' di speranza. Forse Reeh non sarebbe riuscito
nel suo progetto. Pareva infatti impossibile che un uomo potesse spostare i
pianeti a suo piacimento.
Reeh, intanto, stava preparando
qualcosa con dei fili di rame. Accoccolato in fondo a un crepaccio, dove i
raggi di Shol non potevano giungere, muoveva svelto le mani, imbarazzate dai
pesanti guantoni della tuta.
Intorno a lui le rocce erano
coperte da una specie di muffa verdastra: unica cosa viva che si potesse
scorgere su quel mondo. Reeh era contento che Luhna non avesse altro genere
di vita, perché se ne avesse avuta, dopo quanto si accingeva a fare,
sarebbe certamente diventato un mondo vuoto. Per un po' di muffa soltanto,
invece...
Reeh sistemo in cima a una
roccia il suo rudimentale apparecchio e si sedette in attesa che Terrah
spuntasse all'orizzonte.
Il fatto che lui avesse avuto l’ordine
di allontanare Luhna e non di distruggere Terrah, significava senza dubbio
che non era nelle intenzioni della sua gente lo sterminio totale della razza
umana. Si sentì molto meglio dopo questo pensiero perché ne dedusse che
poteva salvare la vita dei suoi due amici senza contravvenire agli ordini.
La notte calò improvvisa e
netta. Terrah salì all'orizzonte. Reeh, con un sospiro di dolore, diresse
contro il pianeta la. sua strana arma, poi si arrampicò su un picco e mise
in linea con il precedente un altro piccolo, buffo congegno. Innestò una
comune batteria elettrica, quindi tornò tranquillamente verso l’astronave.
Alstoh e Brenh pensarono pensieri di morte, e Reeh trasmise loro il suo
dolore insieme alla notizia della loro salvezza: li avrebbe condotti su un
altro mondo, lì essi avrebbero potuto sopravvivere e forse, un giorno, i
loro discendenti si sarebbero incontrati con i discendenti dei terrestri
scampati al cataclisma che stava per sconvolgere il pianeta.
La notizia che la razza umana
non sarebbe andata completamente distrutta, aiutò i due poveri astronauti
ad accettare l’idea della loro salvezza.
"Atlantide I" si
sollevò dolcemente, senza vibrare, senza vomitare fiamme, come se un filo
invisibile la tirasse verso l’alto. La sua velocità aumentò. Reeh
spiegò che l’astronave stava letteralmente "cedendo" verso l’alto.
In meno di due ore l’astronave
fu libera nello spazio buio. Adesso Luhna e Terrah sembravano equidistanti.
Quella era l’ora zero!
Improvvisamente, inaspettatamente, Luhna rimpicciolì, come se qualcuno
avesse cambiato la lunghezza focale di uno zoom immaginario.
Alstoh e Brenh balzarono in
piedi: Reeh li aveva liberati dalle catene neuronali.
Gli occhi dei due terrestri si
volsero a guardare il pianeta natale: il globo verdazzurro non sembrava aver
subito danni e la speranza cominciava a nascere nei loro cuori quando lo
videro ondeggiare, aumentare la sua velocità di rotazione e infine
capovolgersi, invertendo i poli, come se una mano divina gli avesse dato uno
scappellotto. Il globo ondeggiò come una trottola che sta per fermarsi,
cambiò la posizione dei poli di rotazione più volte, prima di
stabilizzarsi. Il pensiero di Reeh li sorprese: dinanzi alla catastrofe di
Terrah, i due avevano dimenticato la sua presenza.
- I poli si sono spostati vicini
al vecchio equatore… adesso Atlantide è al polo sud del pianeta! I
maremoti devono essere stati imponenti e tsunami alti un miglio avranno
spazzato via tutto… La vostra civiltà è scomparsa, ma certo ci sono dei
sopravvissuti.-
- Maledetto! - con un urlo i due
Atlantidi si lanciarono contro Reeh, ma furono gelati nei loro gesti di
minaccia. Reeh parlò.
- Ora potrei anche morire.
Sarebbe facile per me, adesso, tornare nel mio corpo, laggiù, nel mio
mondo, ma prima voglio salvarvi. -
Lacrime di impotenza bagnarono
il volto di Alstoh e Brenh. Avevano visto la fine di quello che credevano
imperituro. Il lavoro, le lotte, il sangue dell'umanità, versato per
costruire un sogno di bellezza e potenza, era stato annullato in un attimo!
Reeh prese il comando dell’astronave
e "Atlantide I" fece un gran balzo nello spazio.
Un singhiozzo scosse il petto di
Alstoh. Addio a tutto!
Reeh comprese. Comprese e si
sentì stringere il cuore. Sentì di odiarsi per quello che ave- va dovuto
fare. Ma spesso le cose buone nascono da altre spaventosamente atroci. Due
lacrime colarono dagli occhi di Reeh mentre la rossa superficie di un
pianeta invadeva improvvisamente l’oblò.
L'astronave si appoggio
dolcemente in una radura. Alcuni ominidi rossastri ripararono sopra un
albero spinoso.
Reeh comincio a sentire gli
effetti delle radiazioni a cui si era sottoposto nelle camere atomiche
dell'astronave. Diresse un ultimo pensiero ad Alstoh e a Brenh.
- Addio, amici. Lasciate che vi
chiami così anche se ho dovuto farvi tanto male. Io devo andare, adesso. Vi
ho tolto un pianeta pieno di civiltà e in cambio ve ne do uno che è ancora
allo stato animale. Ma di più non posso fare. Se vi avessi riportato su
Terrah, sarebbe stato ancora più duro per voi. Qui sopravviverete. Fate
amicizia con gli indigeni e insegnate loro quello che potete. Un giorno
anch'essi valicheranno i cieli, e spero che quel giorno non sarà più
necessario che uno di noi venga ad impedirlo. –
Reeh, con un ultimo sforzo,
spalancò il portello di "Atlantide I" e fece cenno ai due di
scendere. Alstoh e Brenh ubbidirono, in silenzio. Appena i loro piedi
toccarono la strana erba della radura, l'immensa astronave ripartì.
S'innalzò nel cielo limpido, di un azzurro rosato e desplose senza suono in
una larga chiazza di luce. "Atlantide I" non esisteva più.
Il corpo umanoide di Reeh si
dissolse nei suoi atomi, ma lo straniero, un attimo prima, era tornato nel
suo corpo originale, in un mondo lontano e irraggiungibile.
I due uomini si guardarono
intorno. L'acqua di un torrente gorgogliava poco lontano. Una leggera brezza
sussurrava tra le punte degli strani, bassi alberi della foresta. Un ominide
si lasciò cadere a terra, ed essi avanzarono verso di lui con le palme
tese, in un gesto universale di pace.
X
La rossa visione di Marte svanì
nella mente di Arek, sempre in contatto con la Gran Madre, e fu sostituita
con l’apocalittica visione di Terrah. Dovunque, il pianeta era in preda a
terribili sconvolgimenti sismici. La grande isola di Atlantide era spazzata
da ondate spaventose. Sylva, completamente distrutta, spuntava a tratti
dalle onde. Poi la scena cambiò ancora. Una pesante coltre di ghiacci si
stese sul civilissimo continente. Un silenzio eterno, mortale, avvolse ogni
cosa. Le strida degli uccelli migratori che non trovavano più il dolce
clima a cui erano abituati, fu l’unico suono su quella solitudine gelata.
Gli uccelli fecero un largo giro sul continente e poi, spinti dall'istinto,
presero l’avvio per le terre attraversate dal nuovo equatore. Questo,
l'unico segno che, ripetendosi, avrebbe portato nei tempi il ricordo delle
eterne primavere dell'isola. L'Atlantide non esisteva più: era nata
l'Antartide.
Qualche superstite aveva
raggiunto le coste di un'altra isola, situata più a nord. Qualche
superstite con pochi esemplari della fauna atlantidea: cigni neri, canguri,
e altre poche specie di marsupiali e di incroci tra rettili e mammiferi.
Terrah era tornata indietro nel
tempo di decine di millenni. Ma poi, a poco a poco, la. razza degli strani
bipedi, ricominciò a organizzarsi. Grandi glaciazioni avevano mutato i
climi di tutto il pianeta, nuove tribù, nuovi stati cominciarono a
formarsi. La sapienza degli Atlantidei non andò completamente perduta: le
leggende tennero vivo il ricordo delle mete raggiunte. I popoli parlarono di
uomini perfetti che scendevano dai cieli, di perfette repubbliche, di
un'isola felice al di 1à del Grande Oceano.
I ricordi del cataclisma si
affievolirono ma non si persero del tutto: divennero materia di religione, e
la gente parlò di un diluvio terribile, divino castigo contro i delitti
dell'umanità.
Nelle nuove zone temperate si
formarono presto altre civiltà. Grandi città sorsero sulle rive dei fiumi,
e la cultura ripartì alla conquista del pianeta. In un lento moto da
Oriente a Occidente, l’uomo ritornò verso le posizioni perdute. Qualcuno
era depositario del segreto di Atlantide, qualcuno che forse discendeva
dagli Anthin o da qualche scienziato come Clitoh.
Ma il grande segreto non venne
mai tradito. Parlarono per enigmi, per aiutare il genere umano senza
spaventarlo. Di generazione in generazione, di setta in setta, venne
tramandata la leggenda dell’annientamento della prima civiltà. Gli imperi
si formarono e caddero: Babilonia, Egitto, Grecia, Roma... Poi comparvero di
nuovo le prime macchine. Il cammino dell'uomo fu assai più celere, e
quindicimila anni dopo il disastro che aveva annullato Atlantide, la. prima
pila atomica riprese a frantumare gli atomi e le formule relativistiche
tentarono ancora di spiegare l'Universo.
Però c’era una novità: l’uomo
aveva scoperto l’incertezza probabilistica della meccanica quantistica.
Quel buffo essere un non-essere finché nessuno ti prende le misure.
Il mondo si era diviso in due
grandi blocchi, ma i satelliti artificiali giravano già intorno alla Terra,
già missili e astronavi partivano per la Luna. Il primo missile. per strana
coincidenza (ma proprio di una coincidenza si trattava?), era stato
battezzato Lunic!
Nei due blocchi, squadre di
uomini si preparavano al primo viaggio spaziale. Il satellite ora si trovava
a una distanza media di trecentottantamila chilometri dal pianeta, ed era un
mondo martoriato, pieno di crateri e anche la piccola muffa verde era
scomparsa. Tuttavia era sempre là, ad illuminare la Terra come la notte
lontanissima in cui O-Baa aveva messo in fuga Grro, it leone, scoprendo l’utilità
della collaborazione.
La Luna era sempre là, e ancora
una volta i bipedi intelligenti si accingevano a raggiungerla.
Il contatto si interruppe e Arek
ritornò in sé. L'ordine suonava imperioso, indiscutibile, nel- la. mente
del Trug: doveva ripetere le gesta di Reeh! La Gran Madre, inoltre, esigeva
un periodo di prova. Lui avrebbe dovuto raggiungere quel mondo, che
conosceva solo in sogno, avrebbe dovuto imparare a servirsi di uno di quei
corpi, avrebbe dovuto guardarsi intorno, e poi distruggere il pianeta. E
stavolta completamente.
Arek non capì perché la Gran
Madre avesse scelto proprio lui, ma la Gran Madre era infallibile e i suoi
ordini. non erano discutibili. Si addossò tutto a lei e stavolta
l'annullamento gli parve ancora più rapido, totale, irreversibile.
XI
Arek avvertì una sensazione di
freddo, di. acqua. Era una sensazione che veniva da distanze infinite, ma
che si andava facendo sempre più chiara. Infine si accorse di introdurre
nel proprio corpo litri di gas e poi di espellerli dopo una combustione
interna. Credette di essere impazzito. Si ricordò di una divertente
trasmissione che parlava di macchine che bruciavano qualcosa nel loro ventre
per ricavarne una spinta e camminare. Era forse diventato una di quelle? Man
mano, che la sua mente si snebbiava, il ricordo tornava con linee più
precise: il lontano pianeta... i bipedi che vivevano sugli alberi... i
bipedi che correvano nei loro spazi con macchine ridicole e primordiali,
lente, come lumache... Reehl Reeh e... lui, Arek!
Sentì un brivido freddo
corrergli lungo la schiena, e cosi scoprì di avere un altro corpo. Sentì i
muscoli delle braccia e delle gambe, si mosse lentamente per convincersi di
comandare davvero quei tiranti. Una voce risuonò su di lui.
- Sta rinvenendo, si è mosso! -
La musicalità del suono lo entusiasmò. Arek non aveva mai realmente
"udito" un suono! Prese coraggio e aprì gli occhi. I contorni del
mondo esterno entrarono nella sua mente: la luce, i colori, i contorni delle
cose, già conosciuti tramite le immagini mentali, penetravano entro di lui
come segnali elettrochimici e costruivano immagini nelle sue aree visive del
cervello, danzando una balletto caleidoscopico.
- Henry! -
Di nuovo la voce dolcissima
suonò intorno a lui. Henry... e la sua mente, anzi la mente che occupava,
cominciò a ricordare. Ecco, lui era Henry. Henry Fross... Voltò il capo e
incontro gli occhi di Lucy. La ragazza, una brunetta molto carina, sui
diciott'anni, gli sorrise, ancora un po' preoccupata.
- ??? -
- Non è stato nulla. Uno
svenimento passeggero. Però devi farti vedere da un medico... –
L'uomo che aveva detto queste
parole, sembrava diverso dalle altre persone che gli erano attorno. I suoi
capelli erano bianchi e tutti gli altri sembravano portargli grande
rispetto. Henry si alzò e si fece passare una mano sul viso. Si guardò e
guardò bene gli altri: non c'era dubbio! Era nel corpo di uno di quei
bipedi di cui aveva seguito la storia. Gonfiò i polmoni d'aria e poi la
gettò fuori: in fondo quell'esercizio era piacevole, e si accorse che i
polmoni continuavano da soli, anche se lui non ci pensava. Cercò di
ricordarsi tutto quello che la Gran Madre gli aveva fatto vedere: alzò il
labbro superiore e sorrise. Lucy gli sorrise a sua volta, poi domandò:
- Va meglio, adesso? -
Henry esitò. Sentiva le proprie
corde vocali pronte a vibrare, ma temeva di non riuscire ad articolare suoni
cosi perfetti. Si limitò ad assentire col capo. Tutti i bipedi si diressero
verso degli strani scaffaletti di legno e si piegarono su di essi,
appoggiandosi con il fondo della schiena. Henry ricordò che quel gesto si
chiamava "sedersi". Lui si diresse verso Lucy. Quel bipede gli
piaceva più degli altri. Tutta la scolaresca scoppiò in una risata, e
qualcuno lo prese per un braccio, costringendolo a sedere su uno degli
strani scaffaletti. Seppe solo dopo che si chiamavano banchi, e che quella
era una scuola. Un posto, cioè, dove i piccoli bipedi imparavano quello,
che dovevano, sapere. Poveri esseri costretti a perdere un terzo della
propria vita per imparare tutto quello che i loro antenati avevano scoperto.
Un Trug, invece, al momento della nascita, già conosceva tutti quei dati
che gli avrebbero permesso di fare il lavoro per cui era stato destinato!
Povero lui, se avesse dovuto studiare tutte le stelle delle nebulose,
laggiù, nel suo mondo! Ci sarebbe voluta la vita della Gran Madre!
Intanto, il bipede dai capelli
bianchi cominciò a parlare. Spiegava ai suoi allievi le cose che ancora
essi non sapevano. Henry-Arek si agitò sul suo banco. Il professore stava
parlando della nascita del suo mondo e della sua civiltà. La sua versione
dei fatti era assai diversa da quella conosciuta da Arek. Il ricordo di
Atlantide sembrava. perduto.
Henry si guardò intorno. Tanti
esseri come lui, stavano zitti, ascoltando le parole del professore. Ebbe l’impressione
di essere più vicino lui a quella razza che non gli altri che da essa
discendevano direttamente. Allungò una mano e afferrò un piccolo
parallelepipedo che stava poggiato sul banco. Provo piacere nell'allungare
il braccio, nello stringere le dita attorno all'oggetto. Il poterlo alzare e
muovere gli diede un senso di potenza. Istintivamente cercò di comunicare
con Lucy, attraverso le vie telepatiche, ma vide la ragazza portarsi le mani
alla testa con una smorfia di dolore. Ricevette l’onda dolorosa di
rimbalzo nel proprio cervello: quei bipedi non conoscevano ancora l’uso
delle onde neurali. Trasmettere con suoni era certamente più lungo, più
impreciso, più faticoso, ma ad Henry sembrò divertente. Inoltre, lui
poteva leggere nella mente altrui e nessuno poteva entrare nella sua!
Lentamente le sue dita
neuroniche si insinuarono nel cervello di Lucy. La prima cosa che trovò fu
la propria immagine, Senza sapere il perché, notò che il sangue pulsava
più in fretta nel reticolo di tubi che manteneva caldo e dolce il corpo,
dandogli un senso di eccitazione che amplificava gli input ricevuti da tutti
i sensi.
- Che anno è - chiese Henry. Il
compagno lo guardò, ironico.
- Oh! Lo svenimento ti ha per
caso guastato le rotelle? Siamo nel 1959! –
Henry tacque, temendo di destare
sospetti, ma si scervellò tentando di capire a quali rotelle avesse alluso
il compagno: si autoesaminò, non aveva rotelle di alcun tipo. Poi si
rivolse a un altro:
- Nel
millenovecentocinquantanove... Era…? –
Anche il nuovo compagno lo
guardò con compassione divertita.
- Era che hai preso un brutto
colpo… Cristiana, no? - il professore li richiamò, e tutti tornarono
attenti.
Adesso Henry era sicuro di non
aver sbagliato: anno 1959 dopo Cristo, che era un tizio che si era fatto
crocifiggere affinché il padre perdonasse i suoi assassini, corrispondente
all'anno 16.217 dell'era degli Anthin.
Il professore stava ancora
infilando, una dietro all'altra, le sue baggianate. Ora stava sostenendo che
l’era glaciale aveva cominciato a diventare temperata circa undicimila
anni prima, e questo per spiegare lo sviluppo della civiltà. Non trovava
strano che l’uomo fosse riuscito a passare dagli alberi alle astronavi, in
pochi millenni! Eppure senza la precedente civiltà atlantidea, questo non
sarebbe stato possibile.
Il professore continuò
spiegando come il mare Artico funzioni da valvola diluendo più o meno l’acqua
della corrente del Golfo e sia così la causa delle glaciazioni. Henry
sorrise, ricordando di avere visto palme tropicali lì dove il professore
parlava di ghiacci eterni.
Quando la campana suonò la fine
delle lezioni, Henry seguì la colonna degli altri studenti fino sul
piazzale antistante la scuola. Alcuni di essi lo salutarono e lui rispose
con cenni uguali ai loro. Ben presto il piazzale si vuotò. Lucy gli si
avvicinò.
- Che fai? Non vai a casa. oggi?
-
Henry indagò nella. mente
della. ragazza ed ebbe chiaro il concetto di "casa". Le parole gli
vennero quasi subito.
- Non mi sento molto bene. Ti
dispiacerebbe accompagnarmi? –
La ragazza sorrise e lo prese
sottobraccio.
Così Henry si trovo davanti a
un grosso edificio, vagamente simile, ma assai più modesto, a quelli che la
Gran Madre gli aveva fatto vedere a Sylva, in Atlantide. Qualcosa di
familiare si sprigionava da quel palazzo, qualcosa come un ricordo confuso.
Henry si abbandonò a quelle sensazioni: il suo corpo "ricordava".
Fece le scale come in "trance" e premette il pulsante di un
campanello, a lato di una porta di legno scuro. Una giovane donna aprì.
- Ciao! – esclamò
cantilenando, poi si voltò e si allontanò lungo il corridoio. Uno strano
odore aleggiava per la casa. Un odore che entrava in lui dandogli un senso
di ritorno nella tana. Seguì la donna e si trovò in una piccola sala,
arredata. a vivaci colori. Su un tavolo, fumavano delle strane montagnole
colorate. Henry ne contò tre: una davanti a un uomo che gli fece un cenno
di saluto, un'altra davanti alla donna, che aveva preso posto a fianco
dell'uomo, e una terza che sembrava attendere lui. Henry si avvicinò al
tavolo e sedette. L'odore che proveniva da quelle cose fumanti gli fece
aumentare un liquido che gli dava un senso di disagio nella bocca. Indagò
la mente dei due sconosciuti: l'uomo stava pensando a una brunetta con cui
avrebbe passato ore felici nel pomeriggio, e la donna era preoccupata che il
suo compagno progettasse di rimanere con lei dopo pranzo, in quanto aveva
promesso a un giovanottone biondo di andare con lui fuori città.
- Non mangi? - disse la donna a
Henry, e intanto pensò: "Se non gli va, meglio ancora..."
Henry guardò l’altro uomo.
Come si faceva a mangiare? Poi ricordò di averlo visto fare nelle immagini
mentali con cui la Gran Madre lo aveva istruito: bisognava introdurre, nel
buco da cui uscivano i suoni, le materie prime necessarie alla vita di quel
corpo massiccio. Dapprima incerto, poi sempre più sicuro, Henry cominciò a
infilarsi grossi bocconi in bocca. Man mano che il cibo gli scendeva nello
stomaco, si sentiva soddisfatto. I sapori, esperienza del tutto nuova, lo
riempirono di eccitazione. Mangiò fino alla massima capienza fisica, sotto
gli occhi increduli della donna bionda. Poi si rese conto che il piacere si
stava trasformando in nausea. Allora smise.
Più tardi una spiacevole
pesantezza si andò impadronendo del corpo che lo ospitava. Con grandi
sforzi, riusciva a malapena ad alzare un braccio o muovere un passo. I sensi
gli si ottundevano. Le palpebre cadevano sempre più spesso e più a lungo
sugli occhi, riportandolo nel buio in cui sempre era vissuto. Però in
questo buio non esistevano contatti mentali come nel mondo dei Trugs, questo
era un buio morto, privo della meravigliosa congiunzione con altri simili. I
pensieri si univano a fatica.
Si lasciò cadere su di un
divano. L'uomo brontolò qualcosa, ed Henry captò una sensazione di
ostilità nei suoi confronti, ma non ebbe più la forza di analizzarla. Il
corpo, che lo conteneva si era staccato da lui, o forse era avvenuto il
contrario... una nebbia grigia sembrava. salire da incommensurabili
profondità tutto intorno a lui... più su, sempre più su... Cercò di
muoversi ma il corpo non gli ubbidì. L'ultimo pensiero fu di morte: Arek
sapeva che se il corpo di Henry moriva, prima che lui fosse riuscito a
tornare nel proprio, sarebbe morto anche lui. L’ultimo pensiero fu di
morte ma ormai le forze avevano abbandonato del tutto quel corpo.
Quando si svegliò, era già
quasi buio. Nuovamente si osservò con stupore, poi tutto gli tornò alla
mente. Dunque non era morto: quello che aveva subito era soltanto una specie
di catalessi, quella morte periodica che i bipedi chiamano
"sonno".
Sentì che l’apertura carnosa
che aveva sulla faccia si stirava in quello che lì chiamavano sorriso. Si
piegò sulle gambe e di nuovo si sentì forte e felice di possedere quel bel
corpo muscoloso.
Indagò col
cervello e capì subito di essere solo in casa. Per quanto sbarrasse gli
occhi, non riusciva più ad avere una visione chiara degli oggetti che lo
circondavano. Henry ricordò che il pianeta alternava con un certo ritmo
luce e ombra. Forse anche il suo pianeta, ma lui non aveva mai potuto
accorgersene. Si mise a curiosare intorno. Soprattutto i pulsanti, bottoni,
maniglie e tutto ciò che sembrava essere stato pensato per essere toccato
dalle due mani che si trovava ad avere, lo interessava. Cosi scoperse la
luce artificiale, vagamente simile a quei globi fluorescenti che
illuminavano l’astroporto sul monte Ulmer, nella fatidica notte in cui
Reeh si era imbarcato sull’astronave. Poi fu la volta della televisione:
Henry-Arek capi subito. Anche gli umani potevano vedere cose a distanza,
solo che avevano bisogno di macchine. Lui, invece, dal suo pianeta, poteva
captare, senza altra attrezzatura che la propria mente, tutte le stazioni
della Nebulosa.
Istintivamente,
aperse il proprio cervello per ricevere, ma nessuna visione gli apparve.
Un brivido di
paura corse nei neuroni del suo cervello: dove mai era capitato se non
poteva più ricevere le trasmissioni del proprio universo? Sapeva che non c’erano
limiti di distanza che impedissero o affievolissero queste ricezioni
telepatiche basate sull’entanglement delle particelle che costituivano le
cellule nervose: probabilmente lo strano fenomeno era dovuto al fatto che
lui era chiuso nel corpo rudimentale di un bipede, ma non riuscì a
rassicurarsi del tutto. Questa paura lo riportò ben presto allo scopo della
sua visita. Era venuto per vedere e poi distruggere il mondo e la civiltà
dei bipedi!
Era meglio
finirla subito. Sarebbero bastati pochi fili di rame, come aveva fatto Reeh,
ma stavolta diretti contro la Terra e non contro il suo satellite. Si
diresse verso l’apparecchio televisivo: forse avrebbe trovato li il poco
materiale necessario... poi si fermò: l’ordine era di vedere, prima di
distruggere. E lui non aveva ancora visto quasi niente. Per Reeh era stato
più facile: doveva solo distruggere ed era stato mandato nel corpo di uno
dei piloti della prima astronave. Ma lui, Arek, che cosa doveva vedere di
preciso? Questo mondo sembrava assai diverso da Sylva, qui la gente sembrava
non interessarsi affatto delle conquiste spaziali e alla scienza in
generale. Possibile che la Gran Madre avesse sbagliato, facendolo capitare
proprio in quel posto? Il tempo era quello, ma forse c’era stato un
errore...
Henry si passò
una mano sul viso. No, la Gran Madre non poteva sbagliare. E allora era lui
che non riusciva a vedere... Ingurgitò una lunga sorsata di gas che il suo
organismo si affrettò a bruciare, ed espulse i residui incombusti. Il
sangue si arricchì di nuova forza ed Henry usci di casa. Scese le scale e
fu ancora in strada.
Adesso lo
spettacolo era assai diverso: il pianeta doveva attraversare la sua zona di
ombra, ma mille punti e strisce luminose rischiaravano l’andirivieni della
gente. Molti andavano sulle proprie gambe, ma altri stavano seduti su strani
veicoli semoventi. Henry indagò i principi di quelle macchine e li trovò
così buffi, nella loro primordialità, che scoppiò in una lunga risata.
Qualcuno si fermò a guardarlo e poi si allontanò scuotendo il capo.
Cercò di
dominarsi. Ma com’era mai possibile che questi bipedi, così arretrati e
così lontani dal suo mondo, costituissero un pericolo mortale per i Trugs?
Domanda senza risposta:
solo la fede
nell’infallibilità della Gran Madre sostituiva l’irrazionalità
apparente del problema.
La sua
attenzione fu attirata da un abitacolo pieno di luce e tappezzato di
foglietti multicolori: una gran folla si accalcava attorno. Henry si
avvicinò e vide che la gente, posando dei dischetti metallici, otteneva in
cambio un foglio biancastro, tutto coperto di segni neri.
Sentì, appesi
nella guaina che i bipedi chiamavano ‘vestito", dei dischetti simili
a quelli che la gente consegnava in cambio del foglio macchiettato. Fece
scorrere una mano lungo il vestito e le sue dita li scoprirono, nascosti in
una tasca della stoffa. Ne cercò l’apertura, la trovò e ci infilò la
mano prendendo le monete. Goffamente ne posò una manciata sul banco dell’edicola.
Una donna lo guardò con aria interrogativa ed Henry indicò un giornale. La
donna glielo diede e gli rese anche quasi tutti i dischetti.
- Ehi! Vivi nel
mondo della luna, tu? - Henry scosse energicamente la testa.
- No... no. Io
sono di qui... –
La donna
scrollò il capo ridendo e poi si rivolse agli altri compratori.
Henry si
incamminò, confuso Che cosa aveva voluto dire quella donna? Forse stavolta
i bipedi erano già arrivati sul satellite?
Per la strada,
la gente camminava svelta, ma qua e là alcuni gruppetti commentavano
concitatamente qualcosa, agitando i loro foglietti di carta. Henry esaminò
meglio il suo. Nel centro della prima pagina spiccava una fotografia
piuttosto confusa della Luna illuminata dal Sole. Più in basso, l’immagine
di una piccola astronave. Poi nient’altro che segnetti neri, più o meno
grandi. Henry capi quasi subito. Anche quello doveva essere un mezzo dei
bipedi per comunicare. Un’altra fatica per supplire alla cattiveria della
natura che li aveva privati dei poteri telepatici. Cominciò ad osservare
meglio i segnetti. Molti erano uguali ed erano raggruppati in piccole
schiere di varia lunghezza.
- Senti qui -
disse un uomo a un altro. - Gli americani saranno i primi. L’astronave per
la luna con tre uomini a bordo, pronta per il 1960! - e indicò dei segnetti
più marcati che stavano proprio all’inizio del foglio. - Dicono sempre
così - aggiunse l’altro, stringendosi nelle spalle - e poi fanno certe
figure! Non mi stupirei che al loro arrivo sulla luna trovassero gli altri,
con tanto di banda, a riceverli!- I due si allontanarono ridendo.
Ora Henry aveva
compreso: quei segni erano la traduzione visiva dei suoni, dei pensieri.
Ammirò la genialità del sistema e cominciò subito a cercarne la chiave.
Non gli fu difficile: la frase letta dall’uomo gli fornì le basi, e dopo
qualche tentativo, cominciò a compitare. Infine riuscì a leggere
velocemente. Da quanto si diceva su quel foglio, i bipedi non erano ancora
arrivati sul loro satellite, ma stavano preparandosi per fare il primo
balzo. Dapprima non capì che cosa volesse dire l’affermazione che una
particolare specie dl bipedi sarebbe arrivata ‘prima’, poi si ricordò
che le ultime immagini che la Gran Madre gli aveva trasmesso, riguardavano
due fazioni di bipedi, ostili tra loro. Il concetto di inimicizia gli era
strano come ogni altra cosa che riguardasse il sentimento. Ma quei poveri
bipedi non avevano una loro Gran Madre infallibile, erano isolati,
paurosamente soli. Poi pensò che lui era venuto per ucciderli: forse l’inimicizia
era qualcosa di simile. Si fermò davanti a un altro abitacolo pieno di quei
fogli stampati e lesse i segni più grossi. Le cose stampate erano quasi
sempre contraddittorie. Forse ogni bipede esprimeva così il suo pensiero e
il loro isolamento non permetteva di seguire la verità. Nell’armonia dell’Universo,
questa razza era una nota stridente. Ecco perché la Gran Madre gli aveva
ordinato di farla sparire.
Un’immagine a
colori attrasse la sua attenzione. Rappresentava una elegante astronave
proiettata contro le stelle. Henry si fece più attento. Qualcosa, in quell’immagine,
gli era vagamente familiare. Il titolo diceva: "I signori dello
Spazio".
- Ciao! -
Il suono
melodioso della voce di Lucy lo fece sobbalzare. Per un momento non ci
furono che i luminosi occhi azzurri della ragazza.
- Ciao! -
Henry sorrise e
le si avvicinò. Quel bipede lo attirava come un bosone in un campo
elettrodebole. Se tutti fossero stati come quello, lui non avrebbe potuto
portare a termine la sua missione. L’accarezzò con lo sguardo: i lunghi
capelli bruni, le curve armoniose del corpo, di un corpo come il suo eppur
così profondamente diverso, i tratti gentili del viso… e di nuovo si
perdette nell’azzurro dei grandi occhi.
Cercò di
dominarsi. Un pensiero lo tormentava: uccidere quel bipede non poteva essere
una cosa giusta. In lui si specchiava l’armonia delle energie del Cosmo.
- Oh! - scherzò
Lucy, prendendolo per mano - Prima eri incantato davanti alla tua opera e
adesso ti sei incantato davanti a me? Lo sai che cominci a preoccuparmi?-
Henry si scosse.
Sorrise e balbettò qualcosa. Poi fissò Lucy.
- Hai detto:
"la mia opera"? – e intanto entrò nella niente di lei per
penetrare la risposta prima che la ragazza la esprimesse in suoni.
- Già. Non era
‘ I signori dello Spazio', quel libro? –
Henry riceveva intanto dal
cervello di Lucy più esaurienti spiegazioni. L’immagine che l’aveva
attratto era il frontespizio di un libro, qualcosa come un giornale, ma più
complesso. E quel libro l’aveva scritto lui, per pagarsi la pensione e gli
studi. Pagare... dare dei dischetti per avere roba, e lavorare per avere
quei dischetti... Allora doveva essere il suo corpo ad averlo scritto, cioè
il vero padrone di quel corpo, eppure...
Si voltò dl scatto. Il libro
era scomparso.
- Voglio quel libro, quel libro
che stava qui...- L’uomo lo guardò con aria interrogativa.
- "I Signori dello
Spazio"... - articolò ansiosamente Henry.
- Ah, quello di fantascienza! -
si illuminò l’altro - Mi dispiace, ma proprio adesso è passato un
signore e me li ha comprati tutti. Non ne tengo molte copie di quella roba.-
Henry sentì il sangue
circolargli più in fretta, mentre qualcosa dentro dl lui lo spingeva ad
agire, lo incitava a sfogarsi su qualcosa o su qualcuno. Poi si calmò,
esausto per quell’altra novità che era stata l’ira. Lucy rise.
- Perbacco che successo! Ti
comprano le copie a decine alla volta! Meno male che me ne sono fatta dare
una. Tra qualche anno... - Henry la interruppe.
- Tu ne hai una?- Lei lo
guardò, preoccupata - Ma Henry, non ti ricordi? Mi hai fatto anche la
dedica …-
- Lo voglio... - Si interruppe.
Il cervello di Lucy gli mandava onde crescenti di sospetto. -
Lucy... voglio leggerlo, io...
rileggerlo…-
- Va bene, va bene. Domani te lo
porto, ma non c’è bisogno di agitarsi tanto. In fondo si tratta solo di
un libretto scritto per guadagnare qualche soldo, e non di un’opera d’arte.
O almeno così mi hai detto.-
Henry non parlò, ma seppe che
Lucy non l’aveva ancora letto e che era sincera. La ragazza lo prese
sottobraccio.
- E adesso andiamo a vedere
questa partita di pallacanestro.- Guardò il giovane e gli sorrise. O ti eri
dimenticato anche di quella?-
Henry si
affrettò ad assicurarle il contrario. Ormai il cervello di Lucy era in
allarme. Temeva per la sua salute o qualcosa del genere. Lui doveva stare
attento a non correre rischi sciocchi. In fondo quel libro lo aveva colpito
e gli era sembrato familiare perché lo aveva scritto il suo corpo e, come
già era successo altre volte imbattendosi in cose e persone, cosi
ricordavano i suoi sensi,
Camminavano in fretta. Henry
sentiva a tratti il corpo della ragazza sfiorare il suo e uno strano
languore lo prendeva allo stomaco. Stringeva il braccio di lei contro il
proprio fianco per assaporare meglio il dolce tepore che sprigionava.
Nessuno dei due parlò.
Henry pensava a
se stesso, alla sua vera identità: pensava ad Arek e quasi riusciva a
dividere le due cose. Un involucro oblungo, biancastro, immerso in un buio
eterno, senza emozioni, in una quasi perfezione universale. Questo era lui
e, indubbiamente, la scala evolutiva era arrivata, con la sua razza, ad uno
degli ultimi gradini, dopo i quali si apre il regno della pura essenza,
della pura energia. Quei bipedi, a cui aveva rubato le sembianze, erano
invece ancora ben lontani da tutto ciò: confusi, turbolenti, isolati,
limitati, eppure caldi, pulsanti, con una piacevole forza fisica, residuo
bestiale, ma che lui non riusciva a disprezzare. E poi c’era Lucy. Che cos’era,
quel bipede? Quale attrazione invisibile, inspiegabile, li legava? Perché
non trovava traccia di ciò neppure nei recessi della mente di lei?
La ragazza lo
guardò e gli sorrise, stringendoglisi addosso per un attimo. Henry si senti
avvampare, poi, nei limpidi occhi della sua compagna, trovò una dolcezza
infinita, eterna, riservata a lui solo. Senti il desiderio di staccare un
pezzo di se stesso, del suo corpo caldo, per darlo a lei. Sentì il
desiderio di essere aspirato e bruciato, come i gas che lei assorbiva a
pieni polmoni, sentì il desiderio di essere divorato dalla sua bocca e
nello stesso tempo di divorare lei...
Le passò un
braccio attorno alle spalle e Lucy si abbandonò fiduciosa, appoggiandosi a
lui. Henry sentì il bisogno di proteggerla e di difenderla. Avrebbe voluto
poter creare dei pericoli per poterla salvare. Poi d’un tratto si ricordò
che il pericolo c’era, e mortale: lui!
XII
Edmund Wohler
puntò verso l’alto. Il cielo azzurro, limpidissimo, gli venne incontro
come un oggetto solido. Il jet vi si tuffò a mille chilometri orari. Il
piccolo aereo ubbidiva alle mani di Edmund con una sensibilità così
perfetta, che il pilota aveva la meravigliosa sensazione di essere una cosa
sola con la sua macchina. Disegnò nel turchino una gigantesca O, e di nuovo
si lanciò in avanti.
Dapprima gli
parve uno strano riflesso verdastro, causato forse da una particolare
rifrazione atmosferica. Era un grosso alone opalescente. di forma ovoidale.
Esitò per una frazione di secondo. Aveva sentito parlare di temibili
fulmini circolari, vere e proprie centrali elettriche, pronte a scaricarsi
su qualsiasi oggetto che fosse entrato nel loro raggio. In quella frazione
di secondo, passarono nella mente di Edmund un’incredibile quantità di
scene: la biondissima ossigenata con cui aveva appuntamento la sera stessa,
le sbronze con gli amici nei giorni di riposo, la villetta messagli a
disposizione dal Comando, con tanto di cameriere negro, il volume
considerevole della sua busta paga settimanale, e il piccolo ranch che si
sarebbe comprato di li a cinque anni, appena terminata la sua carriera di
collaudatore. Non si diventa piloti collaudatori di apparecchi a reazione se
si hanno delle esitazioni più lunghe di qualche frazione di secondo e
nonostante questo, pochi riescono ad arrivare vivi alla fine dei sette anni
di contratto. Per questo la Casa Bianca concede loro villette, servi e una
cospicua paga. C’è anche un vistoso premio in caso di morte, ma a questo
i piloti preferiscono non pensare.
Il jet puntò
risolutamente contro la strana luminescenza. Balzò in avanti, ingoiando
torrenti d’aria dalle sue bocche spalancate e sputandola rovente e
infiammata dagli ugelli posteriori.
Il pilota si
preparò a vedersi balzare addosso il gigantesco alone, e invece questo
rimpicciolì notevolmente. Sbatté le palpebre: aveva lanciato in avanti l’aereo
e questo sembrava invece essersi allontanato dall’obiettivo. Il jet fece
un nuovo prodigioso balzo: adesso l’ovale verde fuggiva! Chiaramente si
andava allontanando a una velocità superiore a quella del jet del povero
Edmund che non riusciva a credere ai propri: il suo quadrante segnava
milleottocento chilometri l’ora! Tirò a sé la manopola per lo sgancio
dei serbatoi di riserva. Ora aveva solo una ventina di minuti di autonomia,
ma poteva aumentare ancora la velocità. Il jet avrebbe avuto un collaudo
davvero definitivo! Intanto cercò di comunicare con la base.
- Tutto bene.
Sganciato i serbatoi per inseguire una specie cosa verdastra che si muove
forse a oltre duemilacinquecento chilometri orari. Non riesco a capire di
che si tratti. Forse un disco volante. Cerco di andare a bussargli sull’uscio.-
- Qui base. Edmund, torna
subito! Può essere pericoloso! –
Il jet aumentò la velocità,
rincorrendo la forma oblunga che gli sfuggiva, apparentemente senza spinta
di alcun genere, in barba al povero Newton e alla sua legge della gravità.
- Avete paura di dover versare l’assicurazione
ai miei eredi? Duemilaseicento... Adesso mi sembra di aver raggiunto la
velocità della "cosa"! Duemilasettecento...-
- Qui base. Ed, sei impazzito!!
Non ce la farai più a tornare! Vieni giù! E’ un ordine! -
- Duemilaottocento. Guadagno
terreno... quest’apparecchio è una meraviglia, non c’è una vibrazione.
Duemilaottocentocinquanta... duemilanovecento... tra poco ci siamo...-
- Edmund! Qui base! E’ un
ordine! Torna giù! Subito! Maled...-
- Tremila... Ragazzi, questo si
chiama andare! Se non torno, salutatemi la mia bionda! Verrà al campo verso
le sei, la riconoscerete subito, conoscete i miei gusti. Tremilacento,
ragazzi... se non ci sarò io, non lasciatela sola, è un tipo che sa tener
compagnia. Tremiladuecento... Gli sono addosso...-
- Qui base! Non aumentare più,
ti salterà in mano! Edmund! Ci senti? –
Il jet di Wohler, scottante per
l’attrito con l’aria lacerata, si tuffò decisamente contro la
misteriosa luce verde. Saranno mancati forse dieci chilometri, quando la
luce opalescente cessò di colpo, e apparve, in tutta la sua lucentezza
metallica, uno scafo dalle linee armoniosamente curve, ripetenti ai lati il
disegno di una goccia d’acqua, convesso nella parte superiore, come una
bolla d’aria.
Il sole picchiò, crudo,
riverberando la sua luce, spezzettata dalla lega metallica in tutti i colori
dello spettro, sulla meravigliosa nave degli spazi.
La sorpresa per Edmund fu troppo
forte. I suoi nervi ebbero un attimo di esitazione. La solita, tipica,
mortale esitazione che non permette ai piloti collaudatori di arrivare vivi
al sospirato piccolo ranch.
- Non è... E’
un... -
La voce di
Edmund Wohler si interruppe nella radio della base. Chi era in ascolto seppe
che nessuno l’avrebbe udita mai più.
Il jet, lanciato
alla sua velocità massima, ingoiò in un attimo i dieci chilometri di
spazio e si dissolse in una nuvola di vapore ardente contro le barriere
magnetiche della misteriosa astronave.
Nei dossier del
Pentagono, sotto la voce "Dischi e oggetti volanti di provenienza
sconosciuta" venne archiviato anche il caso del pilota collaudatore
Edmund Wohler. Tutti i posti di avvistamento del continente, scrutarono
invano i cieli per quarantotto ore consecutive. Eppure l’astronave era
là, però nuovamente avvolta nel suo manto opalescente che la rendeva
assolutamente inavvistabile Ai radar, di cui assorbiva le onde,
riemettendole dietro di sé, con uguale frequenza.
Quella sera, al campo, ci fu
lutto. Tuttavia la bionda di Edmund si trovò un altro ragazzone e non si
accorse quasi della differenza, Il giorno seguente, al nuovo sole, la vita
riprese il suo ritmo. La morte è troppo vicina ai seggiolini sganciabili
dei jet perché coloro che ci si siedono sopra soffermino il pensiero nelle
sue occhiate desolate.
Assai più a
lungo, invece, la morte di uno sconosciuto Figlio della Terra, venne
rimpianta dagli ominidi rossi dell’astronave.
I Figli della
Terra, schiacciati dal peso di una maledizione, erano rimasti indietro nella
corsa agli spazi, ma restavano pur sempre i depositari della Civiltà Prima.
Krl si fece passare una mano
sulle orecchiette appuntite. I suoi occhi, liquidi e incolori, erano tristi.
Mai avrebbe voluto la morte di uno dei grandi uomini del pianeta Terra, ma c’era
la Legge! La Legge stabilita proprio dai Figli della Terra! Sospirò, e poi
fece passare le sue piccole dita in alcune scanalature, su un quadro di
comandi. Una parete della cabina si illuminò. L’immagine si mise a fuoco.
Dapprima apparvero, confusamente, i contorni delle due Americhe, poi l’immagine
si ingrandì rapidamente. Ora le linee frastagliate di una piccola penisola,
occupavano per intero la parete. L’immagine ingrandì ancora, fino a
centrarsi su un grande spiazzo. Larghe e basse costruzioni di cemento armato
lo limitavano da un lato. Sul tetto di una di esse era dipinto a caratteri
enormi: CAPE CANAVERAL.
Krl sorrise. stato un bersaglio
molto facile. Questo era un buon segno. I Figli della Terra non dovevano
temere alcuna aggressione per ostentare a quel modo la presenza della loro
base più preziosa.
Un ordinato, imponente movimento
avveniva sullo spiazzo. Attorno ad enormi tralicci di acciaio, andavano e
venivano grossi mezzi cingolati. Potenti braccia meccaniche innalzavano
pesanti lastre di metallo. Krl si passò ano sul mento rotondo e si la fitta
peluria che gli spuntava dalle larghe narici. Non c’erano dubbi: i Figli
della Terra stavano attuando il progetto annunciato. Forse tra qualche mese,
essi sarebbero saliti nello spazio ad occupare il posto che a loro spettava.
O almeno avrebbero tentato, come millenni prima. Questa volta però, il
pianeta Terra era tutto, o quasi, popolato da genti di uguale civiltà.
Lo schermo si
annebbiò e Krl fece scorrere le dita in altre scanalature. Adesso una vasta
distesa gelata riempì la parete luminosa. Poi un altro spiazzo, altre
larghe costruzioni e altri Figli della Terra intenti allo stesso lavoro. Sul
tetto di un edificio stava scritto: Atomgrad. Qui l’astronave era quasi
compiuta e i lavori procedevano rapidamente. I tempi stringevano, e Krl si
augurò che I Figli della Terra fossero all’altezza del loro destino.
Lo schermo si
oscurò nuovamente. Krl si avvicinò a un microfono e disse qualcosa con una
vocetta sibilante, come un insieme di consonanti senza vocali.
Una voce simile
alla sua, suonò nella cabina. Dopo di che, Krl prese posto in una semisfera
traslucida. Sibilò ancora qualcosa e attese la risposta. Infine introdusse
un dito in un forellino scavato sul bordo della cuccetta sferica. Il
contatto avvenne per un attimo, l’alone verdastro che nascondeva l’astronave
scomparve. Una forza terribile contorse lo spazio attorno allo scafo e lo
proiettò a cinquanta milioni di miglia.
Krl vinse la
nausea prodotta dal grande balzo. Saltò fuori dalla sua semisfera e
riaccese il grande schermo televisivo.
La superficie
rossastra di Matte riempì la parete. L’immagine della crosta del pianeta
era nitida e precisa. Rarissime nuvole si muovevano lentamente, diradandosi
e ispessendosi qua e là.
L’immagine
cominciò ad ingrandire. Ben presto una grande distesa di arditissimi
palazzi, occupò lo schermo. Erano costruzioni enormi, alcune delle quali
dovevano superare i seicento metri di altezza. Ardite nelle loro linee e nei
loro disegni, ma assai poco difformi dalle case terrestri. Grandi vetrate,
giardini pensili, terrazze schermate, ed ampie strade percorse da piccoli
veicoli che parevano rasentare il suolo senza toccarlo.
Krl sibilò nel
microfono:
- Missione di
osservazione ventinovemilaseicentoquarantatré. Krl ad Anth, urgente.-
Un fruscio
invase la cabina, e poi:
- Osservazione
29.643. Precedenza di primo grado. Astroporto Ulm.-
Krl respirò
soddisfatto.
L’astronave
scivolò dolcemente sulla città immensa, e si fermò, qualche minuto più
tardi, sospesa nel vuoto a un’altezza di duemila metri, sopra un quadrato
rosso i cui lati non superavano il chilometro e mezzo. Poi con lentezza,
prese a scendere perpendicolarmente. Si posò sulla sabbia compatta e
cementata, con la stessa leggerezza di una foglia, e con rumore ancora più
lieve.
Un piccolo
veicolo trasparente si staccò dai bordi del campo e si avvicinò rapido all’astronave.
Non toccava il suolo, scivolava a qualche centimetro da esso.
Una fessura si
formò su un lato dell’astronave e prese ad allargarsi. Appena fu
possibile, Krl si affacciò. Il veicolo si accostò e lui vi prese posto.
Nessuno lo guidava, tuttavia la strana macchina, docilmente, voltò e si
allontanò verso l’imbocco di un alto edificio. Intanto un’altra assai
più grande, provvedeva al trasporto degli altri membri dell’equipaggio
dell’astronave, in tutto e per tutto simili a Krl.
Il piccolo
marziano venne depositato in una stanza sferica e la macchina scivolò via.
Krl tranquillamente, con i gesti dettati evidentemente da una lunga
abitudine, si slacciò il corpetto marrone che costituiva il suo unico
abbigliamento e lo infilò in una fessura. Un lampo bluastro gli confermò
che era stato distrutto. Poi il marziano fece correre un dito in una
scanalatura e la sfera cominciò a riempirsi di un gas sottile e rosato.
Infiniti, piccoli ugelli, lo soffiavano con forza nella sfera. Krl si
avvicinò ad uno di essi ed ebbe particolare cura che il getto lo investisse
completamente.
Dopo una mezz’ora,
il gas cessò di uscire e l’apparecchio semovente riapparve. Krl vi si
accomodò e subito la macchina lo trasportò in un’altra sala. Qui, j un
getto potente di minutissime particelle di sabbia, investì il piccolo
marziano che sembrò godere molto quel trattamento. Infine, con un corpetto
nuovo, venne portato di fronte a una grande parete di piombo. Apparentemente
non accadde nulla, ma qualcuno dovette essere soddisfatto perché una voce
risuonò nella stanza:
- Controllo
eseguito. Tutto bene. Via libera. –
Krl trotterellò
via sulle piccole gambe. Sbucò su una grande terrazza schermata da cui
godette la vista panoramica di Slva, capitale e unica città del Marte.
Due marziani gli si
avvicinarono.
- Krl, Anth, il Figlio della
Terra ti aspetta.-
Krl sentì le ginocchia
piegarglisi sotto. Anth! Il Figlio della Terra in persona!
La grande sala
del trono non era dissimile da tutte le altre. In mezzo ad essa, però,
sorgeva uno scranno azzurro. Proprio al centro di una grande stella incisa
sul pavimento.
Anth sedeva
sullo scranno. Di statura notevolmente più alta di Krl, sembrava una via di
mezzo tra un terrestre e un marziano E in realtà era proprio così.
Il colore chiaro
della sua pelle, le orecchie poco appuntite, la scarsità dei peli delle
narici, l’iride castana degli occhi, erano segni decisamente terrestri.
Krl entrò con
tutta la dignità di cui si sentiva capace. Però non osò fissare lo
sguardo colorato del Figlio della Terra. Anth parlò:
- Krl, vieni
avanti. Cosa stanno facendo i miei disgraziati fratelli?- Krl avanzò.
- Anth, Figlio
della Terra, i tuoi fratelli sono quasi pronti. Tra un quarto di giro
intorno al Sole, saranno negli spazi!- Anth strinse le mascelle.
- Con l’energia
dell’atomo?! - e la voce sorda rese la domanda disperata.
Krl non rispose,
ma chinò il capo. Anth si alzò e misurò la sala a grandi passi.
- Uno dei tuoi
fratelli è venuto a disintegrarsi contro le batterie magnetiche dell’astronave
mentre ero in osservazione a bassa quota sul pianeta Terra.-
Anth parve non
udire. Krl non osò più parlare. Pian piano, Anth si ricompose. Sorrise a
Krl che aveva trovato finalmente il coraggio di guardarlo in faccia.
- Krl, il tuo
pianeta ha compiuto più di settemila giri intorno al Sole, dal giorno in
cui i nostri avi si promisero amicizia e reciproco aiuto. Settemila anni.
Quattordicimila anni terrestri.. e adesso la mia gente è nuovamente pronta
a salire negli spazi. Ma temo che la lezione avuta molti millenni fa non sia
servita, essa è andata persa. Una vaga leggenda è tutto quanto rimane
della civiltà dei miei avi. Ora i terrestri si apprestano nuovamente a
forzare di prepotenza le leggi del cosmo, e nuovamente andranno incontro
alla catastrofe. Forse qualcuno si salverà e tutto ricomincerà un’altra
volta... Ma forse non si salverà nessuno. Quando i miei avi arrivarono qui
e decisero di conservare il più possibile pura la loro razza, ubbidirono a
un istinto e a una vaga speranza di vedere un giorno nel cielo una delle
loro astronavi, poi, con l’andar dei secoli, il ricordo della Terra si
affievolì, ma la Legge era stata scritta. Dormì, quasi dimenticata, per
interi millenni, e le nostre razze si fusero sempre di più, tranne che per
una famiglia, quella degli Anth, i capi, che dovevano tenere viva la
fiaccola della loro origine. Poi la scienza dei miei avi e l’intelligenza
dei nostri popoli ci portarono nello spazio. Noi abbiamo messo a frutto la
lezione avuta e le Leggi dell’universo sono le Leggi delle nostre navi.
Trovammo i miei fratelli ancora molto indietro sulla scala della civiltà:
avevano ricominciato tutto daccapo e neppure si ricordavano dei tempi in cui
erano arrivati alle soglie dello spazio! E applicammo la Legge! Nessuna
razza deve essere aiutata nella conquista dello spazio. Chi riesce a
dominarlo è sicuramente degno di starci, chi non riesce vuol dire che non
è ancora maturo per una tale impresa: aiutarlo potrebbe significare morte!
I miei fratelli hanno ribattuto le stesse vie di un tempo. Temo che il
lancio della loro prima astronave coinciderà nuovamente con la loro rovina!
-
Krl parlò:
- La Legge
accenna a un intelligenza superiore e infallibile che agisce nell’interesse
di ogni essere. Essa non può volere la distruzione dei Figli la Terra,
della razza prima è giunta alla civiltà in questo Sistema! -
Anth guardò Krl:
- La salvezza
dei miei avi e la mia stessa esistenza provano infatti che è stato preciso
volere di questa intelligenza voler salvare la mia razza. Ora, anche se il
pianeta Terra verrà distrutto, la razza sopravviverà ugualmente tramite
quelli che sono sul tuo pianeta. Anche se lentamente finiranno col fondersi
in modo definitivo con voi, ma forse proprio questo è il meglio per tutto
il sistema... Forse è la tua razza quella destinata ad essere la prima dei
nove pianeti!
- Noi non
vogliamo usurpare il posto che spetta ai Figli della Terra, ma se il destino
sarà quello che tu prevedi, noi porteremo la verità agli estremi confini
della Galassia: noi, ma il merito sarà ugualmente vostro! –
Anth guardò,
commosso il piccolo marziano.
- Grazie, Krl,
non so se i miei fratelli siano degni di tanto! -
Krl stava per
ribattere, ma un gentile cenno di Anth lo costrinse a tacere.
- Il Gran Consiglio vorrebbe
aiutare il pianeta Terra. Io mi sono opposto. La tua gente conosce soltanto
sentimenti nobili e buoni: essi sono i più adatti a conquistare gli spazi.-
- Ma tu e il tuo
popolo siete tutta la nostra scienza - protestò Krl, sincero, come era
nella natura del popolo di Marte. Anth continuò come se non lo avesse
sentito.
- Da oltre
duecento anni terrestri, noi osserviamo la mia gente. Li abbiamo visti
uccidersi, uccidersi e uccidersi ancora. Forse è davvero bene che loro non
salgano mai negli spazi.-
Krl si passò
una mano sulle orecchie aguzze e con la sottile lingua si umettò le labbra.
Anth si avvicinò alla enorme vetrata che formava la quasi totalità delle
pareti. Sotto di lui si stendeva Slva, in tutta la sua impressionante
audacia e imponenza; oltre, laggiù all’orizzonte, il rosso deserto del
pianeta, tormentato da continue bufere di sabbia. Nella pallida luce del
giorno morente, il grande schermo protettivo che circondava, a mo’ di
cupola, l’intera città, era reso visibile dagli ultimi barbagli del
piccolo disco del sole.
Anth era triste,
I piccoli, gentili esseri di quel pianeta agonizzante e torturato, forse non
sarebbero sopravvissuti senza l’apporto della scienza atlantidea. Ma essi
avevano imparato presto ed ora erano bene in grado di vincere qualsiasi
ostacolo naturale. Forse avrebbero potuto anche porre il loro pianeta in un’orbita
più vicina al sole, se non avessero avuto un innato, invincibile rispetto
per l’ordine naturale delle cose.
Le grandi narici pelose che
avevano permesso loro di sopravvivere e respirare anche quando la sabbia li
avvolgeva come un liquido muro rosso, adesso non servivano più. L’abbondanza
dei cibi sintetici e dell’acqua ottenuta direttamente combinando idrogeno
e ossigeno avrebbe, a lungo andare, aumentato la statura della razza. La
schermatura contro i raggi ultravioletti del Sole avrebbe dato colore ai
loro occhi e schiarita la loro pelle. Sarebbero diventati assai simili alla
gente della sua razza, assai simili nell’aspetto, ma migliori nell’animo
e nel cuore. Migliori senza averne particolari meriti, migliori per virtù
della Natura...
Krl non si era mosso. Anth lo
guardò e si rasserenò.
- Abbandonate l’osservazione
del pianeta Terra. Tutte le astronavi tornino alle basi. Noi non
interverremo! -
Krl ebbe un moto di protesta, ma
Anth si era di nuovo voltato verso la vetrata. Ora Slva si accendeva di una
luce dorata, diffusa, senza ombre. Le grandi strade si riempirono di veicoli
in un traffico
denso ma pacifico e ordinato. Krl, prima di uscire, sentì Anth, il Figlio
della Terra, mormorare tra sé:
- Li aspetteremo
qui... Se ci arriveranno, saranno anche degni di starci... -
XIII
Le labbra
tiepide della fanciulla premettero sulle sue. Un brivido estenuante gli
corse lungo la schiena. Le braccia gli penzolavano, inesperte, lungo i
fianchi. Poi, ubbidendo a un impulso irrazionale, la strinse a sé, dapprima
con dolcezza e poi quasi con ferocia.
Il corpo di Lucy
aderì completamente a quello di Henry e Arek sentì formicolare nelle sue
vene una sete ardente che lo scombussolò. La ragazza, dopo un ultimo bacio,
si liberò dalle sue braccia e corse in casa. Il portone si chiuse dietro di
lei con un sordo tonfo. Henry si ritrovò solo, nella strada scarsamente
illuminata. La sua mente era in subbuglio. Meccanicamente tornò sui propri
passi. Che cos’era il senso struggente che lo spingeva ad anteporre quel
bipede dai lunghi capelli bruni a se stesso, alla sua missione, a tutto l’Universo?
Respirò
profondamente l’aria frizzante della notte. Doveva scacciare l’immagine
di Lucy dai suoi pensieri! Doveva agire e agire subito, altrimenti non
avrebbe agito mai più. Affrettò il passo: dall’apparecchio televisivo di
quello che doveva essere la sua casa, avrebbe preso il necessario per
costruire il di dispositivo che avrebbe portato il pianeta dei bipedi in un’orbita
così esterna che il gelo avrebbe soffocato di colpo e per sempre ogni
essere vivente.
Lucy...
Scacciò con uno
sforzo l’immagine della ragazza, questa ritornava, dolce, ossessiva,
affascinante. Tutto teso in questa sua lotta, Henry infilò più per istinto
che coscientemente, il portone del palazzo in cui abitava.
Attraversato il
buio androne pose il piede sul primo scalino.
Una vivida luce
lo colpì l’improvviso. I suoi occhi abbacinati non riuscivano a
distinguere nulla. Una mano apparve nel fascio di luce. Teneva una copia del
libro di fantascienza cui copertina aveva, qualche ora prima, attirato l’attenzione
di Henry. Un’astronave, dalle belle linee eleganti, proiettata contro le
stelle. Una voce maschile, profonda e ferma, lo interpellò.
- Sei tu l’autore
di questo romanzo? -
Henry allungò
le sue dita neuroniche per afferrare il cervello dell’uomo che si
nascondeva dietro il fascio luminoso della torcia elettrica, ma ricevette in
risposta una scarica dolorosa. Henry allibì: quell’uomo misterioso aveva
prontamente chiuso la propria mente, e lui era incapace di forzarla!
L’uomo ritirò
il libro.
- Questa è una
risposta esauriente! Vieni, sono quindicimila anni che ti aspettiamo! Non ti
faremo alcun male.-
Henry esitò.
Tutto avrebbe potuto prevedere, ma non una situazione di questo genere! L’evoluzione
di quei bipedi, che lui aveva visto vivere sugli alberi, doveva aver
percorso ben rapidamente la propria strada! Questi esemplari erano
perfettamente padroni dei propri cervelli! Perché, adesso che l’uomo
aveva spento la torcia, lui distinse chiaramente i contorni di altri due
bipedi, e i loro cervelli erano ermeticamente chiusi! Non poteva nulla,
contro di loro!
Quello che
sembrava il capo, gli si avvicinò e lo prese strettamente sotto braccio.
- Tu non sai chi
siamo, ma ti diremo tutto a suo tempo. Ora devi seguirci. Questo forse
intralcerà i tuoi piani, ma ci concederai il diritto di capire, prima di
accettare un destino sul genere di quello che credo tu ci stia preparando!
Andiamo! –
Henry seguì l’uomo,
e gli altri due si misero ai suoi fianchi. Di tanto in tanto, cercava di
forzare le barriere mentali dei suoi rapitori, ma senza alcun risultato. Il
gruppetto percorse alcuni isolati senza parlare, poi Henry fu spinto nel
portone di un palazzo. Salirono tutti su di un ascensore che al loro
ingresso si illuminò. Finalmente poté guardare in volto i tre uomini. Due
di essi erano di mezza età ma il terzo, quello che lo stringeva da presso,
non aveva un’età definibile. Indubbiamente molto vecchio, serbava negli
occhi e nella dignità della persona qualcosa che lo poneva fuori del tempo.
Il suo sguardo metallico si fissò negli occhi di Henry.
- Il mio nome
non ha importanza. Tutti mi chiamano Gran Maestro. Ti aspettavamo, ma
temevamo di non saperti riconoscere. Per fortuna tu ci hai facilitato il
compito scrivendo questo libro! - e nuovamente mise "I Signori dello
Spazio" sotto gli occhi di Henry. Egli guardò attentamente la figura
dell’astronave e trasalì. Ecco che cosa lo aveva colpito in quel disegno!
Ma com’era possibile? Lui non l’aveva scritto! Era stato Henry, il vero
Henry, a farlo! Ma allora, com’era possibile che nell’ugello posteriore
dell’astronave si distinguesse chiaramente un dispositivo antigravità?
Esattamente uguale a quello che lui avrebbe dovuto costruire per distruggere
la civiltà dei bipedi? Chiuse gli occhi, sommerso dall’assurdità della
sua scoperta.
Il Gran Maestro
continuò, con la sua voce profonda e suadente:
- Non so perché
tu l’abbia fatto, ma senza questo libro non ti avremmo mai scoperto. Non
sapevamo neppure bene, in fondo, quello che cercavamo, anche se sapevamo che
questo era il momento giusto. Tutti eravamo certi che saresti tornato. -
Henry radunò le
sue forze psichiche e si lanciò all’assalto del cervello del suo
interlocutore. Per un attimo si illuse di riuscire a sfondare la barriera
che proteggeva il cervello del bipede, ma questi si riprese subito e gli
sorrise.
- Lascia stare.
Sai bene che non ci puoi riuscire, se io non voglio! Ma a suo tempo ti
permetterò di sondarmi a fondo, cosi capirai! -
- Lo spero, ma
non illudetevi di riuscire ad impedire che quanto è stato deciso si compia.
Questo corpo che avete catturato non ha alcun valore. Distruggetelo, ma non
distruggerete me... - Henry barava, ma stava tentando disperatamente di
tracciarsi una linea di condotta.
Intanto l’ascensore
arrivò a destinazione. La sua porta si apri su di una spaziosa terrazza, in
cima a un altissimo palazzo. Nel buio, contro il cielo, si distingueva la
sagoma di un elicottero. I quattro vi presero posto e il rudimentale aereo
prese quota.
Il viaggio si
protrasse per diverse ore. Henry non avrebbe mai supposto che quella
macchina potesse salire tanto in alto e volare tanto forte. Anche in essa
qualcosa gli sfuggiva. Possibile che la Gran Madre avesse commesso qualche
errore? O forse aveva previsto tutto e faceva parte dei suoi calcoli anche
il fatto che lui non fosse al corrente di alcune cose su quegli strani
bipedi? Ma perché, se suo dovere era quello di distruggerli? No, lui non
doveva solo distruggerli. Doveva prima osservarli e poi distruggerli.
Perché?
Il Gran Maestro indicò qualcosa
dall’oblò, rivolgendosi a Henry.
- Non ti dice niente? -
Si affacciò:
una distesa gelata si stendeva a perdita d’occhio sotto l’elicottero che
ormai volava a poche centinaia di metri dal suolo. Il Gran Maestro sorrise,
ma il suo sguardo rimase metallico e freddo.
- Cosi hai
ridotto il mio Paese, e adesso avresti voluto i durre cosi tutto il pianeta.
Davvero credi che sia giusto? –
Henry capì.
Quella terra desolata lui l’aveva vista fertile fiorente, al posto di quei
ghiacci ricordava snelli palmizi ondeggianti sotto un sole dorato dove
adesso batteva un mare buio e freddo ridevano, piene vita, le belle case
degli Antlantidi.
- L’Antartide! - sospirò tra
sé il Gran Maestro.
- L’Atlantide! - si lasciò
sfuggire Henry.
Il Gran Maestro lo guardò
nuovamente.
- Già - mormorò, - L’Atlantide!
La culla della civiltà! La terra di un popolo che avrebbe dominato le
stelle se... - strinse ‘la mascella e per un attimo Henry ebbe una strana
sensazione allo stomaco. Era paura, ma lui non sapeva dare nome a quanto
sentiva.
- Non so chi
siate e come facciate a conoscere cose che, per quanto ne so, tutto il
vostro pianeta ignora, comunque sappiate che esiste un’intelligenza per
cui non ci sono possibilità di errore, e anche quello che può sembrare
crudele a volte è necessario per ottenere un risultato positivo, o almeno
per assicurare la sopravvivenza all’essere più evoluto.-
Il Gran Maestro
parve ad un tratto curvarsi sotto il peso degli anni e sospirò.
- Certo,
certo... Tuttavia non ho mai contestato a un animale il diritto di cercare
con ogni
mezzo di
sottrarsi alla morte decisa da un uomo per la propria sopravvivenza.-
Henry non
rispose. Sentiva, aveva sempre sentito dentro di sé, un’inspiegabile
simpatia verso quei bipedi. Inconsciamente invidiava i loro sensi primitivi
che permettevano loro di godere di sensazioni animalesche ed ora, poi, se ne
trovava davanti tre che parevano unire a quei sensi anche il controllo delle
proprie menti.
L’elicottero
si posò leggermente sul ghiaccio. Un vento freddissimo spazzava la pianura
gelata. Perché l’avevano portato laggiù? Volevano forse giustiziarlo sul
teatro di quelli che ritenevano i suoi crimini? Per un attimo Henry pensò
che per lui sarebbe stato facile fuggire e ritornare nel suo mondo, nel suo
corpo ovoidale a godersi le trasmissioni telepatiche delle migliori stazioni
della Nebulosa! Ma poi cambiò idea: questa, in fondo, era un’avventura
assai più interessante di quelle storie. E soprattutto era reale! Inoltre
sentiva una strana fiducia in quell’uomo che pareva sapere tante cose.
Il portello dell’elicottero
venne aperto e il freddo invase il piccolo abitacolo.
Il Gran Maestro
lo invitò a scendere e a seguirlo. Il ghiaccio era duro e spesso. Pareva
che nessun essere vivente lo avesse mal calpestato. Poi, all’improvviso,
da esso spuntò, come per magia, una piccola cabina di acciaio. Una fredda
luce la illuminava. I quattro uomini entrarono, e lo strano veicolo
sprofondò nelle viscere gelate del continente.
Dopo una rapida
corsa di qualche minuto, la cabina si fermò. Il Gran Maestro aprì la porta
e spinse fuori Henry. Alcuni uomini sembravano attenderli.
- E’ lui! -
esclamò il Gran Maestro.
Gli uomini lo
guardarono con curiosità ma le loro menti rimasero impenetrabili.
- Non perdiamo
tempo - incitò Il Gran Maestro - dobbiamo provare subito. E’ la nostra
unica speranza!-
Henry venne
condotto, attraverso un tunnel di metallo, in una grande sala. Dalle pareti
si sprigionava una fredda luminescenza. Nel mezzo, due lettini di acciaio,
avvolti in un intrico di fili.
Henry credette
di capire. Forse adesso era suo dovere tornare, o le porte del suo mondo
avrebbero potuto essere forzate. Ma probabilmente la Gran Madre sapeva.
Doveva sapere! Lanciò un richiamo telepatico ma non riuscì a captare
nulla. A quale orribile distanza si trovava il suo mondo? E si trattava poi
di distanza? Il Gran Maestro gli si avvicinò.
- Ascoltami. io
voglio andare nel tuo mondo. Se tu mi aiuti forse ci arriverò. Non temere,
non farò nulla contro la tua gente. Voglio soltanto difendere la mia, e
capire perché essa è stata condannata. So che, se tu volessi, il mio
viaggio non sarebbe possibile, perciò ti chiedo: vuoi concedere alla mia
razza una probabilità di salvezza? Vuoi dare alla mia gente l’opportunità
di capire, di intendersi con la tua? Da dove vieni? Come sei in realtà?-
Henry rimase
soprappensiero per alcuni minuti. Il bipede aveva ragione, ne era sicuro, ma
che cos’era lui infine se non un Trug qualsiasi addetto ai radiotelescopi?
Come poteva assumersi la responsabilità di una tale decisione? Però, d’altra
parte, che cosa poteva temere la sua gente, da uno di quei bipedi? La Gran
Madre non sarebbe mai caduta in inganno sulla vera natura dell’essere che
sarebbe entrato nel suo corpo. Poi, all’improvviso, si ricordò di Lucy.
Forse quello fu l’argomento che lo decise. Lui era prigioniero di quei
bipedi, perché impedire a quegli esseri, che lo avevano atteso così
tenacemente di tentare di salvarsi?
- Ti aiuterò! -
rispose fissando i suoi occhi in quelli grigi del Gran Maestro. Il vecchio
sorrise
- Ne ero sicuro.
Ti supponevo troppo intelligente e perfetto per negarmi una cosa simile. Da
dove vieni? -
Henry scosse la
testa. Com’era umano quel gesto!
- Non lo so. Ma
il mio mondo dev’essere tremendamente lontano. La non-località garantisce…
- si interruppe, poi chiarì - Non ci sono limiti di distanza per le
comunicazioni telepatiche, eppure non ho mai potuto mettermi in contatto con
la Gran... - si interruppe di nuovo. Doveva davvero mettere al corrente i
bipedi di tutto quello che sapeva sul suo mondo?
Ma il Gran
Maestro gli venne in aiuto.
- Quando il
cataclisma distrusse l’Atlantide, non tutti perirono. Molti attraversarono
i mari e arrivarono sulle coste del pianeta, portando agli altri uomini le
nozioni della loro civiltà. Ma si trovarono di fronte a degli esseri
primitivi che non potevano capirli. Si dovettero limitare quindi a insegnare
loro le cose più semplici, più basilari: il fuoco, la lavorazione dei
metalli, la ruota, e tutte quelle cose che essi erano in grado di capire.
Cercarono di tramandare nei secoli la loro sapienza, e soprattutto il
ricordo del cataclisma e le cause che essi supponevano fossero alla base
dello stesso. Per questo, di generazione in generazione, essi scelsero uno
dei loro figli al quale confidare il segreto, tramandandogli tutte le
cognizioni che costituivano il patrimonio morale di Atlantide.
Dapprima la
scienza poté essere trasmessa solo ai loro diretti discendenti, ma con il
passare dei secoli, essi si mescolarono agli altri uomini, si confusero e si
estinsero. Però rimase la tradizione. E mentre le civiltà nascevano e
cadevano, un secolo dopo l’altro, ci fu sempre un uomo sulla Terra che
conosceva il Grande Segreto. Quando i tempi erano maturi, una parte della
loro conoscenza veniva comunicata alle genti: scienza, filosofia, religione,
ebbero sempre impulsi decisivi dai Gran Maestri. Molti di essi divennero
famosi per il loro sapere o per la loro bontà. Alcuni sono ricordati come
grandi scienziati, altri come insigni pensatori, altri come profeti o
addirittura emanazioni dirette delle divinità. La storia della Terra ne è
piena.
Tuttavia la
maggior parte di essi rimasero, come me, nell’ombra: depositari dell’unica
speranza che l’umanità avesse di giungere alle stelle. Essi vissero tra
la gente, come la gente, con l’unico scopo di non morire prima di avere
trasmesso il loro sapere a un altro uomo. Essi sapevano che i tempi erano
lontani, ma che l’ora in cui gli uomini avrebbero avuto bisogno di loro
andava facendosi sempre più vicina. L’uomo che mi istruì, morì quando
le prime V2 piovvero su Londra. Fu una delle vittime, eppure salutò l’evento
con gioia e mi disse: "Figlio mio, cerca subito il tuo successore, ma
credo che se scamperai a queste stragi non ce ne sarà più bisogno. L’uomo
è nuovamente alle soglie dello spazio!" -
Il Gran Maestro
si interruppe, commosso forse da quella evocazione. Henry si inumidì le
labbra aride e domandò:
- Ma come avete fatto a capire
tante cose sul pericolo che minaccia la vostra gente? E perché aspettavate
la mia venuta? -
- Perché quando l’astronave
che portava i primi uomini sulla luna lasciò l’astroporto atlantideo, in
qualche modo gli scienziati seppero che un essere extra-umano si era
impossessato di un membro del1’equipaggio. Ai superstiti non fu difficile
legare l’inspiegabile allontanamento del satellite a quella presenza
extraterrestre, Restava e resta ancora da stabilire perché un’intelligenza
extraumana che viaggia psichicamente entrando nel cervello di altri esseri,
non voglia che noi si viaggi spazio. E questo è proprio quanto mi prefiggo
di scoprire se mi aiuti .-
Alcuni uomini sistemarono gli
elettrodi intorno al capo Henry, e poi li collegarono altri già posti sul
capo del Gran Maestro. Henry ammirò la calma di quel bipede che si
apprestava a compiere un viaggio molto problematico e pericoloso per salvare
i propri simili, e ubbidendo a un sentimento irrazionale, esclamò:
- Non sono stato
io, a distruggere Atlantide. E’ stato un mio simile, quattordicimila anni
fa. Se arriverai dove ti proponi, troverai un mondo del tutto diverso dal
tuo! Non ho concetti per farti capire... noi siamo... siamo una parte del
Tutto, noi esistiamo individualmente ma anche come Unità, e se l’individuo
è mortale, la Gran Madre è eterna, infallibile, all’ultimo scalino dell’evoluzione
del mondo materiale. - Poi Henry si sdraiò sul letto di acciaio, lanciando
un ultimo sguardo all’uomo. - Va’ dunque, e buona fortuna!-
Il Gran Maestro
sorrise.
- Grazie,..
amico!-
Ed Henry si
sentì improvvisamente felice. Una nebbia avvolse la sua coscienza di
esistere, ma per un attimo la mente del Gran Maestro si aperse, e lui
credette di intravedere una maggiore conoscenza della propria su qualche
aspetto dell’incredibile viaggio!
Poi fu il buio
nero dell’incoscienza.
XIV
La Gran Madre
era lì. Gli elettrodi non gli stringevano più il capo.
Cercò di
muoversi ma il moto era sconosciuto a quel corpo. Intuì la presenza di un
campo magnetico, però non poteva utilizzarlo. Cercò di aprire gli occhi,
ma la luce non venne. Credette di muovere un braccio, ma nulla si mosse.
Sentiva la presenza di un mondo esteriore, ma non aveva sensi per scorgerlo,
per udirlo, per toccarlo.
Volle parlare ma non aveva
organi adatti alla parola. Si sentì impotente, ma la sensazione non durò.
Avrebbe dovuto avere paura, ma ogni sentimento era sconosciuto a quell’essere
nel quale era entrato.
Il suo cervello era invaso da un’infinità
di pensieri estranei, immagini che lui non aveva mai visto, ragionamenti che
non aveva mai fatto. Tutto l’Universo entrava e usciva liberamente dal suo
cervello, eppure lui non ne soffriva. Provò ad isolarsi e ci riuscì.
Provò a selezionare i pensieri che riceveva e si sintonizzò su una
trasmissione telepatica.
Le distanze esistevano e non
esistevano. Il concetto di spazio era totalmente cambiato: non esisteva come
assoluto, ma solo come delimitato da grani di tempo. Dove si trovava? Come
avrebbe fatto ad assolvere il suo compito? La difesa dell’umanità! Adesso
questo gli pareva di un’importanza trascurabile!
La gioia della perfezione, della
fusione con il Cosmo, scese in lui, pacata, lucida, senza emozioni.
Cercò di ricordare il suo
pianeta, i suoi problemi, gli sforzi di migliaia di generazioni per risalire
la china della civiltà, per salire la scala dell’evoluzione. Come erano
lontani dalla meta! Miliardi di mondi roteavano negli spazi. Quale stupenda
armonia! E c’era un pericolo: il pericolo costituito dall’Uomo!
Quale cosa
insignificante la sua scomparsa! Le galassie fuggivano via roteando sui loro
assi lunghi milioni di anniluce e miliardi di miliardi di esseri salivano
verso la perfezione. La materia sarebbe diventata spirito, l’intelligenza
avrebbe ingoiato l’universo, dominato il tempo e sarebbe stata l’Eternità.
Senza principio né fine. Senza moto. Come previsto dall’equazione statica
di Schroedinger: il Nulla e il Tutto si confondevano: Dio! Creato e Creatore
inscindibilmente uniti al di fuori di ogni mutazione di ogni
perfettibilità. Meta sublime raggiunta, immobilità e somma di ogni
movimento… ma c’era un pericolo: l’Uomo! E allora che l’Uomo
scompaia, che diventi così improbabile da essere un evento insignificante
nel panorama statico del Tutto … un pericolo, ma perché?
La Gran Madre
era li, Si avvicinò e il contatto avvenne, dolce ma deciso. Il Gran Maestro
si sentì annullato. Adesso era davvero parte del Tutto.
E seppe la
verità. Il destino. La giustizia. Il passato. Il presente. Il futuro. Il
tempo senza il suo scorrere, le infinite esistenze di ogni immaginabile
possibilità di esistere nella sconfinata nebbia delle probabilità
quantistica. E nella sua linea storica, la comunione completa delle cose. I
suoi doveri. Le sue possibilità. I disegni perfetti della Gran Madre.
Quanto tempo
passò unito alla Gran Madre? Ed era tempo quello che trascorse?
Poi tornò ad
essere Arek. Un uomo nel corpo di un Trug. E doveva tornare. Doveva rendere
la possibilità a un Trug che lo attendeva nel corpo di un Uomo.
Un buio nero,
pesante, ottuso tornò a circondarlo. Il viaggio era finito. Incominciava il
ritorno.
XV
Quando riprese
conoscenza, Henry si ritrovò sullo stesso letto d’acciaio. Credette che l’esperimento
non fosse riuscito o che non fosse neppure cominciato. Gli uomini che lo
attorniavano avevano tolto schermi mentali e in tutti c’era la stessa
sensazione di delusione.
La voce pacata
del Gran Maestro risuonò nella stanza.
- Potete
liberarci, amici! –
Henry guardò l’uomo:
il suo sguardo scintillava come non mai e il suo volto era trasfigurato da
una luce interiore: qualcosa di grande doveva avvenuto in lui,
Tutti se ne
accorsero, perché in silenzio sciolsero le cinghie che li costringevano sui
lettini e staccarono gli elettrodi loro teste.
- Perché…
perché non riproviamo? — tentò timidamente Henry.
Ma il Gran
Maestro rise.
- Dobbiamo
esserti ben poca cosa noialtri Arek! -
Henry sussultò.
Il Gran Maestro aveva chiaramente espresso con dei suoni, l’immagine
mentale del suo nome! Dunque l’esperimento era riuscito!
Lo smarrimento
di Henry e la tranquilla sicurezza del Gran Maestro resero insopportabile l’incertezza
degli altri uomini, che si affollarono intorno al loro capo. Volevano
sapere, volevano sentire, volevano capire. Ma è possibile spiegare la luce
a un cieco, un suono a un sordo, o descrivere a parole un profumo? Tuttavia
il Gran Maestro parlò.
- Amici –
disse - il viaggio è riuscito. Molte cose non posso spiegarvele perché mi
mancano le parole, altre invece devono entrare a far parte del Gran Segreto
e le dirò solo all’uomo che ho scelto come mio successore. Una cosa però
posso dirvi: non dovete avere paura! Io vengo da un mondo in cui la
Perfezione è stata quasi raggiunta. Nulla, che abbia per fine il male, può
venirci da quella parte. A volte le stragi e le sofferenze sono l’unica
strada per avvicinarci al bene. E ancora: la nostra razza non perirà, essa
è destinata ad evolversi fino alla sublimazione della materia; per cui non
dovete più temere per essa. Un’Intelligenza quasi infinita ha già
provveduto per il meglio. Ella mi aspettava, ma anche senza il mio viaggio i
suoi disegni sarebbero stati ugualmente perfetti, perciò dobbiamo lasciare
libero quest’essere - e indicò Henry - libero di compiere la sua missione
così come gli è stata comandata.
Henry corrugò
la fronte. Allora la condanna era stata confermata dalla Gran Madre! Forse
Ella aveva dimostrato al Gran Maestro la necessità di questa azione e lui
se n’era convinto! Si senti stanco, e il compito che lo attendeva lo
spaventò.
Gli uomini, dopo
aver ascoltato il Gran Maestro, chinarono il capo. Henry lesse nelle loro
menti soltanto una cieca fiducia in quell’uomo. La loro logica si
rifiutava di accettare le parole del loro capo, tuttavia essi ubbidirono
senza altre domande. Il Gran Maestro capì quale dimostrazione di affetto e
di fiducia gli davano in quel momento i suoi seguaci, e li ringraziò con lo
sguardo. Poi si avvicinò ad Henry, e gli pose una mano su di una spalla.
- Qui il tuo
nome è Henry. Torna nella tua casa e continua sul disegno della Gran Madre.
Non cercare di giudicare e di capire. Tu non puoi sbagliare se segui alla
lettera le sue direttive. Io non ti posso dire di più, e le cose andranno
esattamente come devono andare. Addio, amico! -
Henry avrebbe
voluto ribattere, ma il vecchio gli aveva già voltato le spalle e si stava
allontanando. Un uomo gli fece cenno dl seguirlo. Mentre si accingeva di
malavoglia a salire nella cabina che l’avrebbe portato in superficie, gli
parve di udire la voce del Gran Maestro che diceva agli altri
- E adesso sbrighiamoci, anche
noi abbiamo molto da fare. -
Rimuginando queste parole Henry
si ritrovò sulla pianura ghiacciata. La notte avvolgeva sempre la squallida
landa. L’elicottero era ancora là, in attesa. Presto si sarebbe ritrovato
nella casa, accanto al televisore, pronto a costruire il tremendo congegno
antigravità.
Durante tutto il volo il pilota
non parlò. Lo schermo mentale impedì nuovamente ad Henry di sondare i suoi
pensieri.
I bipedi lo rimettevano in
libertà. Con le loro stesse mani si preparavano la tomba! Che cosa aveva
voluto dire il Gran Maestro quando aveva parlato della indistruttibilità
della razza? Chi avrebbe mai potuto sopravvivere al disastro in cui lui
avrebbe piombato tutto il pianeta? Presto la Terra sarebbe diventato un
corpo morto, gelato in eterno, roteante negli spazi eterni, là dove il sole
si sarebbe confuso con le altre stelle, in una perpetua notte senz’alba,
blocco di materia inanimata.
L’elicottero
si posò sulla terrazza del palazzo da cui era partito poche ore prima. L’aurora
tingeva il cielo ad oriente. La città, assonnata, si stendeva sotto lo
sguardo di Henry. Il ronzio dell’aereo che si allontanava gli disse che
era tornato ad essere solo. Il pilota se n’era andato, senza un cenno di
saluto. Non poteva biasimarlo. Si odiò, ascoltando il brusio che andava
sorgendo dalle strade. Dall’altezza della casa, i primi passanti gli
sembrarono formiche intente a chissà quale lavoro, Il rumore delle auto,
chiassose nei loro congegni primitivi, gli sembrò un patetico richiamo alla
sua clemenza.
Poi il traffico
divenne intenso, disordinato, caotico, mentre il sole si alzava sull’orizzonte
ad illuminare la scena. I colori acquistarono vivacità. I rumori delle
saracinesche che si alzavano stridendo, sembravano un grido di gioia alla
vita, un saluto al nuovo giorno.
Giù, in strada,
un ragazzetto sfuggì dalle mani di una donna. Una macchina frenò di colpo
per non investirlo, La donna afferrò il piccolo stringendoselo al seno, un
po’ baciandolo e un po’ picchiandolo.
Una coppia di
giovani studenti camminava, tenendosi per mano lungo un marciapiedi. Lui e
Lucy avrebbero potuto andare in giro cosi, tenendosi per mano! Dovevano
essere felici, quei due giovani! Essi non sapevano ciò che lui stava
preparando!
Il sole cominciò a scottare.
Henry si scosse. Doveva decidersi, e far presto. Scese di corsa le scale del
palazzo. Voleva muoversi, provare ancora il più possibile il piacere del
moto, della potenza fisica dei muscoli di quel corpo che presto avrebbe
dovuto abbandonare per sempre.
A tre gradini la volta, salì le
scale di casa sua. Si fermò ansante davanti alla porta dell’appartamento.
Si ricompose e infilò la chiave nella toppa. La porta cedette subito ed
Henry esplorò l’appartamento con i neuroni del suo cervello. Uno solo dei
due bipedi era in casa, ed ancora immerso nel sonno. Quel "quasi
morire" era ben dolce! I bipedi non avrebbero dovuto temere la morte,
erano già abituati al trapasso dalla coscienza di esistere all’incoscienza,
al nulla.
Henry si avvicinò decisamente
al televisore e lo capovolse, senza far rumore. Con un solo colpo d’occhio
ai congegni elettronici dell’apparecchio si rese conto che c’era tutto
quello di cui aveva bisogno.
Lentamente, cominciò ad
estrarre le schede e a svitare alcuni pezzi. Pochi metri di filo di rame gli
servirono per tessere una specie di ragnatela, la stessa che aveva scorto
disegnata sulla copertina dello strano libro di fantascienza. Poteva essere
anche una coincidenza., ma sarebbe stata davvero contro la legge di
probabilità! E inoltre qualcosa di strano doveva esserci anche nella parte
scritta, se essa aveva permesso al Gran Maestro di riconoscere nel suo
autore l’essere che la sua razza attendeva con paura e determinazione, da
quasi quindicimila anni!
Le mani di Henry
si fermarono: lui aveva l’ordine di osservare prima di distruggere, e il
mistero del libro non poteva essere lasciato irrisolto.
Felice di avere
trovato una scusa con se stesso, scusa che gli sembrava davvero plausibile
per non dover mandare subito in atto il progetto di annientamento del
pianeta, si affrettò a rimettere a posto il televisore.
Il suo
obbiettivo, adesso, era trovare quel libro. Corse in strada e non si fermò
fino a che non scorse uno dei tipici abitacoli dove i bipedi si munivano dei
fogli stampati. Alla sua precisa richiesta del volume, il giornalaio gli
rispose che aveva esaurito i numeri, in quanto era passato un signore e li
aveva acquistati tutti. Henry comprese. Sarebbe stato perfettamente inutile
continuare le ricerche.
Gli uomini del
Gran Maestro dovevano avere preso le loro precauzioni. indubbiamente avevano
requisito ogni esemplare di quello scritto. Dunque era davvero tanto
importante da giustificare un’azione cosi radicale?
Henry, più ci
pensava e meno ci si raccapezzava. Poi si ricordò di Lucy. La ragazza aveva
detto di avere una copia di quel libro! Forse quella era l’unica copia
sfiggita alle ricerche dei "neo-atlantidi".
Se ne rallegrò.
Ecco meravigliosa scusa che gli metteva di vedere la ragazza. In fondo, l’annientamento
del pianeta poteva bene aspettare a un poco!
Rimase un attimo
indeciso, poi si ricordò dell’edificio dal quale era cominciata la sua
avventura di bipede, quello dove i terrestri andavano per imparare le cose
che avrebbero dovuto sapere. Forse Lucy era là, e probabilmente avrebbe
dovuto esserci anche lui, se lui fosse stato semplicemente Henry, un bipede
come tutti gli altri. E per un attimo rimpianse di non esserlo davvero.
Adesso la città
scottava sotto i caldi raggi del Sole. La gente andava e veniva, urtandosi
indaffarata. Sembrava sapessero che restava loro poco tempo. Nonostante l’ansia
di rivedere la ragazza e di venire in possesso del libro, Henry si soffermò
lungo la strada per osservare meglio quel mondo. Non gli riusciva ancora di
penetrarlo a sufficienza. Dovunque si aprivano delle porte che davano in
piccole stanze piene di oggetti, e la gente entrava, consegnava dei dischi
metallici o dei foglietti
colorati e ne
riceveva in cambio delle cose. Senza di essi, la sopravvivenza sulla Terra
sarebbe stata impossibile. Tutto quello scambio sembrava abbastanza sciocco
ma divertì Henry. Dove si procuravano i bipedi quei foglietti cosi
importanti?
Infine si trovò
di fronte a un grande palazzo: di là i bipedi uscivano portando con sé
grandi quantità di biglietti. Henry cercò di penetrare nella mente di
quella gente: si, non c’era dubbio, in quella casa si consegnavano i
preziosi foglietti. Fu tentato di entrare, ma non lo fece. Probabilmente,
per ritirare quelle carte bisognava aver fatto qualcosa, altrimenti davvero
non avrebbe avuto senso!
Rimandò la
soluzione del problema a un’occasione migliore: in fondo alla strada
scorse il palazzo su cui spiccava la scritta: Università degli Studi. Là
dentro, forse, avrebbe trovato Lucy. Affrettò il passo.
XVI
Era stata colpa dell’ultima
guerra.
Hitler aveva
sostenuto che la Germania, anche in caso di sconfitta, avrebbe ricavato un
grande beneficio dalla sfida lanciata contro il resto del mondo, ma per
Herbert Schwarzmann il grande beneficio era venuto sotto forma di una bomba
di diverse tonnellate che era scoppiata assai vicina al rifugio antiaereo
nel quale lui si trovava. Lo spostamento d’aria l’aveva reso
completamente sordo.
Herbert Schwarzmann aveva allora
quattordici anni. Per tre giorni rimase bloccato nel rifugio insieme a
qualche altro superstite. La maggior parte delle persone non aveva resistito
al terribile urto provocato dallo scoppio.
Fu solo dopo un paio d’anni, a
guerra finita, che Herbert si accorse che stava anche perdendo la vista.
Lentamente, ma inesorabilmente, le sue pupille si andavano spegnendo.
Herbert capì che presto si
sarebbe trovato isolato dal resto dei suoi simili e nella quasi totale
impossibilità di comunicare. I medici consigliarono il giovane di non
affaticare i suoi poveri occhi, di non leggere, di non andare al cinema, di
non esporli ai raggi diretti del sole, ma Herbert fece proprio il contrario.
Sicuro che prima o poi non avrebbe più potuto leggere nulla, si buttò sui
libri. Dapprima su tutti, poi cominciò ad appassionarsi di fisica nucleare.
L’orribile tragedia di
Hiroshima aveva da poco sconvolto l’opinione pubblica. La guerra atomica
era diventata lo spauracchio dei popoli. Eppure quella forza, usata
saggiamente, poteva affrancare l’uomo dalle catene della gravità e
permettergli di volare tra le stelle.
Herbert trovò
uno scopo alla sua esistenza: lui avrebbe mandato i suoi simili nello
spazio, lui avrebbe permesso al mondo di godere delle bellezze dell’Universo.
Lui che ormai distingueva a malapena gli oggetti intorno a sé!
Quando la nebbia
si ispessì maggiormente, e i suoi poveri occhi non riuscirono più a
perforarla neppure per leggere, Herbert ricorse a sua madre. La donna, per
ore e ore, lesse al figlio testi per lei incomprensibili, scrisse formule
astruse sotto sua dettatura. I sensibili polpastrelli di Herbert captavano
le parole sulle labbra materne senza sbagliarsi mai.
Nel buio del suo
isolamento, il giovane trovò nella matematica e nella sua perfezione, tutta
la bellezza delle cose di cui egli non avrebbe potuto più godere.
Con l’andar
degli anni, Herbert Schwarzmann approfondì i suoi concetti, superò ogni
scienziato vivente con le sue teorie, ma nulla uscì mai dalla porta della
sua casa, L’unico testimone, la madre, non dava valore alcuno agli studi
del figlio, felice solo che servissero a mantenerlo sereno e di buon umore.
Poi Herbert
divenne cupo. Qualcosa lo travagliava. Nel buio della sua mente, egli
rincorreva qualcosa che gli sfuggiva.
Infine i suoi
studi trapelarono nel mondo ed egli venne a contatto con la scienza
contemporanea. Ma ormai le questioni che essa dibatteva, non lo
interessavano più. Aveva la certezza che gli altri battessero una strada
errata, ma non riusciva a concretizzare in formule 1a sua vaga intuizione:
la formula della forza che muove l’Universo! La formula quantistica della
forza gravitazionale!
Un giorno, un
luminare della chirurgia oculare venne a visitarlo, disse che poteva
ridargli la vista e forse anche l’udito. La madre di Herbert pianse di
gioia, ma lui rifiutò decisamente. Se avesse riacquistato l’uso dei suoi
sensi, la soluzione del problema, che ormai era il suo solo scopo di vita,
sarebbe diventa irraggiungibile. Aveva bisogno del suo isolamento, della sua
notte, della sua vita esclusivamente interiore.
Quello che per
lui non fu affatto un sacrificio, teso come era in questa sua speculazione
sull’Infinito, fu dalla stampa esaltato e strombazzato come tale. Così la
gente cominciò a conoscere, almeno di nome, Herbert Schwarzmann.
Quel giorno,
come di consueto, Herbert, semisdraiato in una grande poltrona, inseguiva
quell’inafferrabile relazione che il suo intuito aveva sentito ma che il
suo cervello si rifiutava di comprendere. Da poco, l’ultima formula del
grande Einstein gli aveva aperto un altro spiraglio sul problema. Il grande
scienziato, prima di morire, aveva affermato che le leggi elettromagnetiche
che reggono l’atomo sono equivalenti alle leggi gravitazionali che reggono
le stelle. Anche se il grande Albert non aveva mai accettato in toto la
meccanica quantistica, veniva a chiudere in un circolo il microcosmo e il
macrocosmo, l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande si davano
la mano...
Quando il Gran Maestro si fece
annunciare come un giornalista qualsiasi, Herbert si infuriò per essere
stato disturbato. Ma quando il giornalista gli fece dire che era uno strano
tipo di giornalista, in quanto veniva a dare e non a prendere, il tedesco si
calmò e disse alla madre di far passare il visitatore.
Il Gran Maestro
entrò nella stanza, ed Herbert ne intuì la presenza. Gli fece cenno di
avvicinarsi. Qualcosa lo avvertiva che quella sarebbe stata una visita
importante. La madre di Herbert fece accomodare il Gran Maestro accanto al
figlio.
- Prego, signore, dica pure
quello che vuol dire e io lo comunicherò a lui... - Herbert troncò le
parole in bocca alla donna come se le avesse udite.
- Lascia stare, mamma...
Avvicinatevi, devo toccarvi le labbra per capire quello che avete da dirmi.-
Il Gran Maestro ubbidì. Le dita
affusolate di Herbert si alzarono a sfiorargli la bocca.
- Io credo di avere qualcosa che
vi può aiutare a trovare quello che state cercando da tanto tempo... - Il
Gran Maestro si fermò, ma il tedesco non diede segno di voler parlare, e
allora continuò. - L’energia liberata dall’atomo è pericolosa,
pericolosa per noi e per altri. Ci deve essere un’altra soluzione ai
problemi dell’uomo. L’Universo è energia pura, un’energia che si
manifesta in modi diversi: materia, luce, calore, elettricità... ma ha una
fonte comune. Nessuna di queste sue manifestazioni, da sola, potrebbe mai
spiegare il miracolo del Cosmo. L’uomo ha sempre soltanto colto gli
aspetti marginali del problema. Un’energia immane, senza limiti, ci
circonda, e ci fa esistere. E’ questo che voi cercate, Schwarzmann?-
Il tedesco abbassò il braccio.
- La formula del Tutto, ecco
quello che voglio trovare. Ma se voi potete davvero essermi di aiuto, se voi
conoscete quello che nessuno conosce, perché siete venuto da me?-
Il Gran Maestro attese che le
dita dello scienziato tornassero a sfiorargli le labbra.
- Non posso rispondere
esaurientemente a questa domanda. Ci sono cose che l’umanità non deve
ancora sapere. Posso dirvi però che gli elementi che io possiedo sono
insufficienti alla mia mente per raggiungere un risultato completo. Voi
siete il solo uomo sulla faccia della Terra che può usarli nel loro giusto
significato. Non chiedetemi come io ne sia in possesso, non sono frutto
della mia mente né di nessun’altra mente umana, però è assolutamente
vitale per la nostra razza che voi arriviate alla meta che vi siete
prefissa. Se questo non sarà possibile, noi tutti siamo condannati. Dovete
riuscirci, Schwarzmann, e in breve tempo! Tra qualche mese, forse anche
prima, una o due astronavi lasceranno la Terra dirette alla Luna. Bene,
quelle astronavi non devono partire. I loro motori atomici non devono
entrare in funzione, se no sarà la fine, capite?-
- Nessuno può fermare il
progresso, signor... signor?-
Il Gran Maestro
scosse il capo.
- Il mio nome
non ha importanza. Niente ha importanza, tranne quello che voi riuscirete a
trarre dalle note che io ho portato e che vostra madre vi potrà leggere.
Però siete in errore: qualcuno può fermare il progresso e stavolta sarà
per sempre. Nessuno ha pensato, neppure per un momento, di convincere gli
uomini a rinunciare al loro cammino verso il sapere. Se questo fosse stato
possibile, gli uomini non esisterebbero più da molti millenni. Proprio
perché la nostra natura è tale da non rendere possibile questo, ci è
stata concessa una possibilità. Quelle astronavi devono partire, ma senza i
loro motori atomici. Quelle astronavi devono essere mosse dalla stessa forza
che dà dimensioni allo spaziotempo. Dalla formula che ci dovete dare voi,
Schwarzmann!-
Il tedesco
abbassò ancora braccio e stette, immobile, a pensare. Il silenzio pesò
nella stanza per qualche minuto, poi il Gran Maestro prese la mano dello
scienziato e se la portò alle labbra.
- Il tempo è
poco. Non siete curioso di esaminare le note che vi ho portato? –
L’uomo scosse
la testa.
- Non troppo. Se
voi sapete tutto ciò ce dite di sapere, sono quasi sicuro che riuscirò a
darvi quello che aspettate… Ci sono già molto vicino, anche senza
indicazioni. Qualcosa continua a sfuggirmi però… e le vostre note non
possono che contenere quel qualcosa. Il resto vi sarebbe probabilmente
apparso senza valore. Quello che cerco deve essere di una divina
semplicità. La Natura segue la via più ovvia, anche se a volte ci sembra
tortuosa: spesso è la complessità del problema che ci fa apparire
complessa la soluzione. Vedete, voi avete parlato delle varie manifestazioni
dell’energia ma nessuno sa che cosa sia l’energia. Conoscendone le varie
forme non dovrebbe essere impossibile congiungerle e risalire all’energia
prima. Eppure c’è qualcosa che continua a sfuggirmi... Comunque, stando a
quanto voi dite, l’umanità sarebbe minacciata. Il vostro è una specie di
ultimatum: o noi la smettiamo di usare la fissione nucleare o verremo
annientati. Da questo deduco...-
Nuovamente il
Gran Maestro si portò alle labbra le dita dello scienziato.
- Tenete per voi
le vostre deduzioni! - disse con tono dolce.
- Il mondo non
deve sapere! Il mondo non deve sapere neppure di questa mia visita. 1l mondo
deve sapere soltanto che lo scienziato Herbert Schwarzmann è giunto alla
meta! E quando gli uomini avranno a loro disposizione l’energia insista
nello spaziotempo, troveranno perfettamente inutile e sciocco continuare a
spezzare gli atomi. -
Un sorriso divertito spuntò
sulle labbra del tedesco.
- Ora mi spiego quanto è
avvenuto ai miei colleghi del passato! Il giorno prima erano lontani un
miglio dalla soluzione dei loro problemi e poi, all’improvviso, paff! il
lampo di genio. State tranquillo, il segreto morirà con me! Peccato che non
abbia avuto modo di dedicarmi alla storia delle scoperte dell’uomo! Credo
che sarebbe enormemente istruttivo! Quanti anni avete, se è lecito?-
Il Gran Maestro trasalì.
- Perché mi fate questa
domanda?
Di nuovo Herbert sorrise.
- Perché le cellule delle
vostre labbra sono lisce, tese, ma quasi completamente prive di acqua. E
nemmeno in un secolo diventerebbero così. Le cellule labiali sono tra le
più ricche di acqua di tutto il corpo umano... -
Il Gran Maestro
stette, pensoso, poi sospirò.
- Sì, sono molto vecchio, ma è
da poco che... - si interruppe, poi proseguì: - E’ da poco che conosco
alcuni dei segreti del genere umano!-
Lo scienziato, inesorabile
tornò benevolmente alla carica.
- Avete uno schermo mentale. Non
ho conosciuto nessun uomo capace di tanto. Ho sempre pensato che la nostra
civiltà scegliendo il cammino della tecnologia avesse trascurato le enormi
possibilità del cervello. Ma forse voi non appartenete a questa civiltà,
essenzialmente tecnologica, vero?-
Il Gran Maestro si agitò sulla
sedia:
Se tutti fossero come voi, forse
non sarebbe più necessario alcun segreto...-
- Uhm... non sottovaluterete,
per caso, un po’ troppo i vostri, diciamo, simili? O non li sentite
davvero "simili"? -
Il Gran Maestro si alzò e si
rivolse alla madre di Herbert, porgendole un fascio di fogli stampati:
- Ecco, leggetegli queste note.
Subito, per favore, e che annunci i suoi risultati, non appena li ottiene.
In quanto a quello che vuol sapere di me, ditegli che da qualche giorno non
mi sento più un suo simile perché sono stato vicino alla perfezione, come
mai avevo potuto neppure immaginare prima... E ditegli anche che l’uomo ha
sempre percorso le stesse strade, perché è l’unico modo che ha per
migliorarsi. –
Il vecchio si mosse per
andarsene, poi si volse ancora verso la donna e aggiunse:
- Per quel che riguarda la mia
età, ditegli che è come se fossi vecchio di quindici millenni. Forse
capirà... Addio signora e... buona fortuna a tutti e due.-
Il Gran Maestro
si allontanò, prima che la donna potesse rispondere. Uscito in strada,
chiamò un taxi. Prima di salire guardò l’azzurro splendente del cielo
dove alcuni cirri giocavanoe a rincorrersi, e sorrise. Il destino dell’umanità
era adesso in buone mani. Dato all’autista l’indirizzo di un albergo, il
Gran Maestro si lasciò cadere, soddisfatto, sul sedile posteriore dell’auto.
Nel frattempo la
madre di Herbert comunicava al figlio le parole dello strano giornalista.
Forse lo scienziato capì, perché il suo volto si illuminò per un attimo,
dopo di che la pregò di leggergli le famose note.
Non sembrava un
trattato matematico. Era un racconto che immaginava gli uomini ormai signori
del Sistema Solare e pronti per la prima spedizione interstellare. Per
pagine e pagine, narrava come l’equipaggio fosse stato scelto, come fosse
stato condizionato e come, distorcendo lo spazio e usando un motore a
fotoni, si potesse superare la velocità della luce. O meglio saltare
letteralmente da una zona all’altro dell’universo.
Herbert
ascoltava con le dita tese sulle labbra materne, senza dare alcun segno di
noia o di interesse.
La descrizione
del primo lunghissimo viaggio per il raggiungimento della stella più
vicina, Proxima Centauri, occupò lo scienziato per un’altra intera ora.
La mente del
tedesco assorbiva i particolari del racconto, valutandoli.
Poi iniziò la
terza parte del racconto: gli astronauti, giunti al vicino sistema stellare,
si trovarono nelle stesse condizioni in cui si sarebbe trovata una piroga
Sioux che avesse scoperto l’Europa ai tempi di Colombo, attraccando nel
porto di Lisbona.
Una razza assai
più progredita li attendeva. E il racconto procedeva nella descrizione di
una delle astronavi centauriane fatta a un terrestre
Herbert bevve
queste parole: pensate alla vostra nave come a una calamita. Poi pensate la
materia come formata da corpi magnetizzati che non collassano l’uno sull’altro
perché in equilibrio dinamico, come se stessero cadendo uno intorno all’altro
proprio come avviene in un campo gravitazionale ma infinite di volte più
forte. Creare un campo antigravitazionale significa soltanto sfruttare due
cariche nagnetiche opposte sufficientemente potenti, un po’ come creare il
pianeta positivo, o il sistema stellare positivo, o la galassia positiva,
per essere respinti nello spazio a una velocità crescente in modo
direttamente proporzionale al quadrato del tempo moltiplicato per la massa
di materia gravitazionale da cui si è respinti. Per fortuna basta che si l’astronave
ad essere magnetizzata. La radiazione della gravità distorce lo spazio,
come un campo magnetico distorce le linee di forza evidenziabili con della
limatura di ferro, ma questa distorsione quadridimensionale crea una nuova
dimensione in cui le distanze si annullano. Avete scoperto che l’elettrone
non collassa sul nucleo perché l’energia può trasmettersi solo in
pacchetti discreti, li avete chiamati "quanti", ma tutto è
discreto, spazio e tempo compresi. In scala subatomica non esiste una
località assoluta, si può essere qua e là nello stesso momento e un
universo di raggio R è uguale a uno di raggio 1/R: ossia non esistono
dimensioni assolute, quindi storcendo lo spaziotempo nel modo giusto le
distanze possono sparire.
L’errore di
voi Terrestri è stato quello di considerare primaria l’energia
differenziale che si ha col suo mutare di qualità e vi è sfuggita la sua
essenza che è nell’architettura multidimensionale dello spaziotempo.
Insomma sfruttate gli scarti e non usate l’essenza. In altre parole, amici
solariani, il vostro errore è stato quello di considerare principali delle
cose secondarie e da queste dedurre, come cosa ovvia, lo sfruttamento dell’energia
solo costringendola a mutare di forma: da potenziale in gravitazionale, da
chimica a nucleare, eccetera. Distorcendo lo spaziotempo il vostro viaggio
per arrivare fino a noi, non vi avrebbe richiesto più di qualche ora, tempo
della Terra....".
Herbert vibrava
di emozione. Che imbecille era stato! Ma certo! Ecco la vera ragione del suo
insuccesso! L’abitudine del cervello umano di dare per scontate le cose
che a prima vista sembrano ovvie, senza mai tornare a porle in discussione!
Procedendo nel ragionamento senza tornare a verificarne le partenze che lo
hanno prodotto!
Herbert tornò a
sedersi. La madre lo guardò preoccupata. Non lo aveva mai visto così
sconvolto. Che cosa mai si nascondeva dietro a quelle frasi che lei aveva
letto e che non le dicevano assolutamente nulla di comprensibile?
Lo scienziato
pareva aver completamente dimenticato la presenza della madre, e il buio
della sua mente era solcato da una quantità di immagini. Le applicazioni di
quei concetti avrebbero cambiato il mondo nel giro di pochi anni. Quell’energia
inesauribile avrebbe affrancato per sempre gli uomini dal bisogno e dalla
fatica. Infiniti orizzonti si aprivano dinanzi alla sua sete di sapere. Lo
spazio, già spaventosamente immenso sembrata torcersi e sparire ingoiato da
se stesso.
Fece
affannosamente cenno di voler scrivere, e su un foglietto di quaderno l’umanità
ricevette il suo più grande dono.
Herbert pregò
la madre di far avere le formule ai giornali perché le pubblicassero e poi
di organizzargli una conferenza stampa, invitando i rappresentanti delle
ambasciate dei due blocchi. Il dono che un’intelligenza superiore aveva
voluto elargire alla Terra doveva andare davvero a tutta l’umanità e non
a una parte sola di essa!
Quando la donna
fu uscita, lo scienziato si reimmerse nella sua meditazione. Da quelle
formule, altre importantissime se ne potevano trarre. Veniva confermata l’intuizione
di Einstein sull’effetto della gravità nello scorrere del tempo: all’aumentare
della massa gravitazionale, il tempo intorno rallentava fino a fermarsi e a
invertire il suo passo. In teoria qualsiasi piccola differenza di massa
cambia il passo del tempo. Un giorno sulla Terra non era uguale a un giorno
su un altro pianeta...
Che tempo aveva
la massa dell’universo nel suo insieme? Si rimise a scrivere: dipendeva
dal raggio dell’universo e dalla sua densità. In particolari condizioni l’universo
poteva esser chiuso su se stesso, una specie di imbuto nero da cui nulla
poteva uscire: lo spazio di torceva e si chiudeva e si isolava da qualunque
"esterno". Un astronave avrebbe potuto usare la massa dell’universo
per bucarlo e uscirne "fuori"? Ma fuori dove? In un altro universo
simile, in un universo madre che contiene il nostro…?
E andando verso
le masse minime? Una molecola, un atomo, una particella elementare? Ma cos’è
"elementare"?
Il cervello
sembrava un vulcano in eruzione e cominciò a salirgli la febbre. Il suo
genio, scatenato dalla rivelazione stava superando le volontà del Gran
Maestro e la saggezza della Gran Madre.
L’uomo
orribilmente mutilato dalla guerra stava per giungere alla verità. Ma
questo non era permesso. Gli uomini non dovevano ancora sapere. E nuovamente
un atto crudele e ingiusto dovette essere compiuto per preservare un’intera
civiltà.
Herbert bruciò
per autocombustione. In lampo di fuoco fece forse in tempo ad intuire ‘tutto"?
Nessuno lo saprà mai. Quando i giornalisti arrivarono, ansanti, coi loro
taccuini, lo scienziato giaceva carbonizzato sulla sua poltrona e stavolta
il buio in cui era immerso era davvero inesorabile, invalicabile ed eterno.
Il suo cervello
bolliva nella scatola cranica carbonizzata. Herbert Schwarzmann era morto,
ma il mondo aveva ormai conosceva il più grande dei segreti.
XVII
L’uomo coi capelli di argento
concluse la sua lunga dissertazione. Henry si avvicinò a Lucy. La ragazza
arricciò le labbra e gli sorrise. Per Henry fu come se la luce nella stanza
fosse di colpo aumentata. Qualcosa cantava dentro di lui, e per qualche
attimo Henry dimenticò tutto nelle fiammelle birichine di quegli occhi
femminili,
Lucy lo prese a braccetto, e
insieme i due giovani si incamminarono lungo il corridoio.
Il vociare allegro degli
studenti riempiva il piazzale davanti all’edificio. Molti di essi erano a
coppie, allontanandosi allacciati a qualche loro compagna. Henry osservò
che tutto pareva pieno di felicità. Aspirò una lunga sorsata di aria ormai
impregnata dagli odori turgidi della prossima estate. Lucy faceva ciondolare
un pacco di libri, legati con una cinghietta di cuoio. Nessuno dei due
parlò. La calda sensazione di essere vicini li riempiva di un piacere
fisico che non aveva bisogno di suoni.
La calma del pomeriggio pieno di
sole si andava impadronendo delle strade. I rumori si facevano più rari,
remoti. La gente, senza fretta, raggiungeva le proprie case.
Da un parco pubblico giunse il
canto di una cicala. Henry alzò la testa. Chissà dove, celato nel fogliame
rigoglioso di un albero, l’insetto applaudiva alla vita. Il volo elegante
di alcune rondini, tesseva una guizzante tela di vettori neri contro il raso
azzurro del firmamento.
Henry ripiombò nei suoi
pensieri di distruzione. Quel mondo era bello, affascinante, ma doveva
essere ucciso.
- Lucy - articolò a fatica -
vorrei quel libro che ho scritto...
La ragazza gli
sorrise. Dolce, accondiscendente. Era una promessa che andava oltre la sua
richiesta. Henry distolse lo sguardo. Impacciato. cercò di giustificarsi.
- Sai, vorrei
riguardare una cosa e...- Lucy lo interruppe.
- Te lo porto
stasera, va bene? Usciamo insieme, stasera, vero? -
Henry annuì. Un nodo secco e
doloroso gli chiudeva la gola. E concesse a se stesso un’altra proroga.
Ancora un poco... ancora un poco, e poi avrebbe eseguito la sua missione!
I due giovani si lasciarono a un
crocevia. Henry segui con lo sguardo la deliziosa figuretta di Lucy, finché
questa scomparve all’angolo di una strada. L’avrebbe rivista ancora una
volta, una volta soltanto... Si sentiva un ladro intento a rubare un po’
di gioia al suo destino. Poi sarebbe tornato nel suo vero corpo, poi si
sarebbe reimmerso nella sensazione di appartenere a un tutto superiore.
Quella sua parentesi di vita individuale, completamente isolato dal resto
dell’universo, minacciava di cambiarlo troppo profondamente. Forse,
tornato in mezzo alla sua gente, avrebbe presto dimenticato quella curiosa
esperienza, e anche quel bipede bruno che gli aveva saputo dare, da solo, la
felicità della comunione con il Tutto.
A testa bassa. Henry rincasò.
Si ritrovò con
la donna e l’uomo con cui divideva la casa, ma non si interessò né alle
parole né ai loro pensieri. Il tempo passava inesorabile.
I raggi del Sole cominciarono a
colpire obliquamente le cose. Le ombre si allungarono e infine cessarono di
essere tali. La città scivolava, immersa in una luce arancione, verso la
sua ultima notte. Henry infatti aveva deciso che non avrebbe atteso l’alba
ha per attuare il piano di annientamento. Non avrebbe mai saputo compierlo
alla luce del giorno.
I due bipedi uscirono e lo
lasciarono solo. Il giovane si avvicinò al televisore e iniziò a svolgere
dei sottili fili di rame. Dopo una ventina di il terribile repulsore anti g
era pronto! Henry lo nascose in una borsa che portò con sé.
A lunghi passi si diresse verso
la casa di Lucy. Premette il pulsante, accanto al grosso portone di legno,
ed esso si aprì. Salì le scale. Da una porta aperta Lucy gli sorrise
invitandolo a entrare.
- Scusa, Henry, non ti aspettavo
così presto! Vedrò di sbrigarmi... entra !
Il giovane varcò la soglia
illuminata e si fermò dell’anticamera. l.ucy gli aprì una porta e gli
disse:
- Ecco, aspettami qui! – fece
per andarsene, ma si fermò e aggiunse: - Il tuo famoso libro è li sul
tavolo - e scomparve.
Henry prese il volumetto con
mano incerta, poi cominciò a sfogliarlo. Lesse tutta la storia fantastica
delle imprese astronautiche dei terrestri, con l’amarezza di chi sa l’irrealizzabilità
di un sogno, poi giunse alla spiegazione del repulsore anti g. Non solo il
disegno sul frontespizio era esatto, ma anche la descrizione del principio!
Che cosa significava, dunque, quel libro? Come aveva potuto il vero Henry
sapere quelle cose? La spiegazione era incompleta e anche molto
semplificata, ma era giusta. Avrebbe potuto un bipede valutare l’enorme
importanza di quello scritto? Ma si, certamente! Il Gran Maestro l’aveva
capita! E’ vero che si trattava di un uomo assai superiore ai suoi simili,
ma quanti bipedi erano come lui? E perché aveva fatto sparire tutte le
copie del libro che era riuscito a trovare? Perché non aveva voluto che l’umanità
sapesse?
Lucy si
affacciò sulla porta.
- Sono quasi
pronta - gli scoccò un bacio e scappò via. Henry scorse velocemente le
ultime pagine del libro. Pagine che il Gran Maestro aveva strappato dalla
copia che aveva consegnato allo scienziato tedesco. L’interesse di Henry
crebbe a dismisura. La sua attenzione fu completamente assorbita da quelle
ultime pagine e infine comprese molte cose! Seppe il perché della condanna
della Terra e il mondo da cui veniva! L’enormità della scoperta lo
terrorizzò. Si guardò intorno come se temesse di vedersi circondato da
infiniti, terribili esseri. Poi appoggiò la fronte sul palmo delle mani,
cercando di dominarsi. Ora che sapeva, la sua missione gli parve ancora più
orribile, in quanto giusta.
Lucy apparve sulla porta.
Bellissima, in una guaina verde come l’erba dei prati. Henry tentò di
sorriderle,
Ti piaccio? - La ragazza fece
una mezza piroetta.
- Più di quanto immagini... -
fu la risposta del giovane, ma una nota cupa rese triste il complimento.
- Dove andiamo? - chiese Lucy
una volta che furono in strada.
- Camminiamo un poco. Ti
dispiace?-
- Affatto! C’è una così
bella luna, stanotte! Con uno scenario come questo, mi sentirei di
conquistare un principe!-
Henry non comprese. Ma senti che
il cervello della ragazza era totalmente occupato dalla sua immagine.
Diventò ancora più triste. Prese per mano Lucy e si incamminò in
silenzio. Nella sua mente stava ancora cercando di abituarsi a considerare
le cose sotto il nuovo punto di vista che quel libro gli aveva aperto.
- Hai poi trovato quello che
cercavi, sul tuo capolavoro? - domandò, allegra, la ragazza.
- Sì,sì…ho trovato tutto. -
Alla fanciulla sfuggì la
sfumatura di quel "tutto".
Camminarono quasi un’ora.
Henry, a poco a
poco, era ridiventato allegro. La gioia datagli dalla vicinanza di Lucy era
così forte da fargli dimenticare ogni altra cosa.
Ormai stavano camminando alla
estrema periferia della città. Le case si andavano facendo sempre più
rare, poi cessarono del tutto. Il buio dell’aperta campagna era reso
fatato dall’argenteo chiarore della luna, velata da una leggera nube.
Senza parlare, i due giovani lasciarono la strada e si inoltrarono in mezzo
all’erba umida.
Lucy sedette ai piedi di un
grosso tronco. Adesso la luna era riuscita a liberarsi da ogni velo e
riversava sulla natura i suoi torrenti d’argento. Le foglie stormivano per
una leggera brezza. Il silenzio era così profondo che pareva essere
diventato solido.
La ragazza appoggiò la testa su
una spalla di Henry. I suoi capelli, mossi dal vento, accarezzavano una
guancia del giovane.
- Com’è bello qui! -
sussurrò Lucy con voce sommessa, quasi temesse di infrangere l’incantesimo,
e cosi dicendo piegò il viso verso l’alto. Henry vide le labbra perfette
di lei, tremare un poco. Un raggio di luna illuminò i piccoli denti appena
scoperti traendone un riflesso di perla. Henry si chinò su di lei e chiuse
gli occhi. Le sue labbra strinsero quelle di Lucy, dapprima con dolcezza,
poi con avidità. Tutto si annullò nella mente del giovane. Le sensazioni,
i pensieri, i desideri della ragazza che Henry stringeva tra le braccia,
entrarono in lui, chiari come mai era avvenuto. Per un attimo ebbe la
curiosa sensazione di essere lei...
Poi un lampo rossastro esplose
nella sua mente... Una forza primitiva, bestiale, si scatenò nelle sue
vene. Lui avrebbe voluto dominarla, ma poi si abbandonò al suo vortice.
L’istinto del
maschio aveva vinto il controllo dell’evolutissimo Trug. La forza
irrefrenabile della Natura aveva ancora una volta vinto volontà e
intelligenza di un essere superiore.
La Luna
illuminava adesso la ragazza, pallida, coi capelli scomposti e due lacrimoni
che le rotolavano sulle guance. Henry, tornato in sé, si rese conto di aver
compiuto l’atto più importante, più necessario, più impegnativo che
può compiere un bipede verso un altro suo simile. Si ricordò delle
immagini trasmessegli dalla Gran Madre (quando? in un’altra vita?) e
rivide il piccolo O-Baa rischiare se stesso per la graziosa O-Ree... Così i
bipedi si erano propagati per tutto il pianeta e si erano moltiplicati nel
tempo...
Accarezzò i
capelli di Lucy con una grande dolcezza che gli veniva da dentro. Si chinò
sul suo viso e bevve le sue lacrime, poi la baciò a lungo. Lucy gli
accarezzò la nuca e gli sorrise debolmente. La sua mente era preoccupata
soltanto da una cosa: perdere Henry! Il giovane intravide in lei mille
piccoli complessi: pudore, paura, educazione. Ma soprattutto lei non voleva
perderlo. Henry la strinse a sé. Qualcosa di grande scese nel silenzio
della notte. Lucy aspettava. Non sapeva che cosa, ma la sua sensibilità le
diceva che qualcosa di solenne stava per accadere.
La voce di Henry
suonò pura nella mente della ragazza, senza passare attraverso i suoi
sensi.
"Il corpo
dell’uomo che vedi accanto a te non è il mio. Di più: io non sono un
uomo. Il mio vero corpo è immerso nel letargo in un tempo e in uno spazio
diversi da questo. Dicendoti queste cose, forse io vengo meno alla mia
missione. Ma sento che adesso tu devi sapere, e non posso andare contro a
quello che ritengo essere giusto. Prima di salire da te, stasera, ho
nascosto, in un giardino, una piccola borsa. Dentro c’è la morte per
tutta la tua gente!"
Lucy guardò
Henry, esterrefatta. Temette di aver perso la ragione, ma il giovane le
sorrise e parlò a voce alta.
- No, amore.
Sono stato proprio io a parlare in te! Quello che ti ho detto è vero. Se tu
vedessi il mio vero aspetto, probabilmente inorridiresti. Anche a me il
vostro era sembrato ridicolo, a prima vista. Poi ho incontrato te...
Lucy fece per
parlare, ma Henry la fermò con un cenno e riprese il dialogo telepatico.
‘Non hai
bisogno di parlare, Io posso leggere quello che vuoi dire non appena lo hai
pensato. Ormai ho cominciato e, non temere, ti dirò tutto. Ti spiegherò
ogni cosa. O almeno ogni cosa di cui io stesso conosca la spiegazione."
Lucy avverti una
leggera variazione nella voce che le suonava nella mente, quando questa
riprese il racconto.
"L’universo
è uno solo, una la materia, infinite le dimensioni. Io ho viaggiato dalla
mia alla tua usando solo la forza della mente."
Lucy non si
mosse, né apri bocca, ma Henry scosse il capo. Di nuovo il suo racconto
riprese.
"No, Lucy,
non è cosi. Io stesso non lo sapevo fino a che non ho letto quel libro. Si,
quello che avrei scritto io... solo che allora io non ero ancora arrivato.
Ti ricordi quello svenimento a scuola? Io arrivai soltanto in quel
momento..."
Lucy pensò che
quel momento aveva coinciso con la nascita del suo interesse verso Henry che
sorrise e non disse alla ragazza che non si può mentire durante un dialogo
telepatico.
"Tu sai che la materia è
formata da un raggruppamento di atomi - riprese – E puoi pensare a un
atomo come a un piccolo sistema solare in miniatura. Supponi che i tuoi
occhi non vedano i corpi in questa dimensione ma i costituenti. I bordi
delle cose che ti sono familiari sparirebbero e tu vedresti galassie di
atomi, ammassi di galassie, muri di ammassi. Più fitte là dove qui sono
dei solidi, meno fitte dove qui tu vedi nebbie o gas. Ti dico questo perché
tu questo puoi immaginare: la realtà è molto più complessa e nella mia
dimensione esistono solo vibrazioni di elementi unidimensionali.
Lucy accennò di
sì col capo e il discorso riprese:
"I solidi,
o meglio gli ammassi di galassie a grande concentrazione stellare (parlando
dal punto di vista del mio mondo) non sono nettamente divisi gli uni dagli
altri. Per un astronauta dell’atomo, il passaggio da un vostro solido all’aria
che lo circonda è del tutto inavvertito, noterà soltanto l’aumento della
distanza tra una stella e l’altra. Ossia tra una galassia e l’altra.
Tutto l’Universo è energia o, se preferisci, materia: un blocco solo se
visto dall’ultima ipotetica dimensione, un caos di vuoto risonante se
visto da una altrettanto ipotetica prima dimensione. Per quanto ne so io,
noi non siamo mai usciti con mezzi fisici dal nostro ammasso nebulare che
comprende alcuni miliardi di galassie ad alta concentrazione di soli, cioè
da un vostro solido.., capisci? Tutto il mio universo potrebbe essere un
granellino di polvere che sto pestando in questo momento!"
Lucy abbracciò
improvvisamente il giovane e lo baciò, poi si staccò da lui sussurrando:
- Potrebbe
essere una parte di me... e io voglio essere per te tutto il tuo universo! -
Henry t1accarezzò,
pensieroso, poi riprese, ad alta voce:
- Sei tanto
cara, ma non ti ho detto tutto... Ascolta: io sono venuto per annientare la
Terra! Per uccidervi tutti, per respingere il pianeta nel buio e nel freddo
siderale. Posso farlo, sai? E devo farlo!-
Il giovane si
prese la testa tra le mani. Lucy si chinò su di lui. Nei suoi grandi occhi
si leggeva l’incredulità mista al terrore.
- Perché?
Perché devi fare una cosa simile? Che fastidio possiamo dare noi a…-
Si interruppe.
Temette di offendere Henry. Si sentiva in una situazione paradossale. Le
venne da ridere e credette di essere completamente impazzita. Lui rialzò la
testa e continuò con voce cupa:
- Perché voi
usate i nostri soli per le vostre macchine! Laggiù, nel mio mondo, io sono
addetto ai radiotelescopi. Un tempo non c’era granché da registrare, poi
cominciò il "flagello". I soli di nebulose infinitamente lontane,
ma già troppo vicine, cominciarono a scoppiare. Le stelle diventavano
supernove a milioni! Allora sono stato mandato qui, con l’ordine di
osservare e poi distruggere la razza umana! Sono stato mandato qui senza
spiegazioni. Se non fosse stato per quel libro, non avrei mai capito! Gli
uomini disintegrano l’atomo e l’atomo si difende. La nostra civiltà è
molto antica, anche se non si può fare alcuna relazione con il tuo tempo,
cioè, con questo tempo. Insomma, noi siamo agli ultimi stadi dell’evoluzione
della materia, Dominiamo le energie dell’Universo con la sola forza del
nostro cervello e… ma che importa questo! - Henry sbuffò, stringendosi
nelle spalle.
Lucy non parlò.
Avrebbe voluto dire tante cose, ma come trovare le parole per difendere
tutta l’umanità? Fu il suo intuito a risolvere il problema.
- Tu mi ami? -
chiese.
Henry annuì.
- Allora non
puoi volere che io muoia, non puoi voler tornare laggiù, nel tuo mondo!
Allora...-
il viso di Henry
si fece attento, poi d’improvviso il giovane balzò in piedi. Aveva
deciso.
XVIII
Mai, dal tempo felice degli
Anthin, la grande isola aveva più visto tanti aerei solcare il suo cielo.
Il rombo dei motori echeggiava, straniero, tra picchi e valli nascosti dal
ghiacci.
Il Grande Convegno era stato
fissato per quella notte. La misteriosa setta a cui faceva capo il Gran
Maestro aveva adepti in ogni paese del globo. Tutti sapevano della sua
esistenza ma avevano idee sbagliate sui suoi scopi. Anche la grande
maggioranza dei suoi stessi membri non erano a conoscenza della verità. La
maggior parte di essi si accontentava di godere ei vantaggi che la setta
offriva loro, vantaggi di ogni genere, senza porsi troppe domande. Però
vagamente si mormorava che a capo della setta ci fosse un uomo che conosceva
i segreti della Vita e della Morte.
Ogni branca della setta faceva
capo a una Loggia, e le Logge erano tutte quante le città della Terra. A
loro volta le Logge, in organizzazione piramidale, dovevano riferire a vari
Gran Fratelli, sparsi per il mondo. Ma neanche essi conoscevano tutta la
verità. Solo uno: il Gran Maestro. Un uomo sconosciuto ai più era il
depositario di tutto. Raramente quest’uomo aveva mostrato il suo volto.
Quelli che lo avevano visto, ricordavano la sua alta figura e il suo sguardo
metallico bucare un cappuccio celeste decorato con un triangolo d’oro. I
Gran Fratelli sapevano che uno di loro era sempre pronto a succedere al Gran
Maestro. Ma nessuno conosceva il nome del designato. Affinché il Gran
Segreto non andasse perso, era cura di ogni Gran Maestro istruire un altro
uomo non appena egli fosse subentrato nei poteri massimi della setta di cui
nessuno ricordava l’origine. Si diceva che fosse vecchia quanto l’umanità,
ma questo non era vero.
La chiamata per il Grande
Convegno fece convergere tutti i Gran Fratelli nel luogo prefissato: l’Antartide.
Una delle regole della setta
diceva che un giorno essi sarebbero chiamati a raccolta da tutte le parti
della Terra e che in quel giorno il Gran Segreto avrebbe cessato di essere
tale. Ma erano passati i secoli senza che chiamata venisse.
Infine però il grande giorno
era giunto.
Gli aerei continuavano ad
arrivare. La grande distesa gelata scompariva sotto le loro sagome
slanciate. Mano a mano che i chiamati scendevano a terra venivano portati da
ascensori nel sottosuolo.
Infine il grande salone
sotterraneo fu pieno. Nessuno parlava, L’attesa, l’ansia, la curiosità
ammutolivano tutti.
Poi il Gran
Maestro apparve. Portava sul petto il triangolo d’oro in campo azzurro,
simbolo del suo grado.
Il silenzio
acquistò maestosità. Tutti stavano trattenendo il fiato. E il Gran Maestro
parlò. Il suo viso, ignoto ai più, sembrava scolpito nell’alabastro:
- Amici e
fratelli - cominciò - lo scopo principale per cui la nostra organizzazione
venne creata quattordicimila anni fa, è stato raggiunto. Per generazioni e
generazioni, gente come voi ha servito la causa senza chiedere, senza sapere
nulla. Questo è il momento in cui voi tutti avete il diritto di ascoltare
quanto ho da dirvi. Questo continente in cui ci troviamo, non è stato
scelto a caso come luogo del nostro convegno. Io ero appena un bambino
quando tutto ciò che qui esisteva venne travolto un immane catastrofe.
Parlo di oltre quattordicimila anni fa.... -
Un brusio di
stupore corse nella sala. Poi tutti tornarono attenti. Il Gran Maestro
raccontò succintamente la storia di Atlantide, parlò della sua civiltà e
della sua improvvisa distruzione. Parlò di un’intelligenza che volle
annientare quella civiltà, ma non disse tutto ciò che sapeva l Il mondo
non era ancora per conoscere tutto.
Il Gran Maestro
parlò ininterrottamente per molte ore.
- Pochi
sfuggirono alla morte, quando la Terra spostò i suoi poli, ma io e mio
padre fummo tra questi. Riparammo in Australia e lì mio padre poté portare
a termine i suoi studi sul ricambio dell’acqua nelle cellule corpo umano.
Il mistero della vita e della giovinezza era racchiuso nella soluzione quel
problema: non permettere alle cellule di disidratarsi. Per far questo
dovette intervenire nel codice genetico sintetizzando tratti di una
complessa molecola deossiribonucleica, fonderla nel nucleo in modo potesse
ordinare la sintesi di una speciale proteina che impedisce appunto la
perdita dell’acqua.
I pochi
superstiti cercarono di organizzarsi. Ma erano quasi senza mezzi. Tutta la
civiltà era basata sulle macchine, ed ora queste non esistevano più. I
pochi razzi che ci avevano portato in salvo dovettero venire smontati per
provvedere alle più urgenti necessità. Nacquero alcuni bambini e fu
difficile far capire loro quanto era successo, parlare loro di cose che non
avevano mai visto e che forse non avrebbero visto mai quando invece la
foresta era una cosa vera, viva, contro cui lottare, e veri e attuali i suoi
problemi e la sua gente. Allora in Australia vivevano delle tribù
primitive, una razza alta, olivastra, molto intelligente.
Col passare
degli anni, capimmo che quando tutti i superstiti di Atlantide fossero
morti, sarebbe morto con loro anche il ricordo delle mete conquistate e
soprattutto quello della punizione venuta da una potenza misteriosa che
aveva fermato l’uomo alle soglie dello spazio.
Fu allora che
mio padre ebbe l’idea di sperimentare su di me le sue scoperte genetiche.
Egli mi disse che se fosse riuscito nel suo intento, io sarei vissuto per
secoli e forse per millenni e nessun segno di vecchiaia sarebbe mai apparso
nel mio corpo. Anche le malattie mi avrebbero quasi sempre risparmiato. Non
fu proprio così, tuttavia la scoperta di mio padre raggiunse il suo scopo.
Non ero in grado di capire l’intera strada che lo aveva condotto alla
scoperta. Ma non istruì nessuno allo scopo di generalizzarla. Forse temeva
che ne avremmo fatto pessimo uso o forse voleva che io fossi solo. Così
avrei potuto votarmi interamente a quella che doveva diventare per me una
vera e propria missione.
Gli anni
passarono nel piccolo villaggio che avevamo costruito ai margini di una
rigogliosa foresta, e col passare degli anni vidi morire, uno ad uno, tutti
coloro che per esperienza diretta ricordavano le meraviglie della nostra
civiltà assassinata. I nostri discendenti si imbarbarirono nel giro di
poche generazioni. Con gran fatica io riuscii ad insegnare loro qualcosa...
Forse in altre
parti della Terra, altri piccoli nuclei dl Atlantidi avevano subito una
sorte analoga alla nostra. Dopo duecento anni dalla catastrofe, era già
arduo distinguere uno dei nostri discendenti da quelli delle tribù
primitive con cui vivevamo. Gli incroci ormai erano stati troppi. La gente
nasceva viveva e moriva. Io rimanevo immutabile. Il tempo su di
me pareva non lasciare traccia. Solo più tardi mi accorsi che non era cosi.
Anch’io stavo invecchiando, però in un modo spaventosamente lento.
Sapevo quello che mi aspettava
nei millenni futuri. Tutta la sapienza di Atlantide riposava in me. Il mio
compito sarebbe stato quello di aiutare gli uomini nel loro testardo cammino
verso la perfezione. Soprattutto avrei dovuto essere presente quando sarebbe
tornato il momento del pericolo: quando cioè gli uomini si sarebbero
apprestati a lasciare il pianeta per tentare l’avventura cosmica. Non
posso dirvi come abbia intuito di che genere avrebbe potuto essere il
pericolo e da che parte sarebbe potuto venire, però sapevo che al momento
giusto ce lo saremmo di nuovo trovato di fronte.
Lasciai l’Australia.
Volevo visitare il pianeta. Speravo di trovare altrove una civiltà più
avanzata. Mi ingannavo. La Terra era una landa selvaggia. Mi stabilii sulle
coste dell’Asia. Non potevo stare troppo a lungo nello stesso posto: non
volevo che la gente notasse il perpetuarsi della mia giovinezza. Sarebbe
stato troppo pericoloso per la mia vita e io sapevo quanto fosse preziosa
per il genere umano. Tuttavia nacquero delle leggende sul mio conto presto
storpiate dalla fantasia popolare. L’uomo si stava incamminando verso le
sue mete. Fu soltanto dopo il primo millennio dalla catastrofe abbattutasi
sulla mia gente, che pensai di organizzare una setta che potesse, nel tempo,
espandersi su tutta la Terra. Sentivo il bisogno di dividere il mio segreto
con un mio simile. Cominciai a cercare l’uomo degno di tanta fiducia, e
passarono ben tremila anni! Infine lo trovai, Viveva in una regione allora
detta Mesopotamia ed era un uomo di grandissime doti morali e intellettive.
Egli divenne il primo Gran Maestro e saggiamente si preoccupò subito di
istruire un altro uomo che potesse succedergli in caso di una sua improvvisa
morte. Io non dissi tutto a quell’uomo, ma quello che dissi gli bastò.
Era nata la nostra setta, fratelli: più di diecimila anni fa!
Io rimasi nell’ombra mentre i
secoli scivolavano via, uno dietro all’altro, apparentemente uguali,
eppure apportando sottili miglioramenti nei neuroni della nostra specie.
Sorsero i primi grandi imperi, le prime grandi città. Dopo migliaia di
anni, potevo passeggiare su strade lisce, in mezzo a mura costruite dall’uomo!
Intanto la nostra setta si
espandeva sempre più. Gli adepti non sapevano quasi nulla, ma proprio il
mistero ne facilitò l’espansione. Io vegliavo su di essa ed essa sul
mondo. Ero tornato ad essere solo. Nessuno mi conosceva, nessuno immaginava
chi fossi. Alcune volte fui Gran Fratello, altre dovetti rifiutare di
divenire Gran Maestro. Ormai nella mia mente si era formato un piano
preciso: sarei diventato Gran Maestro soltanto il giorno in cui si sarebbe
approssimata nuovamente la mortale minaccia per il genere umano.
Molti Gran
Maestri divennero famosi. Molte scoperte, molte conquiste della tecnica e
dello spirito, furono merito loro. Intanto la nostra setta cominciò a
diventare troppo numerosa per sperare di restare segreta. E si dovettero
nascondere i suoi scopi sotto altri, meno clamorosi.
In Grecia,
Luciano di Samosata scrisse un racconto in cui immaginava di andare sulla
Luna! La nuova era stava veramente sorgendo! In soli duemila anni, l’umanità
si ritrovò di nuovo affacciata sulla porta che immette nel buio abisso
siderale.
Ma il mondo era
diviso in due grossi blocchi, entrambi potenti e bisognerà distruggerne uno…-
Il Gran Maestro
si interruppe, e sorrise. Il suo volto sembrò appena per un attimo perdere
la sua solennità inumana, poi si ricompose in quella fissità quasi
ipnotica che incatenava l’uditorio.
- Scusate,
Fratelli, questo lo state vivendo anche voi e sarà meglio riassumere. Come
sapete, dunque, due potenze sulla Terra minacciavano di distruggere il
pianeta senza attendere l’intervento di una mano straniera. E la nostra
setta, noi, voi, scongiurammo questo pericolo. Fiduciosi negli uomini,
abbiamo scelto una strada molto pericolosa, ma la più rapida di tutte:
abbiamo messo nelle mani dei responsabili, delle armi spaventose, una delle
quali basterebbe per mandare in frammenti la Terra. I capi delle due forze
si trovarono cosi in possesso di un’arma troppo tremenda per essere usata
senza morire essi medesimi e compresero finalmente di essere abitanti di uno
stesso, piccolo globo, sperso nell’immensità dell’Universo. Cosi
trasferirono negli spazi le loro rivalità. Il momento fatale si avvicinava.
Da qualche anno io avevo assunto il rango di Gran Maestro.
Puntualmente l’alieno
tornò per distruggere. Ma stavolta noi eravamo pronti. Purtroppo non posso
dirvi come e perché la catastrofe non avvenne, ma non fu merito nostro, o
almeno non soltanto per merito nostro. Un’intelligenza superiore aveva
già stabilito che questa era l’ora giusta perché gli
uomini
cominciassero la loro grande avventura.
Questo è tutto,
signori, il cammino dell’evoluzione è ancora molto lungo e non procede in
linea retta, si adatta agli ambienti, a volte sembra tornare sui suoi passi.
Per questo il Grande Convegno deve acquistare un altro significato oltre
quello che predisposi molti millenni fa. La nostra setta deve continuare la
sua tutela sul mondo. E così sarà fino a che l’uomo diventerà dio:
onnisciente e onnipresente. Fino a quando l’intelligenza non ingoierà l’Universo.
-
Il Gran Maestro
tacque. Il silenzio continuò a regnare nella sala. Il vecchio indicò un
uomo
con un dito
teso.
- Tu, Gran
Fratello, sarai il nuovo Gran Maestro. A te confiderò tutti i miei segreti.
A tua volta tu dovrai cercare tra questi uomini il tuo futuro sostituto. Io
lascio questo mondo. La mia vita è stata lunga, e in tutti questi millenni
non ho trovato quello che il mio animo cerca perché i tempi qui non sono
maturi, ma ho trovato il luogo dove andare. Amici, fratelli miei, addio! E
che l’umanità possa esservi grata per quanto farete per essa !
Il Gran Maestro voltò le spalle
all’assemblea e sparì lungo un corridoio che si apriva sui fondo della
sala. Dietro a lui, sparì l’uomo prescelto come suo successore.
Nessun applauso,
nessun segno esteriore di commozione, si manifestò nei convenuti che
lentamente, ordinatamente, cominciarono a sfollare, Erano stati testimoni
della chiusura di un’epoca, ma ora ne cominciava un’altra non meno
complessa e non meno impegnativa.
Le parole di quell’uomo che
aveva sfidato i millenni, solo con il suo segreto, erano un esempio luminoso
per tutti loro.
Gli aerei scivolarono rombando
sui ghiacci. Negli occhi di tutti, adesso, là dove prima non avevano scorto
che gelo, c’erano i perfetti, altissimi palazzi di Atlantide. Gli uomini
li avrebbero ricostruiti e avrebbero ridonato al glorioso continente
dimenticato le sue dolcissime primavere.
Nel frattempo, un uomo veniva a
conoscenza di tutti i segreti celati nelle pieghe del cervello del Gran
Maestro. In una stanza semibuia era incominciato il dialogo tra i due
uomini. Ininterrottamente, per otto giorni e otto notti, i loro pensieri si
unirono, si scontrarono, si mescolarono. La personalità del Gran Maestro si
stava trasferendo, per un processo simile all’osmosi, in quella del suo
successore.
Infine, il prescelto conobbe
tutti i segreti delle risonanze cosmiche, dell’atomo, del tempo, dello
spazio.
Adesso il vecchio era solo. Non
era più Gran Maestro, non era più il tutore della razza umana. Il suo
lungo viaggio di millenni era finito. Accarezzò con le dita stanche il
triangolo d’oro in campo azzurro: i simboli della grande Atlantide! La
civiltà della sua gente non era stata inutile. La sapienza di Atlantide
aveva guidato il mondo: la grande catastrofe era stata giusta, necessaria,
per l’omogeneo progresso del pianeta. Il piccolo frammento di tempo che è
la vita di un uomo comune è troppo breve perché egli possa veramente
giudicare gli ultimi effetti delle cose. Adesso però lui poteva
abbracciare, nel ricordo, l’avvicendarsi di infinite generazioni. Si
lasciò andare su di una sedia nera dall’alta spalliera. Non gli restava
da compiere che l’ultimo viaggio. E il richiamo non tardò a farsi udire.
Dolce, estenuante.
Il suo corpo si
immobilizzò sulla sedia. Il suo cuore si contrasse nell’ultima dell’infinita
serie di pulsazioni che lo avevano tenuto vivo attraverso tutta la Storia.
Il suo volto d’alabastro
si distese nella grande pace del non essere, mentre la sua anima udiva
sempre più distintamente il dolce richiamo della Perfezione.
XIX
La Gran Madre
riempiva la caverna. Immobile, eterno blocco di Intelligenza.
Arek risenti il
contatto telepatico con le familiari voci del suo universo. Poi il contatto
avvenne, dolce, estenuante, come sempre.
Infinite domande
trovarono la loro risposta. Lui, Arek, era libero! Lui, Arek, aveva
pienamente assolto la sua missione. Una cosa sola gli restava da compiere.
Un ultimo
viaggio.
Intanto le
immagini sfilavano nella sua mente.
Il rosso pianeta
Marte, visto dall’oblò di un’astronave, di una astronave terrestre!
Una formazione di dischi
volanti, capeggiata da Krl, volteggiava nel rosa pallido del suo cielo. Il
pianeta fratello si apprestava ad accogliere i primi astronauti venuti dalla
Terra.
Anth, nella sala del trono,
osservava la scena da un grande schermo televisivo. Il Figlio della Terra
piangeva! L’attesa di millenni era infine coronata di successo. I
terrestri si riunivano con i discendenti di Atlantide!
L’astronave
terrestre attutì la spinta antigravitazionale dei suoi motori e lo spazio
riprese la sue coordinate. Dolcemente, elegantemente, la macchina spaziale
toccò il suolo dell’astroporto di Ulm. Impacciati da goffe tute, quelli
che avevano creduto di essere i primi terrestri che avessero valicato l’abisso
dello spazio, scesero sulla sabbia compatta dell’astroporto.
I dischi
marziani calarono intorno all’astronave. I contatti radio erano già stati
stabiliti da diverse ore. Il pianeta rosso era in festa fin da quando era
giunta la notizia che un’astronave, mossa da motori warp anti g., aveva
lasciato la Terra diretti a Marte.
Un piccolo
marziano si diresse verso un Figlio della Terra nell’antico gesto di
amicizia che da quindici millenni affratellava le due razze. Le palme tese
del terrestre sfiorarono quelle del cittadino di Slva, capitale di Marte.
Arek era felice.
Ora restava un ultimo viaggio. Un viaggio strano.
La Gran Madre,
nella sua infinita saggezza, aveva tutto previsto. Però Arek adesso doveva
tornare sulla Terra. Doveva tornare nell’anno 1958 dell’era cristiana.
Doveva tornare per scrivere il libro "I Signori dello Spazio",
senza il quale tutta la realtà non avrebbe potuto essere come era.
La Gran Madre
dissipò i dubbi del Trug. Tutto quanto era successo era immutabile. Per
Arek soltanto, sarebbe esistito un paradosso nel tempo. Per Arek l’anno
1958 sarebbe venuto dopo l’anno 1959 e il XXI secolo prima del XX. Avrebbe
scritto il libro e conosciuto Lucy. Avrebbe solo ricordato il futuro. Poi
sarebbe svenuto nel momento in cui doveva entrare nel corpo di Henry per
"la prima volta"…
Arek doveva
costruire il passato. Altrimenti il paradosso temporale avrebbe distrutto
quella linea d’universo. E per quegli uomini non dovevano sapere, mai! La
loro ancora limitata intelligenza non avrebbe saputo usare un fenomeno così
delicato e pericoloso. Sarebbe bastata una svista, una soltanto, per
annullare tutta la realtà dei millenni futuri in quella linea di
probabilità degli eventi. Il tempo non esiste come divenire: presente,
passato e futuro sono realtà egualmente esistenti in una specie di
congruenza che probabilità gli eventi che creano sequenze. Una limitazione
di molte razze intelligenti impediva loro di sentire queste realtà. Ma la
Gran Madre aveva ormai superato questo stadio. Per essa il tempo esisteva
tutto in una volta sola. Come lo spazio: Ognuno occupa uno spazio per una
certa durata di tempo: un piccolo spazio per una breve durata. Negli
infiniti spazi esistenti e negli infiniti tempi "contemporanei"
non ci siamo. Spazi alieni e tempi infinito si stendono intorno a noi, non
dietro o avanti a noi. Essi esistono contemporaneamente. Il multiverso che
racchiude infiniti universi semplicemente è.
Arek intuì più
che capire. Perché lui non era più parte dei Tutto. Lui era ormai un
individuo, e così doveva essere. Arek era sceso nella scala evolutiva per
aiutare una specie a salire senza distruggersi. Il Trug sentì con sgomento,
svanire le sue facoltà telepatiche. Il suo io si stava isolando. Diventava
realmente e integralmente un bipede. Così era perché così doveva essere.
Così era sempre stato. Ma il suo corpo non sarebbe perito. Nulla poteva
scomparire nell’universo. Un’entità estranea a lui stava entrando nel
suo corpo. Il disagio fu grande, ma prima di partire per l’ultimo, grande
viaggio, Arek riconobbe l’intruso e fu felice di lasciare se stesso all’individuo
più sapiente della Terra.
Il Gran Maestro non avrebbe più
potuto abituarsi ad essere un uomo, come lui non avrebbe più potuto
continuare ad essere un Trug.
Il compito del bipede che aveva
salvato la sua specie era terminato.
Ora lui compiva un enorme balzo
in avanti. Si avvicinava alla Perfezione.
L’ultima cosa
che Arek apprese dalla Gran Madre fu la storia del suo popolo. La storia di
una molecola, la prima d’idrocarburi formatasi nello stagno del tempo.
Assistette, rapito, a tutte le sue innumeri trasformazioni. Vide i piccoli
unicellulari generare creature. complesse. I primi molluschi, i primi pesci,
le avventure strazianti e crudeli dell’abbandono dell’elemento acqua, i
primi anfibi, poi i mammiferi. e la comparsa dell’intelligenza emersa dal
complicarsi delle sinaspi e dei collegamenti di miliardi di neuroni. Ma
quello era il suo mondo, il suo pianeta...
Poi iu bipedi
continuarono la scalata verso la perfezione. La materia cedette il passo all’informazione,
all’immateriale, allo spirito. I corpi persero la vigoria muscolare, la
scienza favorì l’essenza : il cervello. Ora il cervello era autonomo,
immateriale, puro programma. Ma l’evoluzione continuò e i cervelli si
collegarono in una sola grande mente: era nata la Grande Madre.
L’ultimo
stadio era vicino: l’intelligenza pura, la coscienza totale, mentre in
infiniti luoghi e tempi il processo riprendeva partendo da una scossa degli
spazi, da un’energia che si faceva materia…
Dio: spirito, energia creata e
creante per essere ancora creata...
I concetti si annebbiarono nella
mente di Arek. Ormai il viaggio era iniziato.
Un ultimo augurio gli venne dal
proprio corpo, da quell’Arek che non era più Arek, a un Arek che si
accingeva a diventare veramente e pienamente umano!
EPILOGO
Henry spalancò
gli occhi. Aveva scritto il libro, aveva conosciuto Lucy e poi era svenuto
in un’aula scolastica. Ma adesso non era più nell’aula. Adesso la Luna
gli illuminava il volto e china su di lui c’era Lucy. La sua Lucy! E tutto
quello che aveva perduto gli sembrò nulla, in confronto all’amore che
lesse nel suo sguardo. Nel suo sguardo soltanto: il suo cervello di bipede
era incapace di attività telepatiche. Forse, al più, avrebbe potuto
impedire ad altri di penetrare in lui erigendo uno schermo mentale,..
- Non ci sei riuscito? Amore,
amore, sei ancora tu? - Lucy lo scosse, disperata.
Henry le sorrise, e la ragazza
fu sicura che quello era il suo Henry. Lei lo ricordava cosi sin da quando
lo aveva conosciuto, nel 1958, mentre stava scrivendo quel libro di
fantascienza. Lui non era mai stato un altro, ne era sicura, ma non glielo
disse. Cose strane erano successe, cose incomprensibili a cui si rifiutava
di pensare, felice soltanto che Henry, il suo Henry, fosse ancora con lei e
le sorridesse.
Lui la attirò a
sé e la baciò prima di risponderle:
- Sì, amore…
sono sempre io! Sono tornato per stare sempre con te. Tutto ormai è stato
compiuto
E ancora una
volta alla ragazza sfuggì la sfumatura di voce con cui Henry aveva
pronunziato quel "tutto".
FINE
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