IL PRIMATO DEI POVERI

 

Pellegrino sulle strade d'Italia, ho letto e riletto un libro: Vicari di Cristo. I poveri nella teologia e nella spiritualità cristiane (EDB), a cura del teologo spagnolo González Faus. Mi ha molto impressionato vedere come la tradizione biblica, o meglio la tradizione mosaico-profetica-gesuana continui per tutti i venti secoli di storia della chiesa: cioè il primato dei poveri. È interessante notare come i papi si siano appropriati dell'appellativo di "vicari di Cristo", mentre i dottori della chiesa lo avevano dato ai poveri: sono i poveri il volto di quel povero Cristo.

"Avido è colui che non si contenta del necessario e ladro è colui che toglie agli altri quanto è loro - diceva Basilio nel IV secolo -. E tu non sei forse avido o ladro, nel momento in cui ti appropri di ciò che ti fu dato soltanto perché tu lo amministrassi? Se diamo il nome di ladro a chi spoglia dei propri abiti uno che è vestito, daremo forse altro nome a chi non veste un ignudo, pur potendolo fare? Il pane che tu tieni per te è quello dell'affamato".

È questa tradizione che dura, costante, con tutte le mediazioni che González Faus ci spiega così bene, fino al Vaticano II. L'ultimo brano di questa antologia stupenda è infatti un testo di padre Ellacuría, ucciso in El Salvador insieme ad altri tre gesuiti, che afferma con molta durezza che "nel Salvador anche l'estrema destra è arrivata nel suo complesso a riconoscere che, nel paese, il problema principale non è la povertà ma la miseria, la quale colpisce più del 60% della popolazione. Questo accade oggi a pochi chilometri da quello che è il cuore stesso del capitalismo internazionale".

E padre Ellacuría chiede "che si vada verso una civiltà della povertà, che si contrapponga a quella civiltà della ricchezza che sta portando il mondo alla propria consunzione senza per altro conseguire lo scopo di dare agli uomini la felicità che loro spetta". Da Basilio a Ellacuría abbiamo una tradizione ininterrotta che mette al centro i poveri e domanda che lo "spezzare il pane" sia il cuore dell'esperienza cristiana. E questo vale per i singoli cristiani come per le comunità e per l'istituzione chiesa.

Ne troviamo una splendida esemplificazione in un testo di sant'Ambrogio, vescovo di Milano e dottore della chiesa, quando parla dei beni della chiesa: "Colui che inviò senza oro gli apostoli (Mt 10,9) fondò anche la chiesa senza oro. La chiesa possiede oro non per tenerlo custodito, ma per distribuirlo e soccorrere i bisognosi. Dunque che bisogno c'è di conservare ciò che, se lo si custodisce, non è in alcun modo utile? Non è forse meglio che i sacerdoti fondano l'oro per il sostentamento dei poveri, piuttosto che di esso si impadroniscano sacrilegamente i nemici? Forse non ci dirà il Signore: Perché avete tollerato che tanti poveri morissero di fame, quando possedevate oro con il quale procurarvi cibo da dare loro? Meglio sarebbe stato conservare i tesori viventi che non i tesori di metallo".

E questo suggerimento di Ambrogio viene ripreso da Giovanni Paolo Il nella Sollicitudo rei socialis, che raccomandava di ritornare a quell'antica pratica.

Proprio in questi giorni mi è capitata tra mano un'inchiesta della Fondazione Tonino Bello su come le diocesi italiane abbiano risposto al suggerimento papale. Lettera morta.

Quando le nostre chiese italiane così cariche di oro e di beni troveranno il coraggio di muovere i primi passi verso questa prassi? Davanti all'immane tragedia dei poveri, le nostre chiese resteranno ancora titubanti? "L'addobbo dei sacramenti è la redenzione, ossia il riacquisto dei prigionieri - scrive Ambrogio -. Vasi autenticamente preziosi sono quelli che servono a redimere gli uomini dalla morte. Tesoro vero è quello che realizza ciò che il Signore operò col proprio sangue".