3.2) Empedocle
Parlerò ancor più chiaramente. Essi ritengono
che il fuoco,
l’acqua, la terra e l’aria sono tutti elementi
naturali o frutto del caso, […] [1]
Con queste parole Platone, nel Libro X de
le Leggi
(888 b), inizia una lunga requisitoria contro
quel complesso di concezioni
foriere di empietà che devono incorrere nei
rigori delle sue virtuose “leggi”.
Qui il riferimento va ad un pensatore che
certo ateo non è, ma che agli occhi
del Sommo ha comunque il peccato imperdonabile
di essere un casualista, mentre
Aristotele, con motivazioni non inconsistenti
(ma probabilmente pro domo sua),
dubita che egli sia invece un necessitarista
(Physica, Θ, 1, 252 a
7). Ma ciò che, in aggiunta, indigna Platone
ai limiti dell’intollerabilità, è
il fatto che anche Empedocle possa teorizzare
un ontologia pluralistica e una
causazione “fisica” dell’essere del mondo
(sia pure, nel suo caso, in termini
mitico-metaforici). Così, in nome della monistica
“nostra famiglia eleatica”,
ne fa un fascio con altri (secondo lui) “fisici”
pluralisti (Sofista,
242 c-d) nei termini seguenti :
Mi sembra che ciascuno ci racconti una specie
di favola,
come se fossimo dei ragazzini. […] Uno [Ferecide
di Siro o Ione di Chio] dice
che gli enti sono tre […] Un altro [Archelao?]
afferma che gli enti sono due,
l’umido e il secco […] La nostra famiglia
eleatica, invece, che comincia da
Senofane, ed anche da prima, ritenendo che
sia una cosa sola quelle che sono
chiamate “tutte le cose”, è in questo senso
che ne tratta nei suoi miti. Ma
alcune Muse della Ionia [Eraclito] e in seguito
di Sicilia, ritennero che fosse
più sicuro intrecciare le due concezioni
e dire che l’essere è insieme
molteplice e uno, e che è abbracciato da
Odio e Amicizia.
E meno male che, secondo lui, Empedocle opererebbe
una
sorta di “compromesso” con la divina unità
eleatica, altrimenti lo avrebbe
trattato probabilmente già qui (ma si scatenerà
poi nelle Leggi) molto peggio.
In realtà invece (e lo vedremo) Empedocle
è un pluralista puro, che pensa il
mondo come costituito dai quattro elementi-base
e da due forze che li separano
e li connettono in un divenire cosmico continuo.
Il Nostro, che
nasce ad Agrigento intorno al 492 e muore
nel 432 a.C., pone per primo la
struttura plurale dell’essenza del mondo,
ed è da esso che possiamo far partire
la storia del pluralismo ontologico che porterà
all’ateismo teoretico, ancorché
Empedocle non possa definirsi ateo. Ma tale
lo considerava certamente Platone,
sia per la sua cosmogonia pluralistica e
sia per il suo uso del concetto di Tyche
come sinonimo di caso, concetto fisico-ontologico che Platone
non poteva
certo tollerare. Leggiamo così, ancora, nelle
Leggi (X, 891, c-d):
« […] V’è pericolo infatti che
colui che dice queste cose ritenga il fuoco,
l’acqua e la terra e l’aria come
principi di tutte le cose e proprio queste
cose chiami “natura” e ne derivi
successivamente l’anima. Anzi mi sembra non
che ci sia pericolo ma che proprio
questo ci indichi in realtà col discorso.
[…] Ebbene, per Zeus, non abbiamo
forse trovato una fonte, in certo modo, della
stolta opinione di tutti gli
uomini che mai abbiano messo mano alle indagini
sulla natura? Esamina anche tu,
analizzando [d] ogni discorso loro; perché sarebbe molto
importante se a
noi risultasse che coloro che si sono attaccati
a dottrine empie, nelle quali
guidano anche altri seguaci, neppur del discorso
sanno usar bene, ma commettono
degli errori.» [2]
Di Empedocle (che scrive in versi secondo
l’uso
dell’epoca) ci sono pervenute fortunatamente
due opere (sia pure incomplete),
il Poema fisico e il Poema lustrale, dalle quali è possibile
desumere il suo pensiero con una certa chiarezza,
anche se su di esso non sono
mancati equivoci da parte di chi ha voluto
vedere in lui un “mistico”, ben
aldilà di quanto alcune sue posizioni (nel
Poema lustrale) possano
far pensare. Anche nella lettura del Poema
fisico occorre non cadere in quegli equivoci che
talvolta possono sorgere
dalla traduzione letterale; non va infatti
mai dimenticato che si tratta di un
poema appartenente ad un genere filosofico-letterario
che doveva osservare
regole formali abbastanza codificate, riferibili
alla retorica mitologica e
poetica dell’epoca. Ma fin dal proemio, Empedocle, nel porre
chiaramente i sei fattori fondamentali dell’universo,
i quattro elementi e le
due forze antagoniste, che sono alla base
di tutta la dinamica dell’essere,
ci rivela il contenuto filosofico dell’opera.
Essi sono ingenerati ed “eterni”
(ma anche “eternamente instabili, come si
vedrà), mentre tutte le cose
inanimate e gli esseri viventi presenti nell’universo,
che da essi derivano,
sono “mortali” (1, 1-4):
Se mai per qualcuno degli
effimeri tu, musa immortale
Hai voluto visitare le umane
prove del pensiero,
allorché ti pregarono, anche ora
sii presente, o Calliopea,
mentre espongo il mio probo
ragionamento sopra gli dei felici;
dove gli “dei felici” non sono evidentemente
quelli
olimpici, bensì i sei fattori dell’universo,
che vengono specificati subito
dopo (1, 5-13): [3]
e in mezzo porterò questo tema
degli elementi non generati,
il fuoco e l’acqua e la terra e
l’immenso culmine dell’aria,
che mai non hanno inizio né
hanno termine alcuno,
e l’astio rovinoso, da parte, e
la concordia conciliatrice.
Di qui tutte le cose che furono
e saranno, e le cose che sono:
<gli uomini e le fiere ed i
pesci ed i virgulti>;
perché, quanto esisteva prima,
anche sussiste sempre; né mai,
per causa di uno solo
di entrambi, il tempo infinito
resterà deserto. [4]
Dato l’uso
poetico del tempo, dopo aver invocato Calliope
(quale musa della poesia epica e
didattica) e dopo aver poeticamente chiamato
“dei felici” gli eterni fattori
dell’universo (anche Lucrezio chiamerà talvolta
“dei” gli atomi democritei ed
epicurei) nel ribadire il rapporto metaforico
degli elementi (chiamati
anche radici) Empedocle delinea il suo criterio di conoscenza
col quale
“il simile conosce il simile” (un criterio
presente anche in Leucippo e
Democrito). Così prosegue l’agrigentino (1, 53-62):
Senti prima i quattro nomi che
sono le radici di tutto:
lo smagliante Zeus ed Hera
altrice, ed Aidoneo
e Nestide, che inonda di lacrime
la vasca umana.
Con la terra, infatti, noi
vediamo la terra, e con l’acqua l’acqua,
e on l’etere l’etere celeste, e
con il fuoco il fuoco tremendo;
e l’amore vediamo con l’amore, e
così l’astio con l’astio luttuoso;
perché con i mezzi che
compongono in armonia tutte le cose del mondo
con quelli pensano gli uomini, e
si rallegrano e si angustiano;
e poi, quanto diversi
cangiamenti hanno subito, tanto diverse immagini
ogni volta anche il pensiero
suggerisce a loro nel sonno. [5]
Troviamo più avanti un nuovo accostamento
metaforico
elemento/dio nell’elogio della concordia
(4, 20-24):
Ma la concordia tu mirala con la
mente; non rimanere stupefatto con gli occhi.
Anche in mortali membra si
ritiene ch’essa si generi,
ed è così che la gente nutre
pensieri affettuosi, e compie azioni amorose,
chiamandola coi nomi di Gioia e
di Afrodite; ma nessuno degli uomini mortali
ha imparato che turbina con
tanta massa degli elementi.
passa quindi a precisare meglio la natura
dei quattro elementi
nei termini seguenti (4, 26-39):
Questi fattori si equivalgono
tutti, ed hanno uguale l’età,
ma ognuno possiede il proprio
rango, ognuno ha l’indole propria
ed a vicenda comandano durante
il tempo trascorrente,
Oltre a questi, poi, non si
aggiunge nulla, e nulla neppure finisce.
Se infatti perissero nella
successione del tempo, già più non ci sarebbero.
Oppure questo che è il tutto
sarebbe aumentato: ma con che cosa, che pure
arrivi da qualche parte?
Nel
tutto non c’è un posto che sia vuoto: da
dove, dunque, qualcosa può
sopraggiungere?
Né poi c’è nulla di vuoto,
quando sussiste l’uno, né nulla di soverchio.
E
allora, come può qualcosa anche venire a
mancare, quando al di là di tutto
questo non c’è nulla abbandonato?
Invece
esistono solo questi elementi, e gli uni
trascorrendo attraverso gli altri
si
presentano via via in corpi diversi, ma sempre
uguali a sé permangono
perpetuamente.
Infatti
tutti gli elementi, l’elettro e la terra
ed il cielo ed il mare,
sono
bene disposti verso quelle parti di loro
stessi,
che,
staccate da loro, si sono prodotte in corpi
mortali. [6]
Ma vediamo ora
come si formano le singole cose (i corpi
mortali) in questa fenomenologia
dell’universo empedocleo (6, 8-13):
Da quella materia mescolantesi
alla rinfusa, molti elementi permangono distinti:
tutti quelli che l’astio,
sollevato in alto, ancora tratteneva; e strenuamente
giacché
non è rimasto, verso gli estremi
confini dell’orbita, al di fuori del tutto,
ma dentro rimaneva in una parte
dei componenti, e dall’altra era uscito;
e di quanto volta a volta gli
avvenisse di cedere, di tanto subentrava,
volta a volta,
il benigno slancio inestinguibile
della stregua concordia. [7]
I quattro
elementi-base dell’universo danno luogo alla
pluralità del reale percepibile in
virtù della concordia-amore-amicizia e queste si disgregano a causa
dell’astio-odio. Le azioni di questi due principi “dinamici”
si
avvicendano e con ciò determinano il ciclo
cosmico, che si estrinseca nelle
fasi dello sfero (quando prevale l’amore) e del caos (quando
prevale l’odio). Come si noterà non si può
pensare all’opera empedoclea come ad
un capolavoro di coerenza; non mancano infatti
dei punti del Poema fisico in
cui l’autore sembra tirare in ballo una natura
divina dello sfero, quale
principio di tutto ciò che esiste (una specie
di intelletto che muove il
mondo), ma tralasciando tali sporadici elementi
di incoerenza si può
ragionevolmente ascrivere alla concezione del mondo di Empedocle una
sostanziale coerenza materialistica. Né questa
lettura può ritenersi intaccata
dal successivo Poema lustrale (letteralmente Purificazioni), in
realtà un’epistola di argomento etico, dove
egli espone una teoria della
metempsicosi [8] ed
implicitamente dell’anima. [9]
Un aspetto
molto importante della fisica empedoclea
è la totale assenza di una legge
cosmica universale (come sono il logos in Eraclito e, in qualche misura,
il noùs di Anassagora), così come manca un principio
di necessità
nell’esistenza dei sei fattori fondamentali
dell’universo, che nella loro
continua dinamica mutazionale creano la realtà.
La fenomenologia formativa e
distruttiva pare avvenire assolutamente “a
caso” e ciò è testimoniato dai
ricorrenti “a volte….a volte” (4, 7 ed 8; 4, 47 e 49; 22,
5 e 6; 44 1-3) [10].
Lo Zeller mette in rilievo che: «In realtà Empedocle spiega diversi fenomeni
con un non meglio chiarito e perciò casuale
moto degli elementi. Egli non ha ancora
teorizzato la presenza di una legge costante
in tutti i fenomeni naturali».
Estremamente interessante questo “non ha
ancora”, che rivela come il grande
studioso della filosofia greca colga ciò
come un “mancanza” e gli sfugga il
fatto fondamentale che il divenire di Empedocle è del tutto differente
da quello mistico che Eraclito aveva precedentemente
posto, essendone un
superamento che lo Zeller, nella sua intepretazione
platonico-aristotelica, non
riconosce. Noi riteniamo, infatti, che si
potrebbe ragionevolmente ribaltare il
giudizio e affermare che era Eraclito a “non
aver ancora” superato il principio
di necessità, come d’altra parte Parmenide, che addirittura
la
considerava come “perfezione dell’essere”. In realtà lo Zeller è,
probabilmente, ancorato all’opinione di Aristotele,
che ovviamente non poteva
che rimproverare ad Empedocle questa
“indeterminazione” [11]. Ma d’altra parte lo Stagirita non poteva
sapere che i fisici e i biologi di 25 secoli
dopo sarebbero stati costretti a
riabilitare il caso per una questione di gnoseologica “necessità”
scientifica.
Ci prendiamo
qui nuovamente la libertà di astrarre per
un’istante dall’ateismo antico, di
cui ci stiamo occupando, per concederci un
inciso. E lo facciamo cogliendo
l’occasione che proprio Empedocle ci offre
(in quanto primo sostenitore,
accanto ad Anassagora, del pluralismo ontologico)
per confermare qui il nostro
punto di vista sull’essenza della teoresi
atea di cui stiamo cercando le
origini. Noi riteniamo che essa possa dirsi
autentica soltanto ove si tenga
lontana da ogni forma di metafisica, poiché
questa è sempre il Cavallo di Troia
del divino, e il divino messo fuori dalla
porta dal naturalismo riesce sempre a
rientrare dalla finestra attraverso la metafisica
dell’idealismo. Un filosofia
atea degna di questo nome si realizza concretamente
non soltanto quando ci si
liberi da ogni evidente ipostasi divina,
ma quando la si basi su due fondamenti
teorici irrinunciabili, che sono: la già
citata pluralità delle sostanze
ed il caso. Questo va ammesso (accanto alla necessità) come
fattore ontologico a pieno titolo, e ciò
in base al sostanziale indeterminismo
del divenire macro-cosmico, a cui si accompagna quello
micro-cosmico
della materia elementare. Ogni sedicente
filosofia atea che abbia esplicitamente
o accarezzi tendenze monistiche e/o ponga
la necessità come assoluta,
ovvero il determinismo, a fondamento dell’essere, diventa, a
nostro parere, irrimediabilmente autocontraddittoria
e potenzialmente soggetta
ad una sua “metafisicizzazione” che nasconde
sempre una forma criptata di
“telogizzazione”. Il determinismo, ponendo l’unità-totalità di un essere
necessitato, non fa che ri-vincolarsi ad
una metafisica che non riesce né a
rinunciare alla compulsiva ipostasi dell’unitarietà
dell’essere né alla
soggiacenza a una qualche legge divina o
pseudo-divina che elimini la
casualità. Il caso, in quanto risultante di cause sconnesse [12],
è secondo noi il vero “motore fisico” di
ogni cambiamento macroscopico
dell’universo e dei comportamenti delle particelle
elementari subnucleari; come
lo è anche di tutte le mutazioni genetiche
che hanno determinato, determinano e
determineranno l’evoluzione biologica del
pianeta, in ogni suo aspetto.
Dopo aver
enucleato , sia pur sinteticamente, il pensiero
empedocleo in base ai suoi
scritti, seguiremo ora alcuni commenti posteriori,
laddove essi assumano un
particolare interesse. E tra questi vi sono
certamente quelli di Aristotele,
che ha considerato attentamente il suo pensiero
in modo analitico, cogliendone
gli aspetti (secondo lui) positivi ed altri
negativi, ma, probabilmente, con
qualche equivoco. Nella Metafisica
(I, A, 4, 985 a 21 – 28) si dice:
[…]; ed Empedocle più di
Anassagora fa uso delle cause, ma neanche
lui in modo sufficiente, né riesce a
mettersi d’accordo con se stesso. Non poche
volte pertanto secondo lui
l’Amicizia disgrega e la Contesa è causa
di aggregazione. Difatti, quando
l’universo vien ridotto ai suoi elementi
differenziali per opera della Contesa,
allora si riscontra una riduzione all’unità
del fuoco e di ciascuno degli altri
elementi; quando, poi, questi vanno a ricomporsi
in un’unità per opera
del’amicizia, allora inevitabilmente le particelle
di ciascun elemento vengono
di nuovo separate tra loro. [13]
Quello che sfugge qui allo Stagirita, che
ragiona dal
punto di vista di un’ontologia eminentemente
“statica”, è che quella di
Empedocle (aldilà dei suoi aspetti metaforici)
è invece un’ontologia “dinamica”
(all’incirca, un panta rei meno mistico e più intermittente di quello
eracliteo). Cosa che sembrava aver meglio
colto Platone, laddove nel Sofista
l’aveva accostato ad Eraclito. Mentre invece
Aristotele ha abbastanza
ragione là dove osserva che i quattro elementi
non sono del tutto equivalenti,
poiché il fuoco pare assumere un ruolo “speciale”.
Così egli osserva poco dopo
(I, A, 4, 985 a 29 – 985 b 2):
Empedocle, comunque, introducendo questa
causa, seppe operare,
a differenza dei suoi predecessori, una distinzione
col porre non un unico
principio di movimento, bensì due che fossero
anche contrari tra loro e, oltre
a ciò, egli fu il primo ad affemare che sono
quattro i cosiddetti elementi di
specie materiale (quantunque egli non si
serva di tutti e quattro, ma li riduca
in realtà solo a due, ossia da una parte
si serve solamente del fuoco e,
dall’altra aprte, degli opposti di questo
– terra, aria e acqua -, come se
costituissero un’unica natura; e ciò si può
evincere dall’esame dei suoi versi.
[14]
Chiudiamo con
Aezio, il quale (non sappiamo su quel base
e col dubbio di qualche confusione
con altri pensatori), ci rilascia su Empedocle
alcune informazioni che suonano
un po’ difformi da quelle consuete e che
potrebbero essere forse (ma il dubbio
è d’obbligo viste anche altre sue arbitrarietà)
riferite a ciò che degli
scritti dell’agrigentino non ci è pervenuto. Abbiamo così (I, 13, 1, Dox.312,
Vors.31.A.43a) una nota circa il fatto che i quattro
elementi sarebbero
stati a loro volta costituiti da sub-elementi
“minimi” della materia:
Empedocle parlava di frammenti
minimi, anteriori ai quattro elementi, come
dire, cioè, di elementi similari
anteriori agli elementi. [15]
Se la notizia fosse attendibile Empedocle
potrebbe aver
anticipato Leucippo nel teorizzare gli “indivisibili”,
ma non meno i “semi” di
Anassagora; oppure, e sembrerebbe più plausibile,
che gli fossero giunte
notizie sulla filosofia di quei due suoi
colleghi e che egli le avesse ritenute
non inconciliabili con la propria. Ma a complicare
le nostre ipotesi ci pensa
lo stesso Aezio là dove accosta Empedocle
a Senocrate (un post-platonico che
succedette a Speusippo nella guida dell’Accademia
dal 339 al 315 a.C.) in un
frammento successivo (I, 17, 3, Dox.315, Vors.31.A.43b)) dove
afferma:
Empedocle e Senocrate compongono
gli elementi da masse più piccole, le quali
sono minime e quasi elementi degli
elementi. [16]
Ma Senocrate non avrebbe certo pensato tali
“elementi
degli elementi” in termini fisici, ma semmai
puramente matematici (qualcuno ha
parlato di un suo para-atomismo misticheggiante
che avrebbe potuto influenzare
persino Epicuro). E tuttavia Aezio insiste
ancora (I, 24,2, Dox. 320, Vors.
31.A.44) accostando questa volta Empedocle
ad Anassagora, a Democrito e ad
Epicuro sostenendo che:
Empedocle, Anassagora,
Democrito, Epuro e tutti coloro che costituisono
l’universo per aggregazione di
minuscole particelle corporee, introducono
la mescolanza e la disgregazione, ma
non propriamente la generazione e la corruzione;
giacché queste cose [secondo
loro] si hanno non per mutazione secondo qualità,
ma per aggregazione
secondo quantità. [17]
E qui emerge il peripatetico che probabilmente
eccheggia
lo Stagirita, il quale, nel De cielo (III, (Γ), 5, 3 b e ss.) aveva
affrontato diffusamente questo argomento.
Chiudiamo con un’ultima affermazione
di Aezio, anch’essa del tutto insolita in
riferimento ad Empedole (I, 24,2, Dox.
320, Vors. 31.A.44):
Empedocle dice che vi è un solo
mondo, ma che tuttavia questo mondo non costituisce
il tutto, bensì solo una
piccola parte del tutto. [18]
Se Empedocle avesse veramente pensato questo
avrebbe
anticipato (ancora una volta) di venticinque
secoli quei fisici contemporanei
che teorizzano essere il nostro universo
soltanto uno dei moltissimi universi
esistenti. [19]
[1]
Platone Tutti gli scritti – Leggi - Bompiani, 2004, p.1676
[2] Platone Opere complete – 7 – Leggi – Laterza 1992 - p.327-328.
[3] È Sant’Ippolito, un apologeta cristiano del III sec. d.C., a rilasciarci la più chiara definizione di che cosa siano gli “dei” per E.: «Dice Empedocle che sono sei in tutto gli elementi, di cui il cosmo è composto: due sono materiali, terra e acqua, e due organici, fuoco e aria, con cui la materia si ordina e si modifica, e due agenti, astio e concordia, che lavorano con quei mezzi organici la materia e costruiscono; dice così: Zeus è il fuoco, l’alma Hera la Terra….Aidoneo è l’aria, perché per lui vediamo tutto, ma lui soltanto non vediamo; Nestis è l’acqua…[…]» (da Testimonianze in Empedocle Poema fisico e lustrale (a cura di Carlo Gallavotti) – Mondadori 1993 – p.131.
[4] Empedocle Poema fisico e lustrale (a cura di Carlo Gallavotti) – Mondadori 1993 – p.7
[5] I nomi divini degli elementi sono dati a coppie: una celeste, Zeus (il fuoco) ed Hera (l’aria) e una terrestre, Aidoneo (la terra) e Nesti (l’acqua). Il Gallavotti (op.cit. pp.173-174) pone il problema dell’identificazione della seconda coppia di teonimi, anche basandosi sulle testimonianze dossografiche e letterarie, ma senza pervenire a una chiarificazione della loro origine.
[6] Ivi pp.19-21.
[7] Ivi p.23.
[8] A questo proposito lo Zeller osserva: «Ma anche se un medesimo spirito anima le teorie religiose e fisiche di Empedocle, tuttavia il filosofo non s’è curato di stabilire tra esse un rapporto di tipo scientifico, né di dimostrarne la conciliabilità. Infatti se la vita spirituale è solo una conseguenza dell’unione di sostanze materiali, è condizionata, come vita individuale, da questa determinata combinazione di sostanze , per cui l’anima non può né esistere prima della formazione né sopravvivere alla sua distruzione […[ Bisogna dunque ammettere che E. abbia derivato la dottrina della metempsicosi e le connesse teorie dalla tradizione orfico-pitagorica, senza però stabilire un nesso scientifico tra questi articoli di fede e le convinzioni filosofiche da lui in altro luogo e in altro contesto espresse.» (E. Zeller – R. Mondolfo La filosofia dei greci – vol.V – La Nuova Italia – Firenze 1969 – pp.87-88 ).
[9] Carlo Gallavotti ritiene che non vi sia contraddizione tra la teoria fisica e la dottrina etica: «È questo, nel poema lustrale, l’altro aspetto da rilevare per lo sviluppo storico del pensiero greco. È uno scritto di etica: sta alle origini di questa nuova disciplina filosofica, e sorge nell’ambito sociologico, in armonia (e non in opposizione) con un sistema di filosofia naturalistica già costituito, e precedentemente elaborato. È il primo segno, per noi, di quella svolta che segnerà il pensiero filosofico attraverso i sofisti e Socrate, spostando il proprio interesse dall’indagine fisica a quella morale. […] Quindi la dottrina etica di E., e la stessa teoria della palingenesi, derivano direttamente dalla sua teoria fisica, e concordano in maniera perfetta.» (Empedocle Poema fisico e lustrale (a cura di C. Gallavotti) – Mondadori 1993 – pp. XIV e XV).
[10] Ciò riceve anche conferma dal frammento dell’ Aristotelis Physica (331, 10) di Simplicio (I Presocratici – tomo primo - Laterza 2004, p.405) in cui si afferma (103, [312 K., 125 St.]): «E ancora molti casi si potrebbero trovare nell’opera di Empedocle Sulla natura che offrono esempi di tal genere, come anche questo: “E per tale volere della Sorte [del Caso] tutte le cose son assennate.». Abbiamo inserito [del Caso] perché non condividiamo il termine “Sorte” con cui Gabriele Giannantoni traduce il termine greco τύχή. A noi pare infatti che se da un punto di vista antropologico “sorte” e “caso” possano essere equivalenti, ma che non altrettanto lo siano sul piano ontologico (relativamente, qui, a “tutte le cose”), per cui, in questo caso, riteniamo più corretto e significativo il secondo termine.
[11] Il Mondolfo rileva questo rimprovero in De generatione et corrupt. II,6, in Phis. II,4 e in Phis. VIII, 1.
[12] Abbiamo esposto la nostra interpretazione del fenomeno “caso” nel § 4 (Le leggi e il caso) del capitolo III di Necessità e Libertà (Editrice Clinamen 2004) alle pp.77-79.
[13] Aristotele Opere,
Metafisica – Laterza 1973, p.18.
[14] Ibidem.
[15] I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo primo, Laterza 2004, p.347.
[16] Ibidem.
[17] Ibidem.
[18] Ibidem.
[19] Lo pensano il russo Andrei Linde e l’inglese Dennis Sciama. Ma la molteplicità dgli universi è anche implicato dalla Teoria delle Superstringhe.